Condividi su:

Immagini della speranza nel pensiero di André Neher

Elena Cecchi
Elena Cecchi

Il tema del silenzio rinvia da sempre ad un mistero profondo che cela una miriade di potenzialità, di vedute, che possono accompagnare l’uomo verso innumerevoli strade, innumerevoli scelte che possono rendere quella presunta assenza di suoni o di significati una realtà ricca di senso. Questo accade ancor più se il mistero del silenzio viene associato a Dio. Quando gli eventi si mostrano particolarmente difficoltosi alla comprensione umana mettendo in luce criticità che sembrano insormontabili, la domanda del “perché?” posta al proprio Creatore, e la risposta silenziosa che ne consegue, conducono l’uomo verso scenari e scelte inediti che possono sembrare veri e propri “salti nel vuoto” all’interno dei quali deve cercarsi una plausibilità.

1. Dal silenzio di Dio nella Shoà al silenzio biblico

dita
Michelangelo Buonarroti, la Creazione di Adamo
André Neher (1914-1988), filosofo e teologo ebreo francese vissuto nel secolo scorso, è stato protagonista di una forte esperienza del silenzio nel momento in cui ha sperimentato una presunta assenza di Dio durante la Seconda Guerra Mondiale, quando tanti suoi correligionari hanno perso la vita, anche nei campi di concentramento. Da giovane insegnante di lingua tedesca è costretto a lasciare la natìa Alsazia per il Sud della Francia, a causa dell’editto di Petain, relativo allo statuto degli ebrei, dove deve nascondersi per quattro lunghi anni cercando di scampare alla persecuzione e alla deportazione da parte delle SS tedesche1. In questo difficile periodo avrà la possibilità di riconsiderare la sua situazione di vita e di pensare a come la paradossale situazione che stava vivendo potesse essere una prova cui Dio sottoponeva l’ebreo della sua epoca. Nel castello diroccato dove vive nascosto nel piccolo villaggio di Lanteuil, in Correza, assieme ai familiari realizza un fecondo ambiente di scambio culturale chiamato Mahanayim, la “Double Demeure” perché, ricorda il filosofo:

«ci abbiamo vissuto, precisamente, in una maniera costante e cosciente, in una doppia dimensione: quella dell’angoscia e della speranza, quella della persecuzione e quella del tempo biblico di cui la pienezza ricopriva ognuno dei nostri istanti»2.

La scuola clandestina di alta spiritualità ebraica gestita da Albert A. Neher, padre di André, si focalizza in particolare sul significato che l’ebreo deve dare della propria esistenza in relazione alla sua forte attrazione verso Dio – quello che viene riconosciuto come “Contrait divin”, Alleanza – anche quando questa si forgia come una incomprensibile e tragica situazione. Dopo l’esperienza di Mahanayim e la scoperta degli impensabili orrori della Shoà, Neher brucia la sua tesi di dottorato sul poeta Heine per iniziare a riscriverne una sul profeta Amos e anche gli scritti che pubblicherà successivamente saranno tutti rivolti allo studio e al pensiero ebraico3. Quello che mette a punto è un nuovo modo di leggere e interpretare la Torà che coniuga scienza e rispetto per l’esegesi ebraica tradizionale con la fede vissuta. Una nuova modalità di approcciarsi ed interrogare il testo biblico che lo conduce al rabbinato (1946) e, successivamente, all’insegnamento universitario4.

Ma è nell’opera L’exil de la parole. Du silence biblique au silence d’Auschwitz5, il suo capolavoro, che Neher concretizza la riflessione iniziata negli anni della Shoà, che tanto profondamente lo hanno segnato. Ricorda, infatti:

«all’origine, come preoccupazione prima e decisiva, fu questo avvenimento a condurmi a riflettere sul silenzio della Bibbia, fu lui che rovesciando da capo a fondo l’insieme delle nostre letture umane, tendeva a capovolgere altresì la nostra lettura della Bibbia. Questo avvenimento, il cui nome, da solo ancora, introduce, in questo silenzio, il silenzio della Bibbia, poiché, nel cuore dell’incontro, è il popolo biblico che bruciò di silenzio, questo avvenimento-limite nella storia umana del silenzio è il silenzio di Auschwitz»6.

Ed è da questo silenzio che inizia l’articolato e originale percorso di Neher alla ricerca della comprensione del significato da dare al silenzio di Dio: dalla realtà storica vissuta risale alla fonte della Rivelazione per indagare se questo “peculiare modo di atteggiarsi di Dio” abbia dei precedenti. Neher scopre che la Torà è piena di silenzi di Dio e che questi momenti che sembrano manifestare una assenza, parlano, in realtà, di una pienezza di significati.

