Interviste

Roberta ForestaRoberta Foresta

Nata a Padova il 18/08/1969, ha studiato per il baccalaureato a Padova, ha conseguito la Licenza in teologia biblica alla Pftim sezione San Luigi a Napoli e il dottorato in storia religiosa all’Università La Sapienza di Roma. Frequenta la scuola di Arte e Teologia.
Insegna religione cattolica ad Aosta nelle scuole secondarie di secondo grado.

 

Nel suo libro La filosofia del viaggio, nella premessa, lei esordisce con un elenco di binomi: viaggio e vita, viaggio e piacere, viaggio e meraviglia etc… a questi ne aggiungerei almeno un altro paio, chiedendole una riflessione: viaggio e fede e, più in generale, viaggio e spiritualità.

Rispetto a quel gruppo di binomi, viaggio e fede, viaggio e spiritualità sono sottesi e pervasivi rispetto al tema del viaggio. Dietro ai binomi si coglie infatti una tensione di fede e di spirito. I binomi viaggio/vita, viaggio/accoglienza e viaggio/responsabilità, per esempio, riflettono il meccanismo profondo di una vita di fede distesa tra il rispondere e l’accogliere: la tonalità viaggiante-responsiva è sottesa al viaggio. Dietro ad altri binomi come viaggio/meraviglia e viaggio/racconto si legge in filigrana uno stretto, eloquente rapporto con la dimensione religiosa dell’annuncio che prende forma nel racconto dalla stessa struttura del viaggio. I binomi viaggio/altro da sé e viaggio/proprietà, infine, discutono la falsità di una vita polarizzata in esclusiva su di sé, autocentrata, che preclude l’incontro con gli altri, con l’Altro e con la verità. Detto questo, tramite un doppio focus sull’«inizio» e sulla «meta» del viaggio si prova comunque a esplicitare i binomi suggeriti di viaggio/fede e di viaggio/spiritualità (o anche mistica).

Viaggio/fede. La forma narrativa dei Vangeli ne fa insieme un viaggio nella fede e una fede che viaggia. La fede stessa è un viaggio che racconta il proprio viaggio. In merito sovvengono delle formule icastiche come l’apertura del Vangelo di Marco (Mc 1,1): «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio», che si apre con la stessa parola («inizio») che segna il primo momento del viaggio. Oppure, come il noto versetto del prologo di Giovanni: «Il logos si fece carne» (Gv 1,14), dove esplode il ribaltamento tipico del viaggio. Per non riprendere ancora una volta il motivo letterario dell’Esodo, prototipo di tanti viaggi personali e collettivi, affidato all’uscire: dalla schiavitù, dall’oppressione politica e culturale, dall’idolatria. Diventa così simbolico il motivo evangelico della fede come sequela, con l’immagine itinerante del maestro che cammina davanti e del gruppo dei discepoli che segue da presso. Con la sequela, la fede parla di sé stessa nei termini di un cammino, di un viaggio.
Viaggio/spiritualità (mistica), pone in questione la fine del viaggio, che non è né l’appagamento di sé né l’unione fusionale con la divinità. La meta spirituale è invece un incontro, il che significa che la meta diventa a sua volta un nuovo inizio, un’altra possibilità, una compagnia che riprende. Differenza incommensurabile, su questo, tra una mistica dello sciogliersi come cera al sole in Dio (Angelus Silesius) e una mistica invece dell’incontro personale con l’altra Persona (mistica carmelitana, ad esempio), sulla falsariga delle letture allegoriche del Cantico dei Cantici.

In che senso l’itineranza che contraddistingue il viaggio dice l’itineranza che struttura profondamente l’essere umano?

