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Stralcio della Lettera Pastorale alla Chiesa di Verona (2023)

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Domenico Pompili
Vescovo di Verona
“Il sussurro di una brezza leggera” (1Re 19,12)

 

All’alba dell’inverno e per tutta la primavera ci siamo incontrati. Prima ancora dei volti, ho scoperto il paesaggio di una terra bellissima. Ho ammirato le luci del tramonto, sulla Lessinia dolce, con le sue montagne tonde, sulle acque del lago di Garda, sulle distese della Bassa veronese. Ho percepito l’atmosfera che avvolge Verona, quando senti solo la voce dell’Adige, la notte, prima che arrivi il giorno. Durante la visita, poi, i momenti che ho condiviso con le diverse generazioni si sono svolti nei luoghi più disparati: cantine – e non solo in Valpolicella -, oratori, scuole, centri comunali, cooperative, case di accoglienza per bambini, anziani e disabili, palestre e naturalmente chiese, cappelle, conventi e monasteri. Tutte le volte ho ricercato la quiete necessaria all’ascolto delle storie, ad immaginare i passi del cammino, le fatiche e, insieme, intuire i germogli che affiorano. Da questi ho raccolto e condiviso solo alla fine, lievi suggestioni. Anche ora, più che stilare progetti, elencare priorità o fantasticare di sogni, desidero avviare una riflessione che in questo anno possa alimentare la vita della nostra chiesa e divenire il terreno nel quale radicare la nostra azione pastorale. Vorrei soffermarmi a riflettere su quella realtà che è al fondo, al cuore, all’inizio di ogni avventura cristiana. Sto parlando del silenzio.In un contesto in cui il rumore sembra avere la meglio, in cui le parole perdono di significato, la nostalgia del silenzio e l’aspirazione a ritrovarlo si acuiscono. Il silenzio libera dal peso di dover stare sempre sul chi-va-là, restituendoci a una intensa percezione del mondo, lontano dal disincanto in cui si perde l’orizzonte. Lo scriveva anche Dietrich Bonhoeffer: “Nel silenzio è insito un meraviglioso potere di osservazione, di chiarificazione, di concentrazione sulle cose essenziali”.

1. Immersi nel silenzio

Non è un caso, forse, che sempre più numerosi siano quelli che cercano spazi e tempi di deserto. È possibile che anche lo straordinario successo che ha oggi il camminare, rappresenti una forma di riscoperta del silenzio. In un mondo segnato dalla velocità, dall’utilità e dal rendimento, andare a piedi è una prova di resistenza che privilegia la lentezza e la gratuità, a volte perfino la conversazione. Risponde, in ogni caso, a una ricerca di interiorità e di ritorno all’essenziale perché diventa un modo per stabilire una distanza tra sé e il rumore, per immergersi nel silenzio di una foresta, per misurarsi lungo un sentiero impervio, per arrivare dinanzi a un mare d’inverno su una spiaggia deserta.

Riposizionare il silenzio al centro della propria esistenza significa ascoltare la parte più vera di sé, in mezzo al frastuono frenetico di un mondo inquinato dal rumore: il rumore esterno e quello, ancor più pervasivo, dei vari dispositivi elettronici, che creano una “eco” assordante ed isolante. Ritrovare il silenzio interiore è indispensabile per evitare che tutto diventi opaco e confuso e per non chiudersi all’altro da sé. Senza il silenzio, infatti, è impossibile capire chi siamo e che cosa vogliamo diventare. Il silenzio è una sorta di bene comune da preservare nella propria esperienza, nella relazione interpersonale, nella vita sociale e politica. In primis, però, nella vita spirituale. Sono consapevole che si tratta di un tema che spinge ad andare contro-corrente: il silenzio è una realtà “contro-ambientale”, perché oggi tutto tende ad essere “riempito”, mentre per essere generativi occorre essere accoglienti e non già saturi. Il silenzio è recettivo, non impositivo; è comprendere, non prendere; è contemplativo e proattivo insieme.

