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Sultan Mahmud

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Matteo Losapio

Si narra che, tanto tempo fa, sulle rive del Lago di Garda, il giovane Anselmo, re d’Occidente, si innamorò della principessa Yildiz, soprannominata Meral, la cerbiatta, figlia di uno dei più potenti sultani d’Oriente, Sultan Mahmud. La leggenda di un amore impossibile, di un amore che travalica tutti i confini e gli steccati fra Oriente e Occidente, è anche la storia un desiderio che spinge all’unità fra culture differenti, popoli in guerra fra due sponde. Secondo la Leggenda di Anselmo e Meral, l’amore fra i due scatena l’ira del padre di lei, il potente sultano Mahmud che affida due uova di drago al suo guardiacaccia Yakup con l’intento di far nascere, crescere e allevare i due mostri che avrebbero ucciso Anselmo.

Al linguaggio della violenza che cova insieme alle uova di drago, si intersecano tre storie d’amore. La prima storia fra Anselmo e Meral, la seconda di un padre, Sultan Mahmud nei confronti di sua figlia Meral, la terza fra Yakup e Meral. Tre storie che intrecciano gli occhi della Cerbiatta, di Meral, di una donna che sarà capace di mettere a tacere tutta la violenza di cui sono capaci gli uomini e i draghi. Dal Lago di Garda, per giungere a Istanbul, per poi tornare sul Monte Baldo, la Leggenda di Anselmo e Meral ci racconta di come l’amore cresca nel silenzio e si alimenti nel silenzio, fino a purificare il cuore.

La tradizione islamica, di cui questa Leggenda è intrisa, ci conduce sul monte dove il silenzio accade. Secondo la tradizione, Maometto cerca luoghi di silenzio sui monti, rifugiandosi nelle grotte e nelle spelonche, per poter riscoprire se stesso nel silenzio. Secondo l’Islam, dunque, il silenzio è un’arte di purificazione del cuore, un modo per giungere ad una conoscenza più profonda di sé e che riscopriamo anche nella Leggenda di Anselmo e Meral quando Sultan Mahmud riceve la notizia della nascita di sua figlia, Meral, la Cerbiatta.

Nell’immensa città dei Due Mari viveva un sultano amato dal suo popolo e assai temuto dai suoi nemici. Sultan Mahmud era il suo nome che portava fiero in battaglia, esibiva orgoglioso nelle riunioni coi suoi generali, coccolava tenero e premuroso quand’era in famiglia. Viveva in un palazzo straordinariamente bello: enorme ancor più del suk più grande di tutto l’Oriente, bianco di marmi fatti giungere dai monti occidentali, con torri dai tetti d’oro zecchino e giardini immensi che ospitavano ogni specie d’alberi, ogni specie di cespugli, ogni specie di fiori. Era nato con l’aura del capo, Mahmud: lo si era visto subito dagli occhi scuri e seri con cui aveva guardato già il primo giorno la donna che aveva aiutato la moglie del Sultano a metterlo al mondo. Poi, crescendo anno dopo anno, aveva fatto tesoro degli insegnamenti e dell’esperienza dei suoi molti maestri e quando, giovane uomo da poco giunto all’età adulta, il suo vecchio padre morì, Mahmud prese su di sé il peso del potere assoluto con la grazia e la semplicità di chi conosce la propria forza e sa che da essa dipendono la sicurezza e l’avvenire del suo popolo. Anche se era padrone della vita e della morte di milioni di sudditi, non aveva mai avvertito la zavorra e il tormento della solitudine di fronte alle decisioni. Covava nel suo cuore, infatti, un amore immenso per la sua terra, per la sua gente e per la sua famiglia: non gli serviva nient’altro per governare con giustizia l’immenso Regno d’Oriente. Poi un giorno all’alba, poco prima dell’aurora, il ministro Kayra entrò nella stanza da lavoro del Sultan, s’avvicinò allo scrittoio sul quale Mahmud stava scrivendo e rimase in silenzio aspettando d’essere autorizzato a parlare. Il sovrano continuò a graffiare la penna d’oca sulla pergamena, concentrato nella scrittura. Alla fine con un sospiro alzò le spalle, depose la penna e senza girarsi mormorò: «Dimmi, Kayra… cosa c’è?» Il ministro s’inginocchiò, prese un lembo del mantello regale e tenendolo stretto in una mano sussurrò felice: «Mio dolce Sultan, stanotte è nata vostra figlia!». Sultan Mahmud non parlò, non sorrise, non ebbe alcuna reazione. Guardò negli occhi il suo ministro e con un cenno del capo gli chiese di uscire dalla stanza. Rimasto solo, il potente Sultan si diresse alla “preghiera” dai mille colori, il piccolo tappeto steso per terra al centro della loggia coperta che guardava a meridione. Si tolse le scarpe, si lavò le mani, il collo e il volto con l’acqua fresca di un catino d’argento, s’inginocchiò, piegò la schiena fin quasi a terra e sfiorò la preghiera dai mille colori con la fronte. A quel punto una lunga collana di silenziose orazioni si alzò dalla reggia del Regno d’Oriente e raggiunse Allah nell’alto del cielo per ringraziarlo d’essere stato così generoso, così premuroso, così affettuoso nel donargli una figlia. Sua figlia.1

