Riflessioni di uno in cammino

J BJonathan Simone Benatti
Chiesa Evangelica Valdese, Rimini

 

To  experience  beauty  it  is  necessary  to  cultivate  a  gaze  that  knows  how  to  recognize  the  complex  and  mysterious  interweaving  of  relationships  of  which  reality  is  made. Beauty  is  present  in  the  many  forms  of  experience  of  humanity  in  relation  to  creation,  as  a  trace  that  arouses  in  us  the  nostalgia  of  “a  moreof  a  divine  promise.  It  possesses  the  characteristics  of  the  game,  freedom,  creativity  and  lightness,  which  put  us  in  contact  with  an  “other”  time,  whichit  is  God’s  time.  Beauty  is  experienced  by  living  as  foreigners  and  pilgrims,welcoming  the  promise  of  a  new  world  to  be  built  and  preserved as  a  gift,  in  freedom.

Premesse

Cercherò di corrispondere alla domanda posta sulla bellezza oggi dalla prospettiva che, credo, caratterizzi il cammino di chiunque eserciti (a qualsiasi livello) una qualche forma di riflessione teologica: mi riferisco alla prospettiva che si è soliti indicare con dizione latina status viatoris. Come pellegrino, sia nel cammino esistenziale sia nel cammino ecclesiale e teologico, vorrei esplorare alcune aree dove bellezza e vita s’incontrano. Proprio su questi territori d’incontro credo di poter offrire, sebbene parziale e incompleta, una piccola e modesta risposta. Essa, forse, vuole essere più uno spunto di riflessione, senza alcuna pretesa di dogmaticità o sistematicità, ma in qualche modo testimonianza della dimensione di cammino a cui poco sopra si accennava.

Trattandosi di una riflessione fatta camminando, mi si permetta l’utilizzo ulteriore di tale metafora, interagirò con alcune sollecitazioni ricevute da testi e autori più o meno recenti i quali, come compagne e compagni di percorso, hanno stimolato e stimolano l’esplorazione di aree che altrimenti sarebbero rimaste precluse dalla propria mappa personale. È necessario da parte mia sottolineare ciò, per sgomberare il campo da un equivoco: sebbene si tratti di riflessioni personali, esse lo sono in quanto relazionali. Non ci è dato infatti di pensare in modo originale, quanto in modo dialogico e con partecipazione, apportando il nostro contributo e rimanendo aperti alla voce dell’A/altro.
A conclusione di questa breve premessa indico alcuni punti sui quali intendo soffermarmi, quasi appunti per un diario di viaggio (ancora in corso): Bellezza come disciplina del mistero; Bellezza come cartello indicatore; Bellezza come gioco; Bellezza come est-etica.

1. Bellezza come disciplina del mistero

La prima sollecitazione e il primo frammento di risposta provengono da Marilynne Robinson, splendida scrittrice e saggista americana vincitrice, nel 2005, del Premio Pulitzer con il romanzo (primo di una tetralogia) Gilead1. In una conferenza tenuta all’università di Princeton dal titolo Grace and Beauty2, si leggono le seguenti parole: «There is a tremendous play in reality, or, to put the matter another way, there are far too many layers and orders of complexity in all of Being to abide the simple accounts we try to make of things»3.

Il mondo che si apre ogni mattina davanti ai nostri occhi, sin dal nostro risveglio che ci vede probabilmente già focalizzati sugli impegni quotidiani, è una realtà costituita da una sovrapposizione e da un intreccio di strati e livelli, molti dei quali a noi ignoti o dei quali, per lo meno, siamo inconsapevoli. Lavoriamo e nel frattempo il nostro corpo vive ed esercita funzioni che sfruttiamo per esistere nella realtà: mentre scrivo al computer questo intervento, i miei occhi recepiscono la luce proveniente dal Sole, stella non particolarmente importante nello schema dell’Universo a sua volta composto, per quanto sembra, da una misteriosa Materia Oscura; i miei polmoni inspirano ed espirano, il cuore pompa sangue, il mio apparato digerente processa il caffè e le fette biscottate appena ingoiate attraverso un complesso processo di masticazione; nel frattempo le persone intorno a me mettono in atto contemporaneamente simili processi complessi all’interno di una città dove altra complessità e altri strati s’intrecciano dando origine, solo nella città stessa, a un tessuto di fatti ed eventi dei quali molti spiegabili e altri, benché percepiti, ancora ignoti o per i quali cerchiamo di fornire un tentativo di spiegazione che ce ne dia maggiore contezza. Basterebbe poi allargare la visione progressivamente dalla provincia, alla regione, alla nazione, al continente, al mondo, al nostro Sistema solare, alla galassia, etc per renderci conto che ci troviamo di fronte a una bellezza che richiama una dimensione di complessità e dunque di mistero.
Cerchiamo, come ci ricorda la Robinson, delle narrazioni che tengano conto di questa complessità: in fondo, però, la bellezza ci pone di fronte al mistero insito nella realtà. Ritengo che questa sia una prima parziale risposta alla domanda che ci siamo posti.