Vivere concretamente il silenzio, farne l’esperienza, capovolge il nostro sguardo sulla realtà perché svela un’altra postura esistenziale e quindi un atteggiamento pratico diverso. C’è forse una nostra responsabilità nell’aver abbassato il livello dell’ascolto ed aver riempito il mondo, quello esteriore e quello interiore, di rumore. Ma può diventare anche un compito possibile da ripensare: diventare, sia come persone che come comunità, spazi di ascolto, laboratori di contemplazione. Del resto, se ci si sofferma un istante di più oltre la narrazione evangelica, si scoprono di Gesù non solo le parole, ma anche i silenzi. Come quando si accovaccia accanto alla donna buttata in pasto alla violenza e all’umiliazione e, stando in silenzio, scrive sulla sabbia (cfr. Gv 8,1-11). Solo dopo dirà “chi non ha peccato scagli la prima pietra”.

Forse il Maestro ci ha voluto insegnare quale debba essere, in ciò che siamo chiamati a fare, l’ordine di precedenza. Non a caso, nel miracolo del sordo-muto (cfr. Mt 7,31-37), prima guarisce le orecchie e poi scioglie la lingua di quell’uomo. Sembra dire: prima viene l’ascolto, ovvero il silenzio. Ma poi, tutte le volte che si commuove, che prova compassione, entriamo anche noi nel suo silenzio che, prima ancora di farsi cura si fa contemplazione e commozione. È proprio vero: dal vuoto nascono le “chiacchiere”, dal silenzio nascono le “parole”. Però, come nel nostro organismo c’è un colesterolo “buono” e uno “cattivo”, così c’è anche un “silenzio buono” e un “silenzio cattivo”. L’omertà, ad esempio, è un silenzio cattivo; non infrangere il muro di certi silenzi che coprono le ingiustizie, delle connivenze con poteri violenti è silenzio cattivo. Tacere su questioni vitali come pace, giustizia e salvaguardia del creato è un esempio di questo mutismo irresponsabile e colpevole. Per contro, è un silenzio buono quello di chi si concede spazi di solitaria riflessione al mattino o alla sera, così come è buono il silenzio di chi non pretende di avere immediatamente qualcosa da replicare su qualsiasi notizia, ma sa meditare nel proprio cuore, cercando di non reagire con la pancia, ma neppure solo con la testa. Oggi c’è bisogno di silenzio per ritrovare il senso, il gusto della vita.

Il rischio o, forse, il fatto è che chi bussa alle nostre porte, alle porte delle nostre comunità, invece troppo spesso non lo trovi. Come se il silenzio sia un bene di prima necessità che abbiamo però consumato, finito, senza farne scorta. Come può finire l’olio o il sale. Il problema vero è se la ricerca del silenzio viene colmata con l’offerta di cose, di rumore, ma non di ciò che dal silenzio si genera: la Parola. Invece, questo è il nostro compito se qualcuno bussa: il Silenzio e la Parola devono brillare sempre sulle nostre tavole. Nella vita, nella morte, nel dolore, nell’amore, cerchiamo parole e gesti in grado di esprimere qualcosa e non li troviamo. Spesso, anche le nostre stanche liturgie sembrano aver smarrito la sapienza di una ritualità che aiuta a dare forma e senso alla vita e ai suoi momenti topici. Eppure, proprio questo sarebbe uno dei regali che possiamo fare ancora al mondo, senza presunzione, ma coltivando quel che a nostra volta abbiamo ricevuto e che siamo chiamati a trasmettere: “Fate questo in memoria di me”.

2. “Urla dal silenzio”

Tra le icone del tempo moderno c’è di sicuro “L’urlo” di Edvard Munch (1893), un dipinto nel quale, in una natura di una bellezza magnetica e struggente, l’uomo trova… lo specchio della sua sofferenza. M. McLuhan dà una lettura convincente di questo quadro. Secondo lo studioso canadese, il mondo intorno è sempre più indefinito, informe, sembra sciogliersi e così il volto stesso dell’uomo, mentre la staccionata – la razionalità strumentale? la burocrazia? Il potere tecnoeconomico? – spicca per la sua rigidità e la sua forza disciplinante. Inevitabile che l’uomo sia lacerato tra un mondo che tramonta e si disfà e un potere che lo fagocita. È l’umano che è in noi, a rischio di estinzione o disciplinamento, che urla. Ed è un urlo muto. Il grido, del resto, non è mai lontano dal silenzio: si tratta di due mondi contigui, di due modi per far calare il lutto nel linguaggio quando si è attanagliati dalla sofferenza.

