A questo proposito, mi permetto di raccontare come io vivo personalmente l’incontro con il “mistero” di una creazione artistica, in vista di una sua valorizzazione pastorale, per esempio quando preparo una catechesi con l’arte. Si tratta di una specie di “lectio” monastica. Non credo di fare nulla di speciale o di originale perché credo che questo approccio caratterizzi la dinamica dell’azione di ogni studioso o appassionato d’arte (tanto quanto quello di un esegeta o di un omileta di fronte ad una pagina delle Scritture).
Tutto per me comincia raccogliendomi in me stesso e ponendomi davanti all’opera (l’ideale sarebbe direttamente, cioè in presenza, oppure, se questo è impossibile, ponendomi di fronte ad una sua riproduzione fotografica di buona qualità). È nel silenzio che si attiva il mio sguardo, un primo approccio, che lascia spazio ai sensi, agli occhi e, poi, al cuore, al sentire. Cerco così di lasciare la libertà all’immagine, ai suoi colori ed alle sue forme di “colpirmi”.
È un accostarsi non intellettuale che non è preoccupato, prima di tutto, di spiegare, poiché si tratta fondamentalmente di cum-prehendere: da qui parte ogni volta il mio lavoro, da ciò che vedo, da ciò che provo. Per questo primo momento ci vuole, quindi, un tempo di silenzio mai quantificabile, perché dipende dalla complessità dell’opera e dalla profondità del suo “messaggio”.
Da quanto mi colpisce e mi interpella in prima battuta, nasce, poi, in me il desiderio di provare a conoscere meglio ed interpretare l’opera, perché intuisco che questo “mistero” ha qualcosa da dirmi e da donarmi. Ecco allora che mi sento chiamato a passare dal semplice sostare davanti, al cercare di andare dietro e dentro l’opera.
Andare dietro suppone uno studio storico artistico attento e documentato su chi l’ha realizzata, dove e quando, dello stile, del materiale, dello stato di conservazione, ecc. Ancora una volta per questa analisi è necessario il silenzio, spesso molto lungo, tanto da richiedere tempi adeguati, non solo in termini di ore, ma anche di giorni e più (nel caso del mio studio per il Dottorato per esempio mi ci sono voluti tre anni di ricerca sul Pulpito di San Fermo in Verona). Questo silenzio non è solo quello esteriore, ma, soprattutto, quello interiore, per permettere alla mente di donare attenzione vera, per favorire la concentrazione, l’annotazione di appunti, riferimenti, intuizioni, conferme e nuove scoperte.
Andare dentro, invece, significa approfondire il genere iconografico (es. Ultima Cena), con lo studio delle fonti iconologiche, quei testi biblici, liturgici, teologici, spirituali che hanno ispirato e condizionato la realizzazione dell’opera che parla con la sua lingua specifica: un’Annunciazione romanica non è la stessa di una barocca e, pertanto, suppone un diverso studio dei testi e delle immagini del proprio contesto.
Dopo questi primi “spostamenti” (davanti, dietro e dentro), l’opera mi chiama in un certo senso ad andare oltre, cioè, alla contemplazione. È questo il vero regno del silenzio dello spirito, passivo ed attivo allo stesso tempo. Come accade di fronte al volto di una persona che da un primo incontro mi è, poi, nel tempo, diventata amica, ora il guardarsi è diverso perché, come diceva bene il teologo medievale Riccardo di San Vittore: “Ubi amor ibi oculus”. Come a dire che dove c’è la relazione, lì si formano gli occhi, lì nascono gli sguardi. Ed è proprio in questo silenzio della contemplazione che con un’opera si può silenziosamente dialogare con gli occhi, e (perché no?), anche pregare, come ha fatto Francesco Assisi col Crocifisso di san Damiano, o come ci insegna la spiritualità ignaziana, e come, ancor oggi, praticano i nostri fratelli cristiani Ortodossi che si inchinano, baciano, pregano con le Icone.
Infine, per non farsi vincere dalla Sindrome del Monte Tabor (“Che bello stare qui!”) il percorso si compie nel tornare davanti all’opera. Ancora una volta è il silenzio che mi aiuta a chiedermi cosa porto via per la mia persona e per il mio ministero alla fine di questo incontro con l’opera. Allora, solo allora, posso raccogliere una parola di vita che orienta le mie mani ed i miei piedi e che posso condividere anche con altri fratelli e sorelle: è questo il tempo in cui può maturare la stesura di un commento, una catechesi, una omelia, suscitata dalla bellezza artistica.
È questo il segreto perché possiamo permettere ad un’opera di comunicare silenziosamente in una prospettiva pastorale, cioè non solo risuscitandola all’indietro, come Lazzaro, ma permettendole di risorgere in avanti, con tutta la sua vitalità profetica “hic et nunc”, cercando di mettere noi stessi nella condizione di recepirne il messaggio, magari molto antico, però sempre attuale. Infatti con questo tipo di approccio, io non cerco soltanto di descrivere un’opera, ma, molto di più, intendo riattivare un lascito, un’eredità affidata a noi, sia dal versante culturale che ecclesiale. Gli artisti che hanno formulato in immagini un messaggio storico, filosofico, affettivo, teologico sono stati mossi da una certa “ispirazione” e solo nel silenzio dell’ascolto noi permettiamo a questo messaggio ispirato di raggiungerci, anche se siamo da loro lontani nello spazio e nel tempo.
Noi dunque possiamo accogliere ed interpretare le loro creazioni, entrando in gioco attivamente in un processo di traditio/redditio che mantiene “vive” le stesse opere. E ciò può accadere a diversi livelli, corrispondenti alla disponibilità di ciascuno di lasciarsi interrogare, di indagare, di confrontarsi… Tornare davanti vuol dire, dunque, sentirsi pro-vocati a dare noi stessi, volto e carne, al messaggio di un’opera, diventando noi stessi immagini viventi, parole visibili. Del resto lo sappiamo: ogni incontro, se è vero, lascia sempre un segno.
In conclusione intendo ribadire ed esplicitare meglio il punto da cui sono partito: sono convinto che un’opera d’arte, col suo mistero, vive e porta frutti proprio nel silenzio.
Per questo termino citando Maria Zambrano:
NOTE
1. M. ZAMBRANO, Luoghi della pittura, Medusa, Milano 2002, 19.