La Leggenda di Anselmo e Meral ci viene presentata da Mauro Neri che ne ha curato la narrazione, mentre Luigi Ballarin ne ha curato le opere d’arte che costellano la storia. Ed è proprio sull’opera di Luigi Ballarin che correda questa narrazione di Neri, che vogliamo soffermarci per trattare il tema del silenzio nell’islamismo, in dialogo con le altre forme di spiritualità che derivano dalle altre religioni. L’opera di Luigi Ballarin si intitola Sultan Mahmud e la preghiera.

Sultan Mahmud
Sultan Mahmud e la preghiera – 80x 80 cm acrilico e smalto su tela – Luigi Ballarin 2019

Luigi Ballarin nasce a Venezia nel 1959, il suo percorso artistico si snoda fra la sua città di origine e Istanbul, in un confronto serrato e delicato fra Oriente e Occidente, fra la tradizione cristiana e la tradizione islamica. I suoi principali interessi sono rivolti al sufismo e al viaggio, tanto da aver la capacità di riunire commistioni materiche ad una profonda leggerezza visiva. Ha esposto in varie gallerie nazionali e internazionali come Dubai, Sharjah International Biennal, Bahrein, Al Riwaq Gallery, The Italian National Gallery di Day Abuja. Il forte simbolismo e l’espressività geometrica dei colori ci riportano ad una spiritualità nell’arte che riecheggia anche la dimensione del silenzio. In modo paradigmatico, nel suo Sultan Mahmud e la preghiera, il sultano d’Oriente viene ritratto nel momento immediatamente successivo alla notizia della nascita di sua figlia.

Intento a scrivere e ad occuparsi delle questioni burocratiche del regno, come abbiamo avuto modo di leggere, il Sultan riceve la notizia della nascita di sua figlia. Non dice nulla, non si scompone minimamente, non lascia trasparire nulla dal suo volto severo. Si alza, chiede al suo ministro di uscire dalla stanza, si prepara con le abluzioni e si inginocchia sul tappeto, facendo sgorgare una silenziosa preghiera di ringraziamento, fra l’etereo del cielo e le geometrie dell’anima.

La poetica artistica di Luigi Ballarin ci mostra quest’uomo austero che, nel silenzio delle mille possibili parole, è fra il ringraziamento e la perplessità. La grazia di aver ricevuto in dono una figlia si rivelerà anche momento di ansia per il futuro di questa figlia. Il silenzio orante invoca una illuminazione del cuore anche nel ringraziamento, un’attesa grata. Il ritratto di profilo, la postura delle mani alzate quasi a chiedere qualcosa, il volto indirizzato verso l’alto da cui riceve luce mentre la mano tiene saldo il tappeto dai mille colori, sono il segno di un silenzio che ringrazia ma anche si affida. Lo sfondo azzurro richiama ad una elevazione dalle vicissitudini burocratiche verso un quotidiano intriso d’eterno, mentre la veste geometrica del sultano è lavorio interiore alla ricerca di una geometria dell’anima in attesa di senso. Ed è questo silenzio che Sultan Mahmud ci propone che vogliamo tentare di scorgere anche nella nostra vita spirituale e nel panorama filosofico e teologico contemporaneo. Declinazioni di silenzio e di senso del silenzio che abbiamo suddiviso in tre parti: silenzio ha senso, silenzio a senso, silenzio assenso.