Il filosofo, che si rifà per la sua ermeneutica alla tradizione ebraica midrashica, talmudica e mistica, si accorge, ben presto, che il silenzio è un vero e proprio protagonista della Sacra Scrittura – sia che riguardi il rapporto uomo-uomo, sia che riguardi quello uomo-Dio – e che si rende visibile attraverso le tipologie dei nodi e delle falde. Gli uni corrispondono a brevi intervalli di silenzio, le altre a lunghe presenze strutturali di silenzio che possono durare anche più capitoli di uno stesso libro o, caratterizzarlo interamente.

«Nella Bibbia, la proposizione o la frase o il capitolo o il libro non si interrompono perché non c’era più niente da dire, ma perché il non-detto, o il non-dicibile, volevano, in quel momento, essere detti. E non lo potevano dire evidentemente se non attraverso il silenzio, i cui bianchi intervalli nella strutturazione della frase biblica, costituiscono i segni di emergenza […] Così i segni grammaticali conferiscono, da soli, al testo biblico, una struttura semiorale, semisilenziosa. Sulla scena della frase biblica, il silenzio emerge regolarmente come l’attore da una botola. È presente ovunque dove è assente la parola»7.

Dall’analisi terminologica che Neher effettua sulla parola “silenzio” all’interno della Torà, emergono tre diverse serie di radici che, raggruppate in coppie, vengono a costituire tre diverse dimensioni. Alla coppia damâ – šataq Neher associa il silenzio dell’inerzia, legato al sonno, alla morte, alla notte, come il silenzio monologale dei primi dieci capitoli della Genesi.

Il capitolo XI, quello dedicato alla costruzione della torre di Babele, costituisce una sorte di passaggio dove l’uomo vuole sfidare Dio, ma è dal XII che si viene a realizzare un significativo cambiamento. Qui Abramo cerca Dio apostrofandolo, così che la parola (dabar) viene introdotta nella Storia nelle sue due dimensioni: quella orizzontale del dialogo interumano (Abramo dà del “tu” alla moglie Sara) e quella verticale del dialogo tra Dio e l’uomo.

Il silenzio che emerge in queste pagine viene ad assumere, così, una nuova dimensione, quella dell’energia che si associa alle radici hašô e haraš che contemplano lo sforzo, la tensione, e che vengono a descrivere la situazione dell’Esodo.

Se risulta essere positivo il silenzio di Dio che segue la promessa ad Abramo di una discendenza “vasta come le stelle del cielo e la sabbia del mare”, e la profonda fedeltà del Patriarca, la seconda parte delle vicende sembra, piuttosto, riferirsi ad una terza dimensione del silenzio, quella della sfida. La coppia di radici di riferimento, questa volta, è ‘âlâm – haster panȋm. Al contrario rispetto alle altre due coppie qui si scorge una differenziazione: il primo termine si riferisce solo al silenzio degli uomini e può essere associato alla mutezza; il secondo termine, invece, è attribuibile solo a Dio ed è una espressione metaforica che sta a significare letteralmente nascondere il volto con un velo o una maschera. Una sorta di camuffamento del viso che giunge fino al soffocamento della parola che ricorda il nascondimento tra uomo e Dio del chassidismo, l’eclissi di Dio del pensiero buberiano, ma anche la situazione della Shoà dove la presenza di Dio sembra essersi fatta assenza, silenzio assoluto.

Nelle vicende di Abramo e Giobbe, in particolare, Neher trae interessanti spunti che gli parlano del silenzio della sfida e che possono essere accostati alle vicende di Auschwitz. Nel XXII capitolo della Genesi viene presentato il sacrificio di Isacco: il silenzio di Dio si protrae per tre lunghi giorni durante il cammino di Abramo con il figlio verso il Moria. Dio aveva esortato il Patriarca a comminare “davanti a Lui”, in Gn 17,1, ma solo al momento della ‘aqedâ (prova) si accorge che il Signore era scomparso improvvisamente alle sue spalle. Inutile la ricerca, perché Dio ha scelto di lasciare l’uomo solo con le sue responsabilità. Dio per altre strade lo precede e lo attenderà «laggiù, all’orizzonte-limite di una Promessa che restituisce soltanto ciò che ha tolto, senza mai compiersi»8.

Alla fine dei tre giorni di cammino e silenzio Abramo abbraccerà Isacco, ma da questo momento non ci sarà più dialogo tra Dio e Abramo che coltiverà, da questo momento, solo un dialogo orizzontale, tra pari. Una sorta di sfida con prova, dunque, per Abramo, mentre le disavventure che interessano Giobbe ci parlano di una situazione ben più critica.