Poiché il linguaggio caratterizza l’umano, si affronti l’itineranza dal punto di vista della parola. Vi è una lunga tradizione che rifiuta di considerare i nomi che dicono dell’uomo e di Dio come nomi univoci (bloccati) o come nomi equivoci (inaffidabili), a favore di nomi che la stessa tradizione chiama analoghi, dotati di sensi vicini ma diversi, aperti e plurali (Aristotele, Averroè, Tommaso d’Aquino, J. Maritain, E. Stein). Questo per dire che di fronte all’altro, all’uomo, al bene, a Dio, i nomi non sono definitori, non gabbie e prigioni, senza che per questo debbano essere relativisti e qualunquisti. Piaccia o non piaccia, i nomi non sono monologhi, non pietre scagliate sugli altri. In Genesi 2,4b ss., l’uomo (Adamo) parla due volte: la prima di fronte al mondo creato da Dio, per imporre nomi agli animali e alle cose; la seconda di fronte all’altro uomo nella sua differenza (Eva), per dialogare. Di fronte all’altro, i nomi non sono più dati ed imposti, ma si danno insieme con l’altro, viaggiano. Sono nomi che liberano, nomi in cammino di un cammino comune. Perché, come dice Rosenzweig nella Stella della redenzione, «la parola parla». I nomi dicono l’eccedenza, la sporgenza dell’altro di fronte a sé e di sé di fronte all’altro. Ricordano che, prima ancora che dire qualcosa, parlare è già un rispondere all’altro. «Il tu è parola più antica dell’io» (F. Nietzsche).

Fin nel linguaggio, l’itineranza è la struttura profonda dell’umano che non si smuove da sé, che è smosso da altro. L’uomo o è nomade, in viaggio, o non è. L’itineranza è il nome stesso dell’«infinito» (E. Lévinas). L’umanità dell’umano inizia solo quando l’uomo si sente spaesato e senza «casa», quando avverte la crisi nella sua posizione nel mondo che non è scontata come la tana di un animaletto (M. Buber). Nel dire autentico vi è la traccia dell’itinerare, del non finito, dell’eccedere rispetto al già detto, del sussulto che è l’umano stesso.

Le vere parole del viaggio, lo ha più volte sottolineato, non sono tanto la meta, quanto l’inizio del viaggio, la partenza, il distacco da sé, la scoperta e la meraviglia nei confronti dell’alterità. Perché?

Le vere parole del viaggio interagiscono tra loro: da un lato l’inizio, la partenza, il distacco; dall’altro la meraviglia e la scoperta dell’altro. Senza queste parole non c’è viaggio. Non senza inizio, non senza l’altro. Con quale risultato? Che ci sono viaggi che non sono veri viaggi. E che ci sono altri che non sono per davvero l’altro. Nell’equivoco di viaggi che non sono viaggi si vive spesso in un mondo che non fa che viaggiare negli spostamenti giornalieri del lavoro o nella movida globale. Lo spostamento è un viaggio? La movida globale è un viaggio? Viaggi non viaggi. Del consumo, di conquista, di guerra, di scoperta, di esibizione che tengono l’io al centro (quando perfino scoprire la verità non significa sostituirsi alla verità). Viaggi non viaggi di crescita, di esperienza, di utilità – finché si bruciano tra un andare e un tornare a sé che si ricoprono perfettamente. Dove regna l’estensione del sé, nessun viaggio. Gira e rigira, è il modello del viaggio eroico: Giasone parte, viaggia, prende il vello d’oro e torna nella propria comunità per essere consacrato come eroe. Viaggio non viaggio, perché il motivo del viaggio resta un implementare sé stessi.

Per viaggi che non sono viaggi, ci sono degli altri che non sono l’altro. Marco Polo nel Milione racconta delle cose meravigliose che ha visto; e, ancor più delle cose, degli incontri e delle persone con cui avrebbe potuto trattenersi «all’infinito». La meraviglia del viaggio riguarda l’altro, la verità, il divino. Ma quant’è facile scivolare e cadere nelle trappole allettanti del meraviglioso e dello stupefacente come consumi emozionali dell’io, dove l’altro non c’è se non come pretesto per sé. Si pensi a tante forme, parole e pubblicità del viaggio, ai turismi dell’imprendibile, dell’esotico o sessuali. E i viaggi del sacro, le vacanze dello spirito? Anche circa i viaggi e i luoghi del sacro occorre vigilare, affinché non s’inciampi sul diverso, sull’alternativo, sull’emozionante come pausa igienica che nulla cambia e lascia da capo soli con sé stessi, senza viaggio.

Se il viaggio equivale a un lasciare, a una rinuncia, un distacco, e dunque appare come qualcosa di faticoso, qual è l’aspetto positivo del viaggio, appagante, arricchente?