Un’indicibile duello che mette in scacco la ricchezza delle parole: l’amarezza, la separazione, la morte non trovano più le parole per esprimersi con sufficiente intensità. Il dolore spezza la voce, rendendola irriconoscibile, provoca il grido, il lamento, il gemito, le lacrime o il silenzio: tutte espressioni di fallimento delle parole e del pensiero. Tenendo sullo sfondo la potente immagine di Munch, è allora importante provare a restituire la parola a quelle “urla dal silenzio”. Se si vuol incontrare la realtà lontano da luoghi comuni occorre infatti provare ad ascoltare le sofferenze più acute che attraversano la nostra umanità ferita. E dobbiamo imparare a interpretare i silenzi. Penso al silenzio dei vecchi e a quello degli adolescenti, al silenzio dei migranti e a quello delle donne, al silenzio dei carcerati e a quello delle chiese cristiane.

Il silenzio dei vecchi

È come quello degli alberi della foresta, con il loro fusto rugoso, la corteccia che racconta il tempo. Il silenzio dei vecchi ha qualcosa di solenne, di essenziale. Non si perde più in chiacchiere, resta diritto che ci sia il sole o la pioggia. Qualche volta sembra un silenzio carico di nostalgia, altre volte di gratitudine. Il silenzio dei vecchi – si può dire anziani, ma vecchi è una parola più bella perché è più intensa, più vera – può raccontare le loro paure di non farcela, le loro fragilità. Spesso invecchiando ci si ammorbidisce un poco. Si ha voglia di essere abbracciati. E noi di abbracciare i nostri vecchi, come i bambini certe volte fanno con gli alberi. Il silenzio dei vecchi è triste quando è sinonimo di isolamento, di esclusione. Ma se il nostro diventa un silenzio ospitale, ecco che loro, i nostri vecchi, iniziano a raccontare. Ci fanno sentire parte di un “noi” che rischiamo di smarrire. Ci fanno sentire parte di una storia.
Ci connettono alle nostre radici, con la profondità della terra. Una città dovrebbe essere attenta ai propri vecchi, quando fa le strade, le piazze, le panchine all’ombra, le biblioteche con i giornali da consultare con una lente vicina, per ingrandire le parole. Una comunità dovrebbe essere “gelosa” dei propri vecchi, come di un tesoro prezioso. Dovrebbe consultarli sulle “età della vita”.

Il silenzio degli adolescenti

Spesso diciamo che sono distratti o rinchiusi nei loro loculi social. Non possiamo però non lasciarci interrogare dalle loro solitudini, dalla loro incomunicabilità. Le statistiche raccontano dati drammatici su ragazzi che arrivano a togliersi la vita. Il dramma del suicidio. Qualcuno dice che la causa sia che hanno perso il senso della vita: e se, invece, il senso della vita quei ragazzi ce l’hanno a dismisura, ma non sanno dove dargli casa, dove esprimerlo, dove investirlo? Non può sfuggirci che spesso a compiere questi gesti estremi non sono i più superficiali ma i più sensibili. Come se vedessero tutto il bene e il male del mondo, ma non sapessero prenderlo su di sé né, tanto meno, condividerlo. Bisognerebbe custodire la loro memoria perché diventi uno spazio prezioso di riflessione per i loro coetanei, un contributo per rileggere insieme il senso della vita. Su questo ci si deve interrogare come comunità politica, come scuola, come chiesa. Talora i ragazzi si infilano in un mondo parallelo, perché il nostro mondo non sempre li ospita, li capisce. Spesso stanno in silenzio perché non possiedono un alfabeto comunicativo. Non riescono a dare una voce ai loro sentimenti. E non di rado trovano anche in noi adulti degli “analfabeti” degli affetti. Una città, una comunità ecclesiale deve dare ospitalità ai loro silenzi, deve aiutarli a liberare i loro racconti. Non hanno bisogno di essere “distratti” ma di ri-prendere la parola. Solo se noi facciamo più silenzio le loro parole, talvolta soffocate, impaurite, potranno risuonare, insieme al loro canto, alla loro voglia di vivere.