Come vivere la bellezza? Riconoscendo la dimensione del mistero, così estranea al pensare della nostra epoca (forse o per via della civiltà della tecnica e dell’informazione iper connessa in cui ci troviamo o forse per un lascito di permanente positivismo nel nostro pensare sospettoso e curioso – sono solo ipotesi che esulano dalla nostra tematica e che meriterebbero ulteriore approfondimento).
Il mistero, dal punto di vista teologico, non vuole essere uno spaventoso baratro che affermi la Totale alterità del Dio Creatore rispetto alla creatura e al creato. Non parliamo di un abisso ontologico. Tutt’altro. Parliamo qui dell’affermazione di una Presenza che, seppure oscillante tra i poli della dialettica Deus revelatus e Deus absconditus, invita a prendere parte al mistero ed esplorarlo, nella sana consapevolezza teologica espressa da Paolo (o chi per lui4) in un momento di preghiera, di cui riporto una parte: «Per questo motivo piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni famiglia nei cieli e sulla terra prende nome, affinché […]siate resi capaci di abbracciare con tutti i santi quale sia la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo e di conoscere questo amore che sorpassa ogni conoscenza, affinché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Efesini 3, 14-16a; 18-19; Nuova Riveduta).

La complessa bellezza della realtà afferma una dimensione di mistero; il mistero, pur nella sua quadrimensionalità (o quarta dimensione) difficile da scandagliare a fondo (riprendiamo le grandezze fisiche paoline per un momento), invita a conoscere di più, a prendere parte, ad assaporare e a diventare esploratori dell’insondabile bellezza e ricchezza dell’essere di Dio, del suo Universo e, soprattutto, del suo cuore pulsante a favore dell’uomo. Esso non solo si manifesta dunque nel multi-strato della creazione (come ricorda anche Gesù, cfr. per esempio Matteo 5, 43-48), ma anche nella storia della creazione, rivelandosi con l’incarnazione, il cammino, la croce di Cristo, morte e risurrezione: seme incorruttibile di un nuovo mondo.

2. Bellezza come cartello indicatore

La seconda sollecitazione arriva da Nicholas Thomas Wright, vescovo anglicano e studioso del Nuovo Testamento (noto in particolare per essere uno degli esponenti della scuola delle New Perspectives on Paul). Durante le Gifford Lectures5 del 2018, ora raccolte in un volume dal titolo History and Eschatology – Jesus and the promise of natural theology6, lo studioso afferma che la bellezza, insieme a giustizia, libertà, verità, potere, spiritualità e relazionalità, costituisca un vocational signpost7, cioè, traducendo, un cartello indicatore vocazionale.

A proposito della bellezza, egli scrive: «We all know that beauty is a central and vital part of life, whether in nature, art or music. Some of the earliest signs of homo sapiens are the remarkable works of cave art which indicate much more than a functional interest in the world. Some of the oldest works of literature are stories which, by their form and style, do much more than merely tell “what happened”. But what is that “much more”? What is beauty, and why does it matter?»8.
Sebbene il contesto di queste affermazioni provenga da un’esplorazione approfondita nel campo della teologia naturale (questa, come abbiamo avuto modo di accennare, la pista di ricerca a cui le Gifford Lectures sono dedicate), ambito che nella storia della teologia ha rappresentato a più riprese un fronte di divisione tra gli addetti ai lavori, ritengo che l’impiego di questa metafora sia efficace e ci dica qualcosa di importante circa la bellezza.