Per prima cosa, dunque, il silenzio ha senso. Non solo un senso al silenzio ma una ricerca di senso all’interno del silenzio stesso. Questa è la prima traccia a cui il silenzio ci chiama, un silenzio che non è tacere, ma cercare come fa notare Giovanni Gasparini:

Il silenzio è anzitutto elemento di snodo con la comunicazione verbale: come nota David Le Breton in uno dei pochissimi lavori socio-antropologici sul tema, il silenzio appare in qualche modo un intruso e un residuo anacronistico dello stadio a cui punta l’homo communicans: il silenzio, che si esercita normalmente attraverso un gesto di riflessione e un gesto di pazienza, è il vero nemico della comunicazione, dal momento che essa si svolge in un contesto di rapidità e d’urgenza. Siamo abituati a concepire il silenzio per lo più come una deprivazione rispetto a qualcosa che è fondamentale per l’esperienza e l’espressione umana, la parola. In questo senso il silenzio è considerato la cessazione e l’opposto del parlare, così come del produrre suoni o rumori: il verbo italiano tacere assume appunto questa connotazione negativa, che è essenzialmente quella dell’astensione, dell’assenza e della privazione. Ma è interessante rilevare che la lingua latina che pur disponeva dell’identico verbo tacere, con un altro verbo, silere, alludeva opportunamente ad un silenzio attivo inteso come azione concreta e reale, ad un “fare silenzio” che è o può essere significativamente orientato a certi obiettivi e valori.2

Forme e significati di un silenzio che non è solo riduzione della parola, ma abnegazione della parola, ovvero scelta di rimanere in silenzio. Come possiamo ricordare per la storia di Sultan Mahmud, il suo silenzio austero, seppur possa essere ricondotto ad una severità caratteriale, nasconde e rivela una scelta di non proferire parola, una scelta di elevazione della parola alla forma della preghiera. È nel silenzio, paradossalmente, che la parola si fa preghiera. E la preghiera assume il significato di una ricerca di senso, offrendo così senso al silenzio. Non è un tacere indifferente, come non è neanche un silenzio di contenimento, ma è silenzio che eleva la parola, scelta di non proferire parola ma di elevare la parola. In questo momento, per Sultan Mahmud, ma anche per la vita spirituale e la teologia, il silenzio ha senso in quanto offre senso alla parola in quanto preghiera e offre senso alla vita, agli accadimenti e avvenimenti della storia personale e collettiva. Il silenzio di Sultan Mahmud, infatti, è un silenzio che nasce da un avvenimento, che sgorga nel momento in cui ascolta della nascita di sua figlia Meral. Silenzio d’impatto e di arresto dinanzi al fluire della vita e in questa battura d’arresto ecco che emerge il senso della vita stessa, la vita in quanto vita.

Ed è questo silenzio che ha senso, il silenzio che diviene a senso, ovvero orientamento. La tradizione islamica a cui fa riferimento Sultan Mahmud, è una tradizione che orienta il corpo nella preghiera. Ricordiamo come il Sultan si alzo, si purifichi, si inginocchi, chini la testa fino a toccare il tappeto e in quel momento sgorga, silenziosa, la preghiera. Il silenzio che aveva posto una battura d’arresto al fluire inconsapevole e impegnativo del quotidiano, diviene orientamento e postura del corpo prima e della preghiera poi. Un silenzio che orienta il corpo, un silenzio che ha a che vedere con tutto il corpo, non solo con le labbra. Ecco, allora, che il silenzio assume senso nella misura in cui orienta al senso, ovvero verso Dio. Pregare nel silenzio significa orientare la propria vita verso il Senso, verso la pienezza di Dio. Una pienezza che si rivela nella parola ma che si custodisce e si fortifica nel silenzio. Per Sultan Mahmud, la preghiera silenziosa verso Allah è capacità di scorgere non la parola, ma la manifestazione stessa di Dio: generoso, premuroso, affettuoso. Se Dio si rivela attraverso la Parola è anche vero che il silenzio ci orienta verso quella Parola spogliata da tutte le terminologie e le definizioni stesse che possiamo offrire.

