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Certe albe d’inverno la nebbia s’addensa fittissima nella valle del fiume Paglia. Da quel mare di nubi luminescenti sola emerge come un’isola la rocca di Orvieto, con i suoi tetti bruni, i suoi campanili svettanti, con l’ardita architettura del celebre Duomo, il simbolo della città, uno degli esempi maggiori del gotico italiano. Dai vicoli del borgo la sua facciata compare d’improvviso, maestosa e bianca, ancora più bianca oggi che, dopo un restauro durato dieci anni, è tornata a splendere nella vivida purezza dei suoi marmi e nell’oro brillante dei suoi mosaici.

E’ stato scritto che in qualche modo stupisce che un simile monumento della fede sia sorto in un piccolo centro (che pure fu residenza papale nel corso del XIII secolo), decentrato rispetto alle grandezze della capitale; ma la tradizione collega la fondazione della chiesa (la prima pietra fu posta da papa Nicolò IV nel 1290) al celebre miracolo di Bolsena, la cittadina laziale sita sull’omonimo lago, a poca distanza da Orvieto.

Pietro da Praga, prete onesto ma dubbioso sulla verità dei sacramenti, forse influenzato dai movimenti ereticali dell’epoca, recandosi a Roma per pregare sulla tomba degli apostoli Pietro e Paolo, a Bolsena sostò per celebrare. E qui accadde che il sangue di Cristo gli sprizzasse tra le mani, sgorgando miracolosamente dall’ostia e macchiandogli il corporale, che oggi si conserva nel Duomo, nel reliquario d’argento custodito nella cappella del Santissimo Sacramento.

Si era nel 1263. Il papa, Urbano IV, che già nutriva una forte devozione verso il Corpo di Cristo, alimentata durante la sua permanenza a Liegi, dove era stato arcidiacono e dove aveva frequentato i circoli eucaristici della beata Giuliana, impressionato dall’evento, emanò, nel 1264, la bolla “Transiturus”, con la quale estese la francofona “Fête de Dieu” a tutta la Chiesa universale, incaricando Tommaso D’Aquino, residente nel locale convento domenicano, di comporne l’ufficio liturgico.

Se il miracolo lasciò un segno indelebile nella fede del popolo orvietano ed accrebbe la presenza in loco degli ordini religiosi, in realtà le ragioni che indussero Nicolò a dare inizio all’opera, circa un quarto di secolo più tardi, furono altre. Furono, per un verso, contingenti (l’antica cattedrale, Santa Maria de Episcopatu, versava in condizioni deprecabili, sotto il profilo statico, ed appariva inadeguata all’importanza che andava assumendo la piccola cittadina umbra, sotto il profilo economico e politico), per l’altro si riconducono ad una particolare devozione verso la Vergine: una devozione radicata nel sentimento popolare e riflessa, altresì, nell’animo del Pontefice, che alimentava le tesi teologiche dell’Assunzione al cielo della Madre di Dio.

A Maria fu, dunque, dedicato il tempio, alla sua vita le pitture, appena restaurate, dell’abside; alla Madonna furono dedicate la cappella di San Brizio e quella degli affreschi del Giudizio, una delle maggiori testimonianze d’arte rinascimentale, capolavoro di Luca Signorelli.

La struttura del Duomo ha subito, invero, nell’arco di tre secoli dalla posa della prima pietra, rifacimenti, ampliamenti, rifiniture. Sembra che il progetto iniziale sia stato di Arnolfo di Cambio, ma fu il senese Lorenzo Maitani a definirne più compiutamente l’architettura, progettando la facciata, ampliando il transetto, sostituendo le due brevi absidi laterali con due ampie cappelle, realizzate lungo i contrafforti che aveva dovuto erigere per meglio sostenere le campate della copertura.

Se l’architettura interna è sostanzialmente romanica, l’esterno ha una sua più evidente pronuncia gotica. Di un gotico italiano, comunque, che non rinnegò mai le fondamenta classiche, l’equilibrio di uno spazio visivo e costruttivo vincolati al centro di una verticale che si interseca con la linea orizzontale, come nella croce di Cristo. L’architettura del Duomo riassume stupendamente questo senso di equilibrio: se per un verso infatti le tre guglie e le quattro torri sono protese a sottolineare la tensione verso l’alto, una forza di ascensione emotiva e spirituale, sottolineata esemplarmente dalla stessa disposizione e distribuzione dei cicli dei bassorilievi e dei mosaici, che si articolano visivamente e narrativamente lungo un multiplo percorso che dal basso, dalla realtà terrena, si eleva verso l’alto; dall’altro la monumentalità dell’opera è sottolineata anche in senso orizzontale dall’alternanza cromatica delle pietre, disposte a strisce di colore differente.

