Roberta Foresta
Fratel Michael Davide Semeraro è monaco in una piccola comunità monastica a Rhemes-Notre-Dame, in Valle d’Aosta. Insieme ad altri due monaci cerca di vivere la vita monastica secondo la tradizione benedettina e la testimonianza di Francesco d’Assisi e Charles de Foucauld. Il valore della fraternità e dell’accoglienza nel piccolo monastero de La Koinonia de la Visitation si coniugano con il desiderio di vivere il presente e di comprenderlo alla luce della fede e nella partecipazione alla vita degli uomini e delle donne del nostro tempo.
In questa frase, Etty Hillesum afferma che tra l’arte e il quotidiano deve esserci un incontro e non una separazione. L’arte non è evasione, fuga dalla realtà, ma un modo unico per vivere e rendere migliore il mondo. Cosa può dirci lei su questo?
In un periodo tragico, nella situazione che si era creata in Olanda, con la seconda guerra mondiale, e che per la Hillesum finisce con la deportazione ad Auschwitz, spesso, nel suo diario parla dell’”ottima società” che lei frequenta. Si tratta di artisti come Rainer Maria Rilke, Dostoevskij, la musica. Siamo in Olanda, in un ambiente raffinato, basta pensare cosa sono oggi i musei di Amsterdam. Quando Etty parla di questa ottima società, lei dice che la frequentazione dell’arte, in tutte le sue espressioni, è il suo modo di vivere il rapporto quotidiano con le persone ordinarie senza scadere in una sorta di superficialità. Frequentando l’ottima società dell’arte, riesce a vivere il suo quotidiano durissimo, anche il rapporto difficile con se stessa (i momenti di depressione, in cui non si accetta, non si riconosce): l’arte fa da ponte mettendola in contatto con i suoi desideri più profondi. Per lei, questa esperienza vissuta con l’arte, questa capacità di ancorarsi all’arte, non è un modo per fuggire la realtà, ma per emergere dal pericolo di essere schiacciata e abbruttita dalla realtà. L’esperienza di questa donna dice qualcosa a noi oggi, sull’importanza di vivere la vita coltivando una sensibilità artistica, non improvvisando, ma con l’esercizio, la fatica si può far crescere il gusto per l’arte che accresce anche il gusto e l’impegno per la vita.
Non c’è arte, degna di questo nome, che non trasudi una qualche spiritualità. Possiamo percepire forte la presenza di una spiritualità in un testo poetico, in un’opera d’arte, in una architettura. Attraverso l’arte l’uomo coglie una spiritualità, anzi, possiamo dire che il sostantivo spiritualità porta in sé la possibilità di potersi esprimere artisticamente. Ma, dobbiamo privilegiare il sostantivo all’aggettivo che la definisca: cristiana, buddista, islamica, etc…
La domanda è complessa, ma posso dire che l’arte si nutre di simboli e il simbolo, per sua natura, rimanda ad altro, per creare un legame analogico con una realtà invisibile: per visibilia ad invisibilia, dalla realtà visibile a ciò che è invisibile. Ecco, l’arte non può rinunciare al suo essere simbolica, non può dimenticare questa radice antropologica che la apre all’universalità, trasversale a tutte le religioni. Quando invece, nelle chiese, prevale l’aspetto didattico – didascalico, allora l’arte rischia di essere troppo preoccupata di dire sé stessa, rischia di diventare eccessivamente impositiva. Io che sono un cristiano cattolico, quando sono entrato nella Moschea Blu di Istambul ho percepito una trascendenza grande, fatta di architettura e di luce, una cosa meravigliosa! Ecco, l’arte che si nutre di simbolo manifestando così l’elemento dell’universalità trasversale.