L’orientamento della preghiera, così, ci apre ad una relazione con Dio radicata nel profondo legame fra silenzio e parola, nello spazio interstiziale fra silenzio e parola. Andando oltre la tradizione islamica, il nucleo del silenzio a senso è la teologia apofatica, cara al cristianesimo ortodosso in particolare.

L’ultima parola della teologia, dunque, è il silenzio; la sua essenza risiede nell’assenza di parole. È infatti difficile, come sostiene Gregorio il Teologo, concepire Dio, impossibile definirlo. La teologia all’apice è un non detto; è massimamente autentica quando si esprime nel silenzio. Per questo le icone di Giovanni evangelista lo raffigurano con le dita poste innanzi alla bocca chiusa, quasi a sottolineare l’importanza e il mistero del silenzio. La via della teologia e della spiritualità ortodosse, allora, non può essere compresa adeguatamente senza apprezzarne la dimensione negativa o apofatica.3

L’ultima parola della teologia è silenzio perché la teologia è, innanzitutto, una esperienza di Dio, una esperienza in cui il desiderio è orientato verso Dio, in cui il corpo stesso comprende se stesso nel senso di Dio. Senso non come effluvio di parole, ma come apofatismo, ovvero come incapacità di comunicare fino in fondo, fin nella profondità questa esperienza. Lo iato che sussiste fra Creatore e creatura si rivela proprio nel silenzio che non è incapacità di capire, ma in-comprensibilità, ovvero il non riuscire a prendere tutto di Dio. In questa concezione del Senso di Dio, del Senso che è Dio, la parola incespica, sbiadisce, raccoglie il possibile in immagini e simboli, ma non esaurisce la pienezza del Senso. In questa visione del silenzio a senso, l’orientamento della preghiera, della parola elevata a preghiera, ci permette di intravedere i contorni del volto di Dio, del volgersi del Volto di Dio verso di noi, ma al tempo stesso non cessa in una singola definizione. Ed è proprio questa inesauribilità del Senso che forgia la parola nel silenzio perché il silenzio non si contrappone alla parola ma forgia la parola più significativa, forgia il mistero della parola come relazione con le altre persone. Potremmo affermare che solo chi sa rimanere in silenzio è capace di indirizzare una parola autentica all’altro, solo chi coltiva se stesso è capace di non distribuire parole a caso o lasciarsi ad un effluvio di parole, ma a ritrovare anche una essenzialità della parola e una parola essenziale per l’altra persona.

Nel forgiare la parola attraverso il silenzio, si gioca quella relazione fra noi e Dio nello Spirito e nell’accompagnamento spirituale, come ci suggerisce André Louf:

Anche l’accompagnamento spirituale deve tendere a questo, la guida deve restare in guardia finché al figlio spirituale non accade quello che è successo a Paolo quando è caduto da cavallo: è stato il momento cruciale, quello in cui lo specchio giudaico di Paolo è andato in frantumi. Il discepolo deve imparare a riconciliarsi non con un ideale, ma con la propria realtà, cioè con i suoi limiti, le sue debolezze, le sue ambiguità, le sue contraddizioni, il suo peccato; deve imparare a coincidere non con la propria immagine riflessa ma con la realtà concreta che egli incarna. Per chi ha passato un certo tempo vivendo in riferimento alla propria immagine riflessa, il momento in cui questa va in frantumi ed è distrutta segna una crisi molto grave. Si potrebbe dire che in quell’istante si sfiora la possibilità della malattia mentale. L’accompagnamento spirituale passa per un momento molto vicino a questa possibilità: si sfiora il punto più debole della struttura psicologica e quella soglia può essere addirittura varcata nel caso in cui l’io sia abbastanza facilmente disintegrabile. Di solito questo non succede, ma il pericolo può essere scongiurato solo dalla rivelazione del Dio misericordioso e salvatore, nel salutare incontro con lui.4