Un particolare elemento di interesse riguarda la stessa costruzione del tempio. Fin dall’inizio i lavori del Duomo vennero affidati all’ “Opera Pia Santa Maria”, un ufficio composto da quattro Soprastanti e da un Camerlengo, nominati annualmente per votazione da coloro che in città avevano i requisiti per un incarico pubblico. Sicché di fatto la Cattedrale, oltre ad essere il centro religioso, era un simbolo di orgoglio civile, un’ occasione di vanto nei confronti delle altre città.
Fede e società civile suggestivamente ad Orvieto si coniugavano.

La “lettura “ del tempio prende avvio dalla facciata. Le sue dimensioni sono imponenti (52 metri di altezza e 40 di larghezza). I tre portali (quello centrale, il più grande, è sormontato da archi strombati a tutto sesto, quelli laterali hanno invece una forma a sesto lievemente acuto) sono sormontati da cornici cuspidate, che ripetono quelle della copertura, incastonate tra quattro torri marmoree. Gli stessi portali delimitano quattro pilastri: il primo ed il quarto opera del Maitani, il secondo e il terzo di scuola pisana. I bassorilievi, con motivi biblici (quello estremo, a destra, rappresenta il Giudizio), hanno un andamento ciclico, come s’è detto, sono concepiti come una sequenza filmica, traducono simbolicamente il passaggio dalla dannazione alla purificazione dell’anima. Nei riquadri tra le torri e le cornici, i mosaici raffigurano quasi tutti scene della vita della Vergine.

Il rosone è splendido. Si eleva al di sopra del loggiato ad archetti a tutto centro che traversa la facciata. E’ incorniciato da una teoria di nicchie da cui emergono figure di santi. Al centro della raggiera in marmo, finissima come un merletto, il volto di Cristo si proietta verso l’esterno e verso l’interno del Duomo, a significare l’onnipresenza vigile e benedicente di Dio.
Nel diciassettesimo secolo l’interno era ingombro di tombe e sovrastrutture barocche. Furono eliminate nel diciottesimo secolo, restituendo il tempio alla sua originaria linearità.
Pochi sono i resti di affreschi sulle pareti laterali. Quasi tutto il corredo iconografico è distribuito sul fondo e nelle due cappelle laterali. Solo sulla parete di sinistra, entrando, è possibile ammirare una “Vergine con Bambino”, di Gentile da Fabriano, lo sguardo dolcissimo, appena astratto in una soavità contenuta, che fa da contrappunto alla gioiosità spontanea dell’ infante, che sembra invitare ed accogliere con un cenno di divina animosità quanti entrano nel tempio.

Lo spazio interno è maestoso, luminoso, di impianto romanico, visibile nei grandi archi che sormontano i colonnati delle navate. Pareti e colonne sono realizzati con file di pietre bianche e nere, uno stile molto diffuso in Toscana, di probabile importazione spagnola. Ma la maestosità non procura spaesamento, al contrario la struttura sembra avvolgere il visitatore, senza indurlo ad una particolare tensione prospettica e visiva. La stessa tribuna, nel presbiterio, che fu realizzata a pianta quadrata dal Maitani, prolungando la precedente abside semicircolare, ha una sua bellezza autonoma, una sua ricchezza che va colta ed investigata soprattutto da una distanza ravvicinata.

È, d’altronde, uno dei cicli pittorici più estesi d’Italia, centrato sulla vita della Madonna, a conferma della dedicazione del Duomo, opera di Ugolino di Prete Ilario e della sua scuola (ma vi furono interventi e rifacimenti successivi di altri artisti tra cui il Pinturicchio), realizzati tra il 1370 e il 1384.
Allo sguardo attento si offre una pittura che descrive, in quattro ordini, gli episodi della storia di Maria con una freschezza che colpisce. Non v’è, nelle immagini, alcuna vera solennità, fatta eccezione forse per le pitture che rappresentano la glorificazione, poste sulla volta. La narrazione si distende con un taglio, si direbbe, di domestica e delicata poesia. Sulla parete di fondo campeggia centralmente una splendida quadrifora, la cui vetrata istoriata fu opera di Giovanni di Bonino di Assisi. Ai piedi il coro trecentesco, quasi interamente rifatto durante il secolo scorso, anch’esso oggetto del recente restauro.