Giobbe è l’immagine dell’innocenza, di colui che affronta il silenzio di Dio in modo drammatico, gridando e interpellandolo in prima persona, chiedendo se è Lui la causa delle sue prolungate disgrazie. Dio a Giobbe non ha chiesto nulla: i figli gli vengono tolti senza preavviso e quelli che gli verranno dati, successivamente, saranno altri figli. Quella di Giobbe, che si somma alle sofferenze fisiche subite, sembra essere una falsa prova: non vi è un lieto fine, ma sembra che tutto debba per forza giungere al fallimento. Nei momenti in cui il silenzio di Dio si percepisce più forte, intollerabile, Questi viene indicato con il nome di Šadday che significa “Colui che basta a se stesso”, l’Onnipotente dal quale non ci si può attendere nulla. Eppure, nonostante tutto, Giobbe si dimostra fedele al suo Dio silenzioso. In Gb 13,15-16 la speranza e la disperazione, nello stesso tempo, vengono sottolineate dall’utilizzo del termine jachal, spesso impiegato nel libro di Giobbe per indicare un legame, ma anche la rottura dello stesso.
Quindi, quando il Patriarca all’inizio del versetto pronuncia il suo , non conoscendo quale sia il suo avvenire, accetta la proposta di Dio insieme sperando e disperando. È l’atteggiamento che anche Neher sceglierà per poter ricostruire la propria fede che riemerge dalle macerie del silenzio di Auschwitz.

2. Il vuoto come immagine del silenzio

Il silenzio di Dio che Neher ha scoperto attraverso la sua attenta analisi del testo biblico trova una immagine corrispettiva nell’opera di Jehuda Loew Ben Bezalel (1512-1609) detto Maharal di Praga – rabbino talmudista e cabalista dimenticato dalla storia e avvolto dalla leggenda con i suoi scritti e con il suo Golem per circa tre secoli – riscoperto da Neher, che ha saputo apprezzare la profondità e la ricchezza dei contenuti dei suoi scritti9.

È in particolare dal testo più significativo del Maharal, il Be’er ha-golà10 (Pozzo dell’esilio), che il filosofo trae l’evocativa immagine di ‘emza׳, il mezzo, il vuoto. Secondo l’originale e, nello stesso tempo, tipicamente ebraica lettura del Maharal, siccome la lettera iniziale della Torà è la bet, di bereshit (“in principio”), la seconda dell’alfabeto ebraico, la creazione stessa e la storia sono caratterizzate dalla dualità, dalla continua lacerazione.

Le entità polari si relazionano tra loro in modo dialettico facendo emergere un terzo termine intermedio, il mezzo, che indica il movimento di unione e divisione. Questa complessa dialettica si organizza su tre assi: quello orizzontale delle relazioni tra uomo e uomo e tra uomo e natura; quello verticale tra uomo e Dio che viene pensato come una scala puntata verso il cielo e la terra, sospesa a metà strada, nel vuoto; quello diagonale, a metà anch’esso, che riguarda la possibilità di questo vuoto. Anche l’asse orizzontale che considera i due rami diversi all’interno del contingente, tende ad organizzarsi in asse verticale, tendendo a Dio, il punto di convergenza del tutto. La verticalità, dal canto proprio, manifesta una continua tensione nella comunicazione tra assoluto e relativo che si identifica con una sorta di “biopia”, due modi diversi di vedere la realtà considerandola dal punto di vista di Dio o da quello dell’uomo. Infatti:

«Il legame fra Dio e l’uomo non è un duetto d’opera: è un dramma dalle molteplici peripezie, laceranti, pianificanti. La storia sacra, vissuta in seno al mondo fisico, non è una “storia sacra” dagli episodi beatifici; è una avventura che trascina gli uomini attraverso le altitudini dell’esistenza e degli abissi della morte. Il cielo e la terra non si abbracciano con baci diafani: si stringono in una dura lotta, in un perpetuo combattimento dell’uomo con l’Angelo»11.

È nel concetto di ‘emza׳, secondo il Maharal, che si rende possibile una soluzione a questo dramma, collegando l’orizzontale al verticale, l’uomo e Dio. L’‘emza׳ viene a costituire il “medium del Patto” quando viene identificata con persone particolari scelte da Dio per raggiunger l’uomo – quali i profeti o Mosè, l’intermediario della Legge per eccellenza –, oppure con precetti particolari (mizwôt) che sollecitano la messa in pratica della Torà che, altrimenti, rimarrebbe “separata” dalla sua vita. Quella che per il Maharal è la funzione più tipica di ‘emza׳ nell’economia del Patto è, però, quella dell’essere “vuoto”.
Particolarmente evocativa è l’immagine che il Gran Rabbino trae dal midrash che illustra il momento della rivelazione delle Tavole della Legge:

«Le Tavole avevano una larghezza di sei palmi. Due palmi fra le mani di Dio. Due palmi erano fra le mani di Mosè. In mezzo, due palmi erano vuoti»12.