Senza fatica non c’è viaggio. Fatica dello stacco, dello strappo con sé stessi, perché lasciare costa: la casa, un’idea, un pregiudizio. La tonalità religiosa e ascetica è lampante. Tuttavia, la fatica del viaggio appare negativa solo se si parte dal presupposto che l’io ci sia prima di iniziare il suo viaggio per arrivare all’incontro con l’altro. Se io sono la mia proprietà, come dice Max Stirner, tutto ciò che scalfisce la fortezza dell’io si accende subito di toni sacrificali. L’appagante, l’arricchente del viaggio è giungere a un sé stessi che, di fronte all’altro, non è più lo stesso dell’inizio del viaggio. «Cominciare da sé stessi, ma non finire con sé stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta» (M. Buber). «Nessuno torna da un viaggio così come era partito» (G. Greene), se ha viaggiato davvero. Scoprire sé stessi, scoprirsi altri da sé, più profondi, più capaci più di quel che non sembri, imparare a dire grazie a chi, nel viaggio, ci ha messi in viaggio. Proprio per la fatica il viaggio diventa allora appagante. In termini spirituali, dire che la salvezza (che è un viaggio) passa attraverso la croce, non autorizza a invertire il discorso e a fare della croce il fine della salvezza. Fermandosi in qualche modo a rinuncia e sacrificio fini a sé stessi.

Quali sono, invece, gli ostacoli più insidiosi, in qualunque viaggio, che finiscono per vanificare il senso delle parole vere del viaggio sopra menzionate?

Ogni viaggio ha le sue insidie. I pericoli vengono da atteggiamenti, mentalità, precomprensioni che sembrano viaggio ma che non sono viaggio; e che coinvolgono un po’ tutti, l’io, l’altro, i compagni di viaggio. Per l’io: accanto al viaggio eroico c’è il viaggio pellegrinante e doloroso, come per Adamo ed Eva dopo la cacciata da Eden; dai viaggi della gloria bisogna sempre guardarsi a livello individuale e collettivo. Per l’altro: l’altro si travisa facilmente con dei surrogati costruiti a proprio uso e consumo, che stravolgono lo stupore e la meraviglia dell’altro in un giocattolo dell’emozionarsi dell’io. E per i compagni di viaggio? Può aiutare V. Propp e La morfologia della fiaba, una fonte dell’analisi strutturalista del racconto: nei racconti gli amici e i nemici non sono mai quelli che sembrano, spesso è l’amico a dimostrarsi un nemico e viceversa. C’è un livello di insidia e di ostacolo da parte dei compagni di viaggio che dovrebbero aiutare, mentre talora ostacolano e rovinano tutto. L’esperienza insegna. Vale lo stesso per le comunità del viaggio che non sempre facilitano, per le comunità turistiche che scambiano talora il farsi conoscere per un esibirsi e mettersi in mostra ritagliato come maschera per l’occasione. Sul sistema del viaggio, i suoi linguaggi, le sue organizzazioni, varrebbe la pena riflettere.

Mc 8,31-33: specchio impietoso delle insidie che vengono dai compagni di viaggio. Primo annuncio esplicito dello scandalo d’un Messia sofferente, anziché trionfante e vincente. Pronte obiezioni di Pietro che ha appena professato Gesù di Nazareth come Messia. Di qui il tentativo di dissuadere, ostacolare e impedire il viaggio. La risposta è agghiacciante: «Lungi da me satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».

Nel suo libro, tra i personaggi biblici, assegna una certa importanza al viaggio di Abramo. C’è qualcosa di più, qualcosa di diverso, rispetto ad Abramo, nel viaggio di Gesù di Nazareth?