Non so se sia opportuno parlare di una sorta di “nostalgia del Totalmente Altro” quando si tratta della bellezza, ma certamente ci sono luci, per usare un linguaggio preso a prestito dall’arsenale barthiano, che rimandano alla luce universale di Gesù Cristo e alla piena compartecipazione di Dio al proprio creato e al tessuto esistenziale-relazionale della sua creatura. La bellezza, nelle sue molteplici forme, è una di queste luci attraverso cui Dio, nella propria libertà, può decidere di nascondersi rivelandosi (così si mantiene la tensione revelatus/absconditus che mi pare essere costitutiva delle Scritture). Che sia attraverso «gli occhi belli di una zingara» (secondo la lezione di Ch. Yannaras) o attraverso la Passione secondo Matteo di Bach, che sia attraverso la visione dal vivo della Ragazza col turbante di Vermeer o anche solo attraverso la fragranza di cibi e l’odore aromatico di un vino, la bellezza, seppur istantanea e fugace, ci ricorda, e questo era almeno insisto nella predicazione dei primi Cristiani, della promessa divina di un mondo nuovo che è, per quanto si può intendere, in continuità e discontinuità con l’attuale creazione. Quest’ultima, secondo la lezione paolina, geme ed è in travaglio; grida in attesa di una liberazione e di un novum che ne riporti in essere, in maniera continua e discontinua, lo splendore e la bellezza. È significativo come l’ultimo libro del canone cristiano rechi una promessa nella forma della profezia antica che leghi il mondo nuovo al tabernacolo di Dio (luogo di bellezza e piccolo mondo nel mondo; cfr. Apocalisse 21, 1-4) e parli al contempo di uno spazio di bellezza dove la bellezza stessa non sia più istante fugace e nostalgica fruizione, ma perenne celebrazione e godimento, partecipazione senza veli di Dio con la sua creatura, di Dio con il suo (nuovo) creato.

3. Bellezza come gioco

La terza sollecitazione avviene su due livelli. Da un lato troviamo Jürgen Moltmann e la sua riflessione ancora così attuale e fresca sulla dimensione ludica9: essa provvede a fornire una solida base teologica da cui partire per ogni considerazione successiva. Ci limitiamo in questo senso, oltre a raccomandare l’opera citata, a riportare una citazione tra le più significative: «Il gioco diventa senza speranza e perde la sua molla se serve soltanto a dimenticare per un certo tempo ciò che non può essere mutato. Si prova gioia nella libertà quando giocando si anticipa ciò che può essere e deve diventare diverso, sopprimendo il bando dell’immutabilità di ciò che esiste. Si gode del gioco e si prova piacere nello stato di sospensione caratteristico del gioco, se da esso sorgono prospettive critiche per il mutamento del mondo che è di solito irrigidito»10.

Da un altro lato c’è una dimensione irriducibilmente soggettiva dello scrivente, divenuto di recente padre di un bambino, Jeremy Sebastian, che con i suoi occhi azzurri e il suo sorriso, illumina la quotidianità dei propri genitori, scardinando la routine con l’istituzione di un tempo più lento, fatto di gioco appunto, ma anche della meraviglia incantata di fronte alla reciprocità e a colori, suoni, smorfie, materiali di diversa natura (legno, metallo, plastica che siano), etc.
I due poli appena citati sono complementari e confermano una convinzione che trova un riscontro nelle vite e nelle storie delle teologhe e dei teologi di cui ci si appassiona, dentro alle aule universitarie o nei locali delle chiese o, ancora, altrove: biografia e teologia vanno di pari passo in questo mondo la cui struttura è relazionale, poiché il Dio che lo ha creato è intrinsecamente relazionale.

Nella società attuale che, come accadeva per quella antica, si nutre di panem et circensem per far dimenticare ciò che è brutto, il giocare dei figli di Dio (sia della creatura appena nata che della persona adulta) ha una dimensione profetica che annuncia la possibilità di una bellezza autentica e permanente che si nutre di libertà, giustizia, riconciliazione, leggerezza e gioia. Il giocare non solo è svago e quindi divagare, cioè muoversi altrove rispetto a un luogo non avendo una precisa meta, ma è anche affermazione e ritorno a una vita in cui lavoro, inteso come vocazione, e tempo del riposo, il Sabato/il cessare, non sono due realtà antitetiche, ma aspetti di una vita bella: poiché integra, non frammentata, non rotta, non schizofrenica. Il gioco ci parla della bellezza: del tempo di Dio rispetto alla cadenza ritmata dell’umana efficienza, della libertà rispetto alla schiavitù, della leggerezza della creatività rispetto alla pesantezza dell’ottenimento, del gratuito rispetto al guadagnato, della riconoscenza rispetto all’egocentrismo, dell’essere preceduti da Qualcuno che ci cerca e incontra invece del cercare spasmodico e frenetico dell’esistere umano.

Il gioco fa parte di quel “tutto” buono (e bello) di cui leggiamo nella prima epistola a Timoteo: Infatti tutto quel che Dio ha creato è buono; e nulla è da respingere, se usato con rendimento di grazie (I Timoteo 4, 4). Se nella fresca cristallinità del giocare spensierato di un lattante siamo più propensi a scorgere questa dimensione di bellezza e fascino che rimanda a un’esistenza integra e libera, da un altro lato le Scritture ci stimolano a ritornare all’autentico gioco-bellezza, rispetto alla forma della secolarità frenetica così ben caratterizzata dal gioco-distrazione o dal gioco-analgesico. Esse, le Scritture, ci dicono di riconnettere le nostre vite al mondo dei sensi e del movimento, usando della creazione di Dio con rendimento di grazie: legando le nostre vite cioè, tramite questa postura/attitudine così semplice, ma spesso dimenticata, non a una piatta dimensione temporale, quanto piuttosto a una pienezza di vita che deriva direttamente dalla pienezza e dalla bellezza del Dio tri-uno che, come in una danza gioiosa (pericoretica, potremmo osare di dire) si diletta a vedere il behemot e il leviathan sguazzare nel fiume e fare bollire l’abisso (Giobbe 40-42) e vuol prendere parte alla gioia della propria creatura (cfr. Giovanni 2, 1-12).