L’accento del Maharal è posto sui due palmi intermedi vuoti, perché il Patto, a suo avviso, è possibile solo grazie a questi:

«quel vuoto è il Patto stesso, è il faccia-a-faccia dell’uomo vivente davanti a Dio, è il Patto in-divenire, è la relazione e la comunicazione nell’istante stesso in cui si stabiliscono»13.

Secondo quest’ottica, se le mani di Dio e dell’uomo fossero contigue, nulla le metterebbe mai in comunicazione, resterebbero per sempre separate. Quindi, la relazione tra i due è possibile, paradossalmente, solo per mezzo di tale spazio vuoto intermedio che funge da collegamento. Un innesco peculiare che basa la propria solidità su di un vuoto piuttosto efficace.

L’arte figurativa di grandi autori ci fornisce delle immagini particolarmente evocative di questo vuoto che sembra impercettibile, insignificante, ma che se letto alla luce del pensiero maharaliano-neheriano acquisisce una sua ricchezza indiscussa.
Ci stiamo riferendo, a due opere: al dipinto olio su tela Mosè riceve le Tavole della Legge realizzato da Marc Chagall tra il 1950 e il 1952, e al particolare de La creazione di Adamo, decorazione michelangiolesca della Cappella Sistina, del 1511. La grande opera di Chagall mette ben in evidenza la distanza che c’è tra le mani di Mosè – pronte a ricevere le Tavole -, e le mani di Dio che si allungano come sostegno sicuro dall’angolo desto della tela. I due palmi vuoti sono degnamente raffigurati dall’attento pittore di origine ebraica.

Dall’affresco di Michelangelo, invece, un piccolo vuoto si rende visibile nella raffigurazione dinamica che avvicina e allontana, nello stesso momento, l’indice di Dio e quello di Adamo. In questo spazio vuoto è possibile leggere, nell’ottica neheriana, la libertà che Dio dona all’uomo a partire dal momento in cui lo crea. L’immagine del vuoto, così come il silenzio di Dio indicano – anche se l’uomo non riesce a rendersene conto, perché vi vede solo un’assenza di Dio – la Sua fiducia per la creatura prediletta.

3. Dal silenzio al vuoto, alla speranza

Come Abramo doveva camminare davanti a Dio e, quindi, lo perde nel momento della prova, allo stesso modo ad Auschwitz, sembrerebbe che Dio sia rimasto così indietro da arrivare troppo tardi. Per altre vie, che ora non possiamo conoscere, raggiungerà la meta lasciando all’uomo come compagnia, la libertà. Ma lasciare l’uomo libero significa introdurre nel mondo una incertezza radicale a causa del reale rischio del suo fallimento.

Le vicende della Shoà ne sono uno dei più tragici ed evidenti esempi della storia. Per uscire dalla difficile ed enigmatica situazione che l’uomo vive tra la presenza e la presunta assenza di Dio, Neher si rifà alla lezione maharaliana trasformando l’‘emzaי – il vuoto dei due palmi tra Dio e l’uomo – in un “forse” che riesce a realizzare una feconda dialettica tra Parola e Silenzio. La strada del forse è quella che Giobbe ha scelto di seguire quando ha deciso di affidarsi alla volontà di Dio, una via da percorrere senza pretendere nulla, ma nella quale si deve procedere confidando nella speranza. È la via più coraggiosa per testimoniare la propria fede, quella che si è affidata all’esperienza di vittoria della vita sulla morte testimoniata dei superstiti di Auschwitz.