Ciò che fa presa sulle persone è il contatto con l’intangibile, con ciò che sfugge. Di fatto, noi siamo uomini e donne sospesi fra il visibile e l’invisibile. E l’invisibile è qualcosa che non solo ci attrae, ma che ci attiva umanamente. Molte volte, l’arte cosiddetta sacra, non è attivante e soprattutto non apre al desiderio. L’arte deve attivare, deve toccare quei bisogni più profondi, quelli dell’homo religiosus, per intenderci. Oggi, paradossalmente, molti cristiani sono privi della dimensione di trascendenza. C’è bisogno urgente di una iniziazione alla sensibilità verso la dimensione religiosa: nessuno, purtroppo, pare occuparsi di educare al senso della meraviglia, all’ascolto, al silenzio. L’iniziazione cristiana è ancora concepita come mera trasmissione di contenuti e di riti, ma, purtroppo, viene subito spazzato via, mancando il substrato della dimensione religiosa, su cui dovrebbe fondarsi.
La via pulchritudinis è una grande sfida. La celebre frase del principe Myškin è in realtà una domanda: “La bellezza salverà il mondo?” Platone afferma che le cose belle sono difficili. La bellezza salverà il mondo nella misura in cui noi entreremo nella logica della trasformazione faticosa, perché la bellezza non è cosa facile. L’espressione artistica è una continua memoria all’umanità, che le cose belle sono frutto di fatica, di appassionato desiderio, che però ha un costo. Senza questo lavoro, non c’è nulla di umanamente all’altezza di questo nome. La bellezza artistica non è come un panorama, che è a disposizione di tutti, pronto; è un’intuizione naturale trasformata, con la propria dedizione, passione, fatica, inventiva. Oggi abbiamo bisogno dell’arte, ancora di più, in una cultura come la nostra, tendente alla deresponsabilizzazione, alla ricerca ossessiva di diminuire il più possibile la fatica dalla nostra vita. L’arte, in questo senso, diventa una sorta di segnaletica, senza la quale noi smarriamo questa struttura della nostra umanità, che è poietica, noi abbiamo bisogno di creare e di condividere la bellezza, pagando il prezzo della fatica. L’artista ci rammenta il dramma di questa difficile trasformazione, di cui noi abbiamo bisogno.
Direi che l’arte è piuttosto via teologale, distinguendo l’aggettivo teologale da “teologica”. L’arte fa intuire l’essenza invisibile di ciò che noi pensiamo e crediamo rispetto a Dio, anche con categorie teologiche, dogmatiche. In questo senso, la via della bellezza, come ponte verso la trascendenza, è una sorta di presa di distanza dal nostro bisogno di possedere, talvolta anche teologicamente, perché la teologia può essere un esercizio di apertura al mistero, oppure una chiusura al mistero. L’arte rappresenta una via di fuga da qualunque sistema teologico chiuso; l’arte apre al mistero, per la sua eccedenza rispetto a ciò che si presenta in maniera dogmatica. È una via di salvazione da un approccio teologico quando rischia di cadere nella trappola dell’idolatria. Paradossalmente, proprio l’arte che, storicamente, ha posto la questione dell’idolatria (nelle tre religioni monoteistiche), è anche l’elemento che può liberarci dall’idolatria del pensiero, perché porta oltre, e soprattutto perché l’arte restituisce alle singole persone la libertà di sentire e interpretare l’opera d’arte. Bella è la teologia quando si è lasciata rappresentare da un inno, da una musica, da un canto, da un’opera d’arte, e lì c’è una riconciliazione del rischio di una implosione razionale.
Da un anno, ormai, abbiamo assistito ad un impoverimento improvviso nel mondo dell’arte, con la chiusura di musei, teatri, cinema. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che, nella crisi, grazie anche ai potenti mezzi tecnologici, abbiamo sperimentato la possibilità di diffondere e di condividere un’arte “domestica”. È stato un modo per confermare il bisogno che abbiamo di non ridurci alla mera sopravvivenza e l’arte è sempre questo: genera vita e vita in abbondanza. Vi sono stati esempi di arte “povera”, “domestica” e queste manifestazioni sono state una delle belle esperienze di questo periodo, una consolazione anche rispetto alle nuove generazioni che noi classifichiamo generalmente come superficiali, incapaci. E invece, nella pandemia, i più giovani sono venuti fuori con cose molto belle, una capacità di inventiva che è uscita con il confinamento, con il distanziamento. E questo ci dice che dietro l’arte c’è sempre un travaglio e che la generazione, nell’opera d’arte, si accompagna sempre al dolore, alla fatica.