Il silenzio dei migranti

Li vediamo alla mattina presto davanti alla Questura. Noi passiamo in macchina di fretta, e loro sono lì, in silenzio, che aspettano di essere “riconosciuti”. Avrebbero tante storie da raccontare, ma nessuno gliele chiede. Potrebbero dirci molte cose che non sappiamo, raccontarci molti viaggi che non abbiamo compiuto e rivelarci le tante ingiustizie e umiliazioni subite. Noi spesso siamo piegati dentro gli ingranaggi del nostro orologio del fare e dell’avere, de “il tempo è denaro”, e loro invece sono lì, diritti, figure regali piene di dignità. Spesso le donne migranti, che si prendono cura dei nostri vecchi, imparano a capire perfino il nostro dialetto, per rassicurarli durante la notte con un “tutto va bene”. Il loro silenzio custodisce quelle “contro-narrazioni” che non trovano spazio nella comunicazione dei media. Il silenzio dei migranti può essere quello di una immensa biblioteca piena di sapienza che noi non siamo in grado di consultare o forse non lo vogliamo. Spesso il loro è un silenzio amaro, frutto di umiliazioni e di violenze. Non possiamo essere complici di chi zittisce la giustizia, umilia i diritti umani. Dobbiamo gridare, rompere il silenzio omertoso, non possiamo essere complici di chi sfrutta donne e uomini condannandoli ad una vita disumana.

Il silenzio delle donne

Laddove nel mondo, la voce coraggiosa ed intelligente delle donne può levarsi, lo illumina in un brulichio di luci, come le immagini della terra di notte: ove tace, più forti si innalzano le grida violente degli uomini, il pianto dei bambini e il rumore metallico delle armi. Sono loro a dare l’allarme per una terra che brucia, a raccontare la guerra in modo diverso, privo di retorica, restituendone tutto il dramma e la follia. Anche nella chiesa la loro voce e il loro pensiero si alzano liberi, maturi, ma ancor troppo marginalizzati e disattesi. Ma dal buio del passato alla recente penombra, le donne hanno imparato a comunicare attraverso il loro silenzio. È il silenzio che ricorda la profondità della vita, quello che una società superficiale si ostina a non voler ascoltare. Il silenzio delle donne è una denuncia dell’indifferenza di un mondo che continua a fare la guerra, alimentare la violenza, investire nelle armi. Le donne stanno diritte in silenzio sempre. Il silenzio e la parola delle donne interpellano la città e la chiesa. Alla loro scuola è necessario andare per ritrovare le parole e il silenzio che abbiamo perduto.

Il silenzio dei carcerati

In alcuni momenti, quando si passa davanti al carcere di Montorio, sembra che regni il silenzio. In realtà, quelle mura alte imprigionano voci e canti, e anche molte lacrime. Perché in carcere il silenzio è forse impossibile. E se qualcuno, magari, lo cerca dentro di sé, riesce a strappare un “pezzettino di silenzio” solo con grande fatica. C’è però l’altro silenzio. Quello assordante di una società che rimuove quel luogo, che non lo vuole vedere, sentire. Il difficile silenzio delle carceri dovrebbe interrogarci rispetto al troppo facile silenzio sulle carceri. È il silenzio dell’oblio, della dimenticanza: una parte di società “perfetta” che non vuole vedere gli “imperfetti”, che non vuole distinguere l’errore dall’errante, che non prova compassione per donne e uomini a cui nega perfino il diritto di ricominciare. Se ne parla sui giornali, troppo spesso solo per notiziare di un atto estremo tra i carcerati, ma anche tra la polizia penitenziaria, persone braccate dalla disperazione dalla solitudine. Una società giusta dovrebbe invece non solo garantire luoghi di pensa più umani, ma anche inventarne di alternativi che possano valorizzare le persone, ne colgano e promuovano le peculiarità per favorire un’autentica integrazione. Non più oggetti, ma soggetti, protagonisti anche loro di una società che sa trovare per tutti un posto dove sia possibile rinascere.