Pur nella sua indeterminatezza, il forse, contiene in sé un potenziale di speranza tale che può far rinascere la fede stessa: una fede ex-nihilo, la fede del dopo Auschwitz, perché è una fiducia che nasce dal nulla, come da una nuova creazione. È la strada che ha deciso di seguire anche Neher, che ricorda:

«Ho conosciuto […] dei momenti di deriva metafisica. Educato in un contesto religioso, trasportato dal ritmo così confortante dell’adempimento dei mitsvot della Torà ebraica, ho sentito la rottura di questo ritmo, la dispersione del suo sostegno, l’assurdità del suo sostegno, mentre non c’era più, sulla terra, alcun sostegno, ma una travolgente follia di istanti fugaci; mentre non c’era più, nel cielo, un Adesso, ma un vuoto al quale non avevo alcun mezzo per aggrapparmi. Fino a quel momento, avevo vissuto nell’ambito di una Visione. Nella Shoà, sono stato abbandonato al Caso. E nonostante tutto, nel cuore della tempesta, e anche nel cuore della disfatta fisica – quando non sapevo più come fare per “vedere ed essere visto” (Gen XXII, 14) e mi abbandonavo al “caso” – ho ricostruito il mio essere religioso, ho creato, con i frantumi delle Tavole rotte, delle Tavole nuove, diverse dalle precedenti, […] ma delle Tavole, una Legge, una Fede, un universo con una terra per l’adempimento dei mitsvot e un cielo per aggrapparmici»14.

In ambito filosofico, così come nella vita quotidiana, Neher continuerà a fare affidamento nel forse, alimentando una fede ex-nihilo sofferta, ma profonda. Quando parlava della sua esperienza, amava riprendere le parole di una partitura che Arnold Schönberg aveva lascato incompiuta per il sopraggiungere della morte: “Eppure prego”:

«la preghiera di colui che tramuta la realtà e i suoi rischi omicidi in armi di pace»15

La preghiera della speranza del “nonostante tutto”.


NOTE

1. A. Neher, La Double Demeure. Scènes de la vie juive en Alsace, Librairie Colbo, Paris 1962.
2. A. Neher, Le dur bonheur d’être juif, Victor Malka interroge André Neher, Éditions du Centurion, Paris 1978, p 13, tr.it. a cura di E.Cecchi.
3. Vogliamo qui ricordare: A. Neher, Amos, contribution à l’étude du prophétisme, Vrin, Paris 1950; ID, Notes sur Qohélet, l’Écclesiaste, Éditions du Minuit, Paris 1951; ID, L’essence du prophétisme, Presses universitaire de France, Paris 1955; ID, Moïse et la vocation juive, Éditions du Seuil, Paris 1956; ID, Jérémie, Librairie Plon, Paris 1960.
4. Nel 1955 viene creata appositamente per André Neher la prima cattedra di Studi Ebraici – in Letteratura Ebraica post-biblica – in una Facoltà di Lettere francese, a Strasburgo, alla quale affianca anche un incarico presso l’Università di Tel Aviv. Si prodiga per l’introduzione dell’insegnamento dell’ebraico moderno nelle università francesi; ottiene presso l’Università di Strasburgo, dove organizza numerosi seminari di studio, la creazione della Licenza di Ebraico (1960) e del Diploma di Studi Superiori di Ebraico (1962); presiede presso la Sorbona lo sviluppo del CUEJ (Centre Universitaire d’Études Juives); fa parte del comitato organizzativo dei Colloques d’Intellectuels Juivs de Langue Française, realizzati per la sezione francese del Congrès Juif Mondial ai quali presenzia dal 1957 al 1967 quando si stabilisce a Gerusalemme.
5. Éditions du Seuil, Paris 1970, L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, tr. it. a cura di G. Cestari, Introd. di S. Quinzio, Marietti, Genova 2005.
6. Ibid., 147.
7. Ibid., 32. Un esempio di nodo si trova in Geremia 42,7, quando Dio diventa silenzioso mentre consulta il profeta; delle falde possono rintracciarsi, invece, nello sviluppo del libro di Ezechiele.
8. Ibid., 134.
9. Vogliamo qui ricordare i maggiori scritti di Neher sul pensiero del Maharal: Le Puits de l’Exil, la théologie dialectique du Maharal de Prague, Albin Michel, Paris 1966, Il pozzo dell’esilio, tr. it. a cura di E. Piattelli, Marietti, Genova-Milano 2007; Faust et le Maharal de Prague, le mythe et le réel, PUF, Paris 1987, Faust e il Golem. Realtà e mito del Doktor Johannes Faustus e del Maharal di Praga, tr. it. a cura di V. Lucattini Vogelmann, La Giuntina, Firenze 2005.
10. Y. Loew, Le Puits de l’Exil, traduit, presenté et annoté par E. Gourevitch, Berg International, Paris 1982.
11. A. Neher, Il pozzo dell’esilio, cit., 40.
12. Talmud Yerushalmi, Ta anit 68c, corsivo nostro.
13. A. Neher, Il pozzo dell’esilio cit., 135.
14. Ibid., Jérusalem, vécu juif et message, Éditions du Rocher, Monaco 1984, 64.
15. Ibid., L’identité juive, Éditions Payot & Rivages, Paris 2007, 244.