La coppia Ulisse/Abramo è un classico della cultura occidentale, un vero e proprio dittico che restituisce subito l’alternativa di fondo del viaggio. Per Ulisse basti pensare a Omero, Dante, o Joyce, per Abramo a Kierkegaard, per il confronto a Lévinas. Ulisse: si parte da casa e si torna a casa, un viaggio e un tempo circolari come allontanarsi e rientrare e ricominciare, il ritorno differito e sofferto, la nostalgia per ciò che si è lasciato. Abramo: si parte per non tornare (la tenda), un viaggio e un tempo aperti e lineari come star fuori, in viaggio, la speranza per ciò che si attende, lo spazio aperto da una promessa. Ulisse è la casa, Abramo la tenda. Ulisse il ritorno, Abramo il cammino. Ulisse il rimpianto, Abramo la tensione. Immagini alternative (fino a un certo punto, perché s’incrociano) dell’umanità stessa.

Abramo e Gesù di Nazareth, continuità e discontinuità. Abramo vive e viaggia nella promessa, Gesù di Nazareth nella promessa e nel compimento che però non rinnega e rimette di nuovo in viaggio la promessa. I Vangeli non sono saggi, cronache, prescrizioni, codici legali, preghiere, sentenze, proverbi, lettere. I Vangeli narrano; e il racconto è viaggio tanto quanto il viaggio è racconto. Le prime manifestazioni pubbliche di Gesù di Nazareth squadernano un dinamismo sorprendente di luoghi e tempi diversi che s’alternano di continuo: città e deserto, casa e strada, folla e solitudine. Un viaggio, e un racconto, che si conclude paradossalmente con una tomba (casa) vuota come simbolo della verità dell’uscire e dello star fuori, di un essere chiamati ancora e al di là del proprio acquietarsi e trovare. Un vuoto. Ma un vuoto significante che interroga. Promessa e compimento che non si rinnegano, che non sono contrari. Emmaus, di nuovo, è una strada. Sulla forma narrativa dei Vangeli, sulla raccolta di racconti diversi dentro lo stesso racconto, di viaggi diversi dentro lo stesso viaggio, bisogna fermarsi.

Anche la Chiesa, da sempre, è chiamata a riscoprire il suo essere nomade, itinerante. Papa Francesco, da più parti, continua a parlare di Chiesa «in uscita»; secondo lei, da cosa, soprattutto la Chiesa deve uscire oggi?

Chiesa nomade, itinerante, pellegrina, in viaggio. Da sempre. Le comunità che narrano se stesse con i Vangeli, le Lettere di Paolo con le gioie e le fatiche del cammino, l’Apocalisse tra già e non ancora. Oppure il De Civitate Dei di Sant’Agostino con le tensioni tra terra e cielo, basso e alto, mondo e non mondo, tempo ed eternità. La Chiesa è chiamata e risponde a un viaggio che non è però suscitato da sé, e di cui deve nello stesso tempo rendere conto. Da cosa uscire? Dall’essere un viaggio che non mette in viaggio. Dall’essere un cammino che non mette in cammino. Da una sorta di viaggio infartato e contraddetto proprio mentre incarna un viaggio. Si torna ai pericoli, alle insidie, ai rischi del viaggio. Per la comunità, la confusione: di sovrapporre sé stessa al motivo del viaggio, di scambiare l’essere in viaggio con la fine del viaggio, la conversione con l’arrivo, la prossimità con il cortile di casa. Tentazione sottile e velenosa d’invertire l’affidamento, la responsabilità, l’annuncio e la testimonianza della verità che mette in viaggio nell’affermazione e nel protagonismo di sé. Di fare in qualche modo da ostacolo al viaggio mentre invita al viaggio.

La/e teologia/e come viaggio: che cosa può dire l’esperienza del viaggio alla teologia?

La verità non si possiede nel senso d’una proprietà. Non si possiede proprio. Sarà casomai la verità a possederci; e proprio perché è verità (si ridurrebbe altrimenti a un’opinione fra tante). La verità interpella, alla verità si risponde in quanto compresa ma altra rispetto a noi, così vicina ma al modo di un andare verso la verità che non s’immedesima. Il rapporto con la verità è sempre di testimonianza. Di qui al metodo di un pensare il passo è breve. Anche per la teologia coinvolge il modo di parlare, dire, esplicare, argomentare che dovrà essere capace, da un lato, di porre in evidenza il muoversi tra umano e divino, tra divino e umano, e, dall’altro lato, di costruirsi per logica e sintassi in modo coerente con l’essere snodo dell’incontro. La teologia mette in forma l’incontro con l’Altro da sé, tiene al centro la risposta quale cuore della parola, il farsi responsabili della verità come verità di ogni cercare.