Il silenzio ecumenico

Spesso le religioni e le chiese non sono state in ascolto le une delle altre. Perché non hanno saputo cogliere i tempi del silenzio. Non siamo stati educati a stare in silenzio per accogliere la voce del divino che si fa presente nelle varie tradizioni religiose. Perfino tra cristiani di diverse confessioni non è facile ascoltarsi. Il rischio di una chiesa, per così dire, di “maggioranza sociale” come la nostra può essere quello di sentirsi più importante, più in vista delle altre. Eppure: solo se ci ascolteremo ci riconosceremo e, allora, ci “riconosceranno”. Il silenzio condiviso tra le religioni puà tramutarsi in una profezia dello stupore della presenza del divino nel mondo, nella natura, nella storia dell’umanità. E il silenzio ecumenico dei cristiani è la risposta alle istanze evangeliche di cui siamo diventati responsabili. Come risposta all’appello divino, può essere il luogo da cui rinascono una giustizia reciproca e un sogno di pace. Lo dice a chiare lettere papa Francesco nell’enciclica Omnes fratres: oggi, il perseguimento della pace impone un patto tra tutte le religioni.

3. “Tu parli anche quando taci”

Il silenzio è il linguaggio di Dio. Esso costituisce la forma della rivelazione e lo strumento più eloquente dell’adorazione. All’Infinito corrisponde e risponde l’Ineffabile. Curiosamente, nella lingua ebraica non si parla mai del Volto di Dio al singolare, ma sempre e soltanto al plurale, perché Dio è uno e molteplice, edito e inedito, conosciuto e sconosciuto. Dio non ha volto, perché rappresenta l’infinità dei volti possibili. Il suo Volto è alterità e relazione, parola e silenzio, concessione, ma anche sottrazione di sé e mistero. Questo sta a dire che di Dio potremo conoscere soltanto le tracce, mai vedere il Volto. Quali sono allora le tracce che ci permettono di comprendere il silenzio di Dio nella Bibbia? Perché Dio tace? Forse è questo lo scandalo più difficile da accettare. A tal riguardo, nel panorama biblico ci sono almeno tre strade da percorrere. La prima ha a che fare con il silenzio dell’ ira e dello sdegno. Dio tace perché l’uomo, nella sua arroganza, lo ha messo a tacere. Dio tace perché l’uomo non lo lascia parlare. I profeti di Israele stigmatizzano questo peccato che è la ragione dell’assenza di Dio. Il profeta Michea denuncia i capi del popolo perché non sono pastori, ma cannibali; invece di curare le pecore, le sbranano, facendosi beffa della giustizia e ignorando il diritto. La punizione è inevitabile:

«… grideranno a JHWH, ma egli non risponderà, nasconderà loro la faccia perché le loro azioni sono state malvage!»

L’allusione ai tempi più bui del popolo di Israele è qui evidente: l’esilio, la deportazione, la perdita della terra e del benessere. E Dio fa silenzio. I capi del popolo lo implorano, ma Lui non è un “tappabuchi”, pronto a essere usato solo nel momento del bisogno. E infatti la sentenza del profeta è netta:

«Ma egli non risponderà!» (Mic 3,1-4).

La stessa struggente consapevolezza emerge in un passo del grande Isaia:

«Davanti a queste cose te ne rimarrai impassibile, o SIGNORE? Te ne starai in silenzio?» (Is 64,1.9-12)

Il silenzio di Dio, oggi come ieri, è dovuto alla malvagità e all’idolatria dell’uomo che cerca la salvezza negli idoli “sordi e muti”, che non hanno nessuna capacità di parlare:

«hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchie e non odono… » (Sal 115, 4ss.).

Se l’uomo finisce per consegnarsi agli idoli, ai miti antichi e moderni, allora a Dio non resta che starsene in silenzio. Dio tace perché ormai il tempio è divenuto una spelonca di ladri. Resta però innegabilmente vero che ci sono drammi collettivi e personali che rendono la domanda sul silenzio di Dio lancinante. In uno dei suoi capolavori, “La notte”, Elie Wisel racconta l’impiccagione di tre prigionieri ad Auschwitz. Tra loro un bambino, “l’angelo dagli occhi tristi”. Tutti i prigionieri dovevano passare davanti a quello scempio ed era loro vietato di coprirsi gli occhi:

«Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più (…) la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora (…) Era ancora vivo quando gli passai davanti (…). Dietro di me udii il solito uomo domandare “dov’è dunque Dio?” E io sentivo in me una voce che gli rispondeva “Dov’è? Eccolo: è appeso lì a quella forca…».