Forgiare la parola nel silenzio, orientare la vita a Dio nel silenzio, significa anche porre un discernimento dentro di sé, far spazio a quella Parola di Dio che rivela il suo volto oltre le nostre stesse immagini di lui. Se torniamo all’esempio di Sultan Mahmud, il prosieguo della sua storia con sua figlia è il banco di prova del silenzio che ha vissuto orientando la preghiera a Dio. Tutto quel profondo silenzio cosparso di preghiera, quella geometria dell’anima che ha cercato e per cui ha ringraziato nell’etero del fondo blu della sua gratitudine, si trasforma in prova quando sua figlia si innamora di Anselmo, il nemico per eccellenza. La storia del nostro Sultan è un continuo discernimento che lo spingerà all’assenso.

Non solo assenso alle nozze di sua figlia Meral, ma assenso alla ricerca di un volto di Dio che va ben oltre la sua stessa immagine, la sua stessa precomprensione di Dio. il Dio Altro, il Trascendente e Misericordioso, si rivela nell’altro che si presenta dinanzi a lui, nel nemico, nell’avversario che difficilmente riusciamo ad amare. Così, se i draghi sono il simbolo di un odio covato e affamato di vendetta, è solo l’amore che permetterà al Sultan di dare assenso alla vita, di scegliere e indirizzare contemporaneamente la vita al Senso. Il silenzio assenso, dunque, non è un tacere che fa passare le cose e le situazioni, ma un silenzio che orienta la vita verso un sì, verso una felicità che non è solo conquista e sforzo, ma anche abbandono e incontro. Paradigmatico di questo assenso è la riflessione di Juan Arias:

È la grande decisione della nostra esistenza. È una responsabilità che fa rabbrividire perché coinvolge il nostro destino definitivo, al di là del tempo. È una decisione “allegra” perché passa per l’Amore ed è impregnata di speranza; ma è “cruenta” perché l’uomo deve immolare sull’altare non già suo figlio, ma qualcosa di più intimo, più suo, più doloroso: la libertà. Convertirsi è ridonare a Dio la cosa più grande che l’uomo ha ricevuto da lui: l’unica cosa che può piacergli: la sua libertà. E qui entra in gioco l’incredibile grandezza dell’essere umano che si sente capace di dire un “no” libero, satanico, distruttore, al Dio Creatore, all’Onnipotente, al Liberatore, al Redentore. L’uomo si trova faccia a faccia con Dio per dirgli “sì” o “no”, per preferire se stesso o abbandonarsi a un Amore che chiama e promette ma che non costringe; che invita alla conversione perché sa che il bene è ciò che libera l’uomo, anche se lui avrà sempre la tentazione di dire un “no” a Dio illudendosi di salvare la sua libertà mentre in realtà finirà col rimanere schiavo, soffocato dalle catene più odiose di un uomo: l’incapacità di amare.5

Assenso, allora, è decisione di vita, capacità di non comprendere Dio e di offrire comunque la propria libertà perché ci possa tornare indietro nella libertà dell’altro. Discernimento che possiamo maturare solo nel silenzio e che dal silenzio parte per offrire senso non solo alla propria vita ma alla vita anche delle altre persone, alla loro libertà. Il silenzio, anche del nostro Sultan, ci insegna che la vita spirituale non si nutre della persuasione delle parole, ma di un forgiare la parola indirizzandola alla libertà, facendo i conti con le proprie immagini come anche con le immagini di dio che ci portiamo dentro, alla ricerca di un Dio che ancora parla, nel silenzio.


NOTE
1. M. Neri – L. Ballarin, La leggenda di Anselmo e Meral. Dal Lago di Garda al Mar Nero inseguendo antiche storie, Tipografia Effe e Erre, Trento 2019, p. 11.
2. G. Gasparini, C’è silenzio e silenzio. Forme e significati del tacere, Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 8.
3. Bartholomeos I, Incontro al mistero. Comprendere il cristianesimo oggi, Qiqajon, Magnano 2013, p. 81-82.
4. A. Louf, Discernimento: scegliere la vita, Qiqajon, Magnano 2017, p. 67-68.