Per questo vi è sempre bisogno di «un sapere più pensante del sapere» (Lévinas), di un uscire del sapere dal sapere stesso sempre troppo saputo, per non finire in slogan e indottrinamenti. Affermazione provocatoria, senz’altro per la cultura e la filosofia; non per la teologia? Si vada per suggestioni. «L’essenziale è invisibile agli occhi, non si vede bene che con il cuore» (A. de Saint-Exupéry). «Il cogito è un otturatore» (G. Marcel), perché mette troppo io davanti al pensare, davanti alla verità. Anche la teologia è viaggio, alterità, fuori. Per mostrare magari che il mistero della verità s’incontra, si nasconde, e si smarrisce già nella vita, nelle cose, nelle persone. Nella realtà.

Nel viaggio si incontrano le arti; d’altra parte, il viaggio, pensiamo ai tanti cammini presenti nelle diverse religioni, genera sempre nuova arte: musica, danza, cinema, architettura, scultura, pittura. Nella sua esperienza personale, quale incontro con l’arte, legato al viaggio, ricorda in modo particolare?

È difficile rispondere, perché è difficile scegliere. Ogni viaggio ha il suo riscontro artistico, ogni arte ha il suo riscontro di viaggio. Senza viaggio nemmeno c’è arte. Ricordo solo alcuni esempi dove architettura e pittura in specie, incontrate nel viaggio, hanno destabilizzato e rimesso in viaggio. Esperienze dove l’arte irrompe rovesciando e diventando un viaggio dentro il viaggio.

Molto interessato fin da giovane all’arte e alla sua storia, con letture scolastiche dalle pieghe classiciste e qualche retorica sul Rinascimento, mi capitò di soggiornare nel Salento, a Lecce in particolare, dove avvenne la scoperta del Barocco leccese e, in seguito, del Barocco in generale. Fui come rapito. Da quel momento in poi, fra i libri che mi fanno compagnia quotidiana in prima fila nella libreria di casa ci sono il volume di M. Calvesi su Lecce barocca e il catalogo completo dell’architettura di Borromini in doppia edizione, seriale e numerata, nonché di Guarini e di Longhena. Altro esempio, la chiesa romanica di San Miniato al Monte a Firenze, visitata numerose volte, fino a quando sono stato ospite della comunità dei monaci benedettini olivetani che la presiedono. Usufruendo dell’ospitalità del monastero, ho avuto la possibilità di accedere alla chiesa non solo dall’esterno, e durante le ore di visita con la luce del giorno, ma più liberamente e dall’interno del monastero stesso, anche per la Liturgia delle ore. L’esperienza è stata davvero sconvolgente, perché la chiesa bellissima era e insieme non era più la stessa, senza luce ma non buia. E il passaggio fulminante: dal vedere, dal ragionare visivo sulle proporzioni architettoniche della chiesa di San Miniato, al sentire l’ambiente costruito; dalla visita turistica o di studio, per dir così, alla vita.

Un esempio figurativo decisivo è a Venezia, nella chiesa di Santa Maria dei Carmini, prendendo da Campo Santa Margherita: a metà chiesa l’ingresso all’altezza della Scuola omonima e, subito a sinistra, una tela di Lorenzo Lotto, San Nicola in gloria, tutta giocata su contrasti acidi di colori un po’ nordici, i verdi, i viola, gli azzurri e i rosa a diretto contrasto. Ogni volta che torno a Venezia mi precipito. Se Lecce aveva significato la scoperta di altro dal Rinascimento, del Barocco, il quadro di Lotto ha imposto la coscienza di un Rinascimento altro e diverso, meno eroico e programmatico rispetto, per esempio, allo splendido corpo di Cristo Risorto del Tiziano di Brescia (Polittico Averoldi). Un Rinascimento meno eroico, meno umanistico. Ma più umano, quotidiano, partecipe, intenso e, per Lotto, religioso. Di rimbalzo, sovviene un’altra opera veneziana di Lotto che va nella stessa direzione, L’elemosina di Sant’Antonino, in San Giovanni e Paolo.