Davanti a quello su cui si può solo tacere o balbettare, come dirà Hans Jonas, il credente capisce che Dio non è mai in nessun carnefice, ma sempre in tutte le vittime della storia. Possiamo riprendere le sorprendenti parole che Etty Hillesum rivolge a Dio nel suo Diario, come “Preghiera della domenica mattina”:

«Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, in questo modo aiutiamo noi stessi; l’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che certamente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E, forse, possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini».

Prenderci cura di Dio, dice l’ebrea Etty Hillesum dalla sua “baracca pensante” del campo di sterminio, quando il silenzio di Dio diventa uno scandalo. Quante volte, donne e uomini innocenti hanno lamentato il Suo silenzio: dovrebbe gridare e se ne sta zitto. Ed ecco allora la seconda traccia che le Scritture ci offrono per interpretare il silenzio di Dio: la via del silenzio come pedagogia. Soffermiamoci, come già nei primi incontri con i presbiteri e i diaconi, sulla vicenda di Elia (1 Re 19). Dopo la vittoria sui profeti di Baal, Elia si mette in viaggio non solo per mettersi in salvo da una regina malvagia che cerca di ucciderlo, ma in realtà, per ritrovare un Dio che li parli e lo rassicuri. E invece?

«Il SIGNORE passò. Un vento forte, impetuoso, schiantava i monti e spezzava le rocce… ma il SIGNORE non era nel vento. E, dopo il vento, un terremoto; ma il SIGNORE non era nel terremoto. E, dopo il terremoto, un fuoco; ma il SIGNORE non era nel fuoco. E, dopo il fuoco, la voce di un silenzio sottile. Quando Elia lo udì, si coprì la faccia con il mantello, andò fuori… della spelonca» (19,11-13).

“La voce di un silenzio sottile” o, come traduce qualche altro interprete, “una voce di silenzio svuotato”. La LXX e la Vulgata ce l’hanno restituita come “un vento leggero”, per mitigare l’apparente contraddizione tra voce e silenzio. Una delle poesie di Soren Kierkegaard si avvicina di più alla possibilità di tradurre questa ineffabile esperienza con queste parole:

«Padre celeste! In molti modi tu parli ad un uomo: Tu, l’unico che hai sapienza e intelligenza… Tu parli anche quando taci; perché parla anche colui che tace, per provare l’amato; parla anche colui che tace, affinché l’ora del capire sia tanto più intima quando essa verrà. Padre celeste, non è forse così?»

Sentiamo, tuttavia, che anche questa risposta, benché sapiente, non può essere quella definitiva. Ed ecco allora l’ultima strada per comprendere il silenzio di Dio, una strada decisamente sterrata, che è possibile rinvenire nel silenzio della croce di Cristo. Non si tratta più del silenzio di un Dio che tace a motivo della malvagità umana e nemmeno del silenzio che educa. Si tratta del silenzio di chi, per amore, si fa solidale con il grido disperato che nessuna parola potrà mai consolare. L’evangelista Marco offre la comprensione più adeguata di questo muto mistero di un Dio che ama con il suo silenzio, quando descrive la morte di Gesù in croce. Proprio nel momento supremo del silenzio di Dio che non risponde al grido del suo Figlio, una voce – non quella dei discepoli che erano tutti fuggiti e neppure quella delle donne che pur avendolo seguito guardavano però da lontano – ma la voce di un centurione pagano

«vedendolo morire in quel modo, esclama: quest’uomo era veramente il figlio di Dio» (Mc 15,39).

Il momento del silenzio di Dio diventa dunque il momento della risposta, della rivelazione suprema: quest’uomo era veramente il figlio di Dio. Forse il silenzio di Dio non dà una risposta, perché non c’è una risposta al dolore di un giusto. Offre, però, un senso. Solo più tardi, nel solco del mistero pasquale potremo arrivare a dire questo. Il silenzio è inevitabile, per credenti e non credenti. Anzi, diventa la “tavola comune”, a cui sedersi insieme per condividere la fatica di un mondo che è diventato sordo per il troppo gridare. Solo provando a lasciarci mettere in discussione dal linguaggio di Dio potremo trovare la strada per percepirne come Elia “la voce di un silenzio sottile”.