Splendida è, poi, la cappella del santissimo Sacramento, sul lato sinistro del transetto. L’accesso è chiuso da un cancello. Al di sopra di esso un organo di oltre cinquemila canne. La cappella possiede un’atmosfera di intenso misticismo, le pareti frescate, ancora da Ugolino di Prete Ilario, con ampi fondali di verdeazzurro , che raccontano le scene del miracolo di Bolsena ed altrettanti e similari episodi prodigiosi. La mano pittorica è felicissima nei quadri d’assieme, negli scorci prospettici che incorniciano gli eventi, così come accaddero, con un taglio affabulante, con una intensità di emozioni che, fissate alle pareti secondo uno schema ordinato, invitano ad un viaggio, nella storia e nell’anima. Nella cappella si conserva, in un moderno reliquario, il corporale macchiato di sangue, mentre l’originaria e trecentesca teca in cui in precedenza era custodito, a forma di tempio gotico tricuspidato, del senese Ugolino di Vieri, è esposto sulla parete laterale.

Ma è la cappella di San Brizio il vero gioiello del Duomo.

« Così porremo fine alla seconda parte di queste Vite, terminando in Luca come in quella persona che col fondamento del disegno e degli ignudi particolarmente, e con la grazia della invenzione e disposizione delle istorie, aperse alla maggior parte delli artefici la via all’ultima perfezione dell’arte….».

Così scrisse Vasari della cappella e di Signorelli nelle sue celebri Vite, alludendo alle novità stilistiche introdotte da Luca, che fanno del ciclo del Giudizio orvietano una delle pagine più alte e innovative dell’arte rinascimentale.
L’esecuzione delle pitture era stata affidata in principio al Beato Angelico, nel 1447, che aveva realizzato solo pochi riquadri nelle lunette della volta e l’effigie di Cristo Giudice. Caduto l’eventuale affido dei lavori al Perugino, la commissione fu data al Signorelli nel 1499.

Il confronto tra i dipinti dell’Angelico e quelli del Signorelli è di grande interesse. La soavità assorta e intensa del volto di Cristo possiede una sua forza intrinseca, un senso di trascendenza quasi astratto, tipico della espressività bizantina, riletta, però, in chiave luministica e prospettica, con un taglio di forte tensione simbolica, ma anche di grande vocazione mistica. Signorelli, invece, fonda il suo registro sulla dimensione umana. I temi del giudizio sottintendono un cammino teologico e letterario che si riverbera nell’avventura dell’uomo, dell’uomo di fronte alla propria coscienza, al bene e al male. La teoria dei corpi nudi, nel finimondo, come nella resurrezione dei corpi o nella beatitudine degli eletti o nella disperazione dei dannati, riflette una fisicità umana che evoca, altresì, la coscienza e la responsabilità della fede. Il riferimento teologico non è puramente biblico, attinge anche ad altre tesi e figurazioni apocalittiche, come la “Legenda aurea” di Iacopo da Varazze.

Signorelli lavorò nella cappella in due riprese. Completò prima gli affreschi delle vele della volta, quindi passò a dipingere gli spazi delle lunette e quelli posti sopra l’altare e la porta d’accesso. Eseguì, per meglio rappresentare le scene, una sorta di finta trabeazione, che delimitava le parti alte da quelle basse del grande vano. Queste ultime completò con motivi antropomorfi e scene isolate in riquadri e ritratti, di taglio più classicheggiante. Anche il segno di Signorelli, il suo modo di trattare la figura, al di là del vigore plastico della forma, possiede una sua natura più impulsiva, non si distende nello sfumato dei contorni quasi impalpabili, come era stato per l’Angelico, insiste più sull’espressività dei corpi, sottolinea il loro carattere dinamico, e perciò più acutamente il loro dramma e la loro armonia fisica. Possiede per questo una grande forza plastica, che, certamente, influenzò Michelangelo e in parte Raffaello. Plasticismo che un poco si smorza, indulge a ritmi più pacati, diventa più trepido, persino doloroso, nella cappellina dei Santi Faustino e Pietro Parendo, dove rielaborò un precedente dipinto, raffigurando una Pietà, un Cristo morto assistito dalla madre. Quel Cristo porta il volto del figlio finito di peste, proprio durante i lavori della cappella di San Brizio.

Giorgio Agnisola