4. Bellezza come est-etica

La quarta e ultima sollecitazione arriva direttamente da un passaggio parenetico della Prima Epistola di Pietro: «Carissimi, io vi esorto, come stranieri e pellegrini, ad astenervi dalle carnali concupiscenze che danno l’assalto contro l’anima, avendo una buona condotta fra i pagani, affinché laddove sparlano di voi, chiamandovi malfattori, osservino le vostre opere buone e diano gloria a Dio nel giorno in cui li visiterà» (I Pietro 2, 11-12).

Non solo ritroviamo il motivo del cammino e dunque del pellegrino, ma troviamo soprattutto una connessione decisiva fra una vita ricca di opere buone e il dare gloria a Dio, riprendendo così una tematica già cara alla filosofia greca che legava il Bello e il Buono tra di loro (dunque l’estetico con l’etico). Ecco spiegato il gioco di parole del presente paragrafo: est-etico. Una vita etica, cioè una vita che, secondo la lezione del Nuovo Testamento, è Cristo-forme e Pnemautica è una vita bella, affascinante, una vita che porta gloria a Dio in quanto rispecchia il carattere di Dio stesso: la sua pazienza, bontà, capacità di perdono, il suo amore, la sua santità.

Proprio su quest’ultimo termine vorrei ora concentrarmi, avviandomi verso la conclusione. Al concetto statico di santità che sembra aver dominato la scena per lungo tempo, dove ciò che conta è l’aspetto di presunta “separazione” rispetto a quanto percepito come non puro o non confacente, dovremmo sostituire un concetto più aderente alla testimonianza scritturale dove il comandamento antico del cosiddetto “codice di santità” levitico (Siate santi, perché io, il SIGNORE vostro Dio, sono santo – Levitico 19, 2), è un invito proprio a vivere delle vite est-etiche, dove bellezza e bontà si abbracciano fra di loro indissolubilmente.

Forse la rilevanza tanto agognata di un Cristianesimo occidentale in sofferenza, che sembra aver paura di perdere la propria identità (questo il ritornello che si sente nei mass media e nella relative polemiche ivi riportate) non dovrebbe essere cercata in un irrigidimento e nemmeno nella ricerca ossessiva di palcoscenici o piazze, quanto nel ritorno all’efficace e biblica connessione tra “vite belle perché sante” in modo contagioso (così come i Vangeli ci insegnano rispetto a Gesù e la letteratura Cristiana descrive e prescrive in modo puntuale) e “vite sante perché belle” in modo affascinante e rispecchiante non tanto la nostra scala di valori (borghesi o meno che siano), quanto il carattere di Dio stesso. Egli infatti, massimamente, ha dato prova della Sua bellezza sub contraria specie: non dominando con la Sua gloria eterna la propria creatura, ma sedendosi al Suo fianco per le strade impolverate che noi pellegrine e pellegrini percorriamo, in attesa che la bellezza del nuovo mondo, da promessa che ci viene incontro, diventi pieno possesso come dono. Per grazia di Dio.


1. Romanzo presentato al pubblico italiano dalla casa editrice Einaudi nell’anno 2017, nella traduzione di Eva Kampmann.
2. La conferenza si trova nella raccolta di saggi dal titolo What are we doing here? – Essays, Virago Press, London, 2019 pp. 101-114.
3. Ibidem, p. 102.

4. Non si entra qui nel merito dell’autenticità o meno dell’epistola agli Efesini. Un buon manuale di introduzione al Nuovo Testamento può dare una panoramica della questione, al di là delle convinzioni personali dello scrivente.
5. Per informazioni ulteriori su questa prestigiosa e famosa serie di lezioni accademiche del mondo anglosassone si rimanda al sito internet ufficiale dell’istituzione: https://www.giffordlectures.org/
6. N.T. Wright, History and Eschatology, Jesus and the promise of natural theology, SPCK, Londra, 2019.
7. Ibidem, pp. 224 e seguenti
8. Ibidem, p. 227
9. J. Moltmann, Sul gioco, Queriniana, Brescia, 1971
10. Ibidem, p. 25.