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Demetrio Paparoni

Le avanguardie storiche hanno affermato l’idea che, ancora prima che il contenuto dell’opera, a farci acquisire consapevolezza sulle dinamiche del presente è il linguaggio: un nuovo linguaggio indica il progresso nella stessa misura in cui un linguaggio che ripropone stilemi e grammatiche già consumate ci porta all’arretratezza. Questa visione ha generato tra l’altro espressioni quali quelle degli impressionisti e degli espressionisti, ha sotteso il Dadaismo e le diverse forme di concettualismo e di arte comportamentale, oltre, ovviamente, le diverse forme di astrazione. Queste espressioni artistiche hanno spesso manifestato il rifiuto di narrazione e simbolo.

Oggi leggiamo in chiave simbolica varie forme di astrazione che, secondo i loro stessi autori, di simbolico e narrativo non avevano nulla. In risposta a questa visione, negli anni Settanta il pittore Philip Guston ebbe ad afferma che “L’arte astratta americana è una menzogna, una truffa, una copertura per la povertà di spirito. Una maschera per nascondere la paura di rivelare sé stessi”. Che la questione riguardasse il modo di accostarsi a narrazione a simbolo lo dimostra il fatto che pittori astratti come Sean Scully o Peter Halley hanno sentito, un decennio dopo, la necessità di affermarne la presenza all’interno dei propri dipinti astratti.

Narrazione e simbolo fanno dunque da spartiacque tra un’arte impegnata e un’arte fine a sé stessa, “l’arte per l’arte” tanto detestata dai regimi totalitari? Non necessariamente: come tutte le tesi anche questa è contestabile. Resta il fatto che in assenza di narrazione e simbolo l’arte mette in scena la soggettività del proprio autore piuttosto che la (presunta) oggettività di chi, guardando il mondo, si rapporta a esso. Questo perché un’immagine, qualunque essa sia, laddove incarna valenze simboliche trasferisce il suo significato letterale dal particolare all’universale.

Per comprendere le modalità con cui l’arte affronta il rapporto con l’altro è dunque necessario far riferimento alle ragioni che hanno portato in tempi relativamente recenti ad accettare o rifiutare l’uso di narrazione e simbolo. La questione, inoltre, non è estranea alle modalità con cui l’arte di oggi si accosta alle narrazioni religiose.

Sul finire degli anni Quaranta si è affermata l’idea che l’arte dovesse affrancarsi da narrazione e simbolo. Questa tendenza si è radicalizzata negli anni Cinquanta e ha iniziato a dare segni di cedimento solo nella seconda metà degli anni Settanta. Ha poi continuato a persistere per qualche decennio nelle teorie di più artisti. È infatti sotto l’impulso del postmodernismo che alle diverse forme di arte aniconica che dominavano la scena si sono affiancate, prendendo rilevanza, forme di figurativismo. Alla base del rifiuto di narrazione e simbolo vi era l’idea che essi fossero più legati alle dinamiche della letteratura che a quelle delle arti visive, e pertanto fossero da considerare estranei all’arte della modernità. Questa tesi, che era stata elaborata anche per mettere fuori gioco il Surrealismo e le sue diverse derivazioni, ha trovato il suo principale punto di riferimento nel saggio di Clement Greenberg Verso un più nuovo Laocoonte , apparso nel 1940 su Partisan Review. Per meglio intenderci, l’arte dei suoi contemporanei che Greenberg prendeva a riferimento per sostenere le proprie tesi era quella soggettiva e aniconica di autori come Pollock o de Kooning.

La tesi di Greenberg ha trovato riscontro negli astrattisti europei di quegli anni segnati dalle contrapposizioni – democrazia contro comunismo, Est contro Ovest, Nord contro Sud, e dunque anche astrazione contro figurativismo. Nella mente di molti l’astrazione ha avuto la meglio sulle diverse forme di figurazione. Questo non significa che negli anni Cinquanta non si sia fatta buona arte figurativa – basti pensare al sempreverde Picasso, a Hopper negli Usa e a Bacon, Freud o Auerbach in Europa – ma certamente è stata quella aniconica a essere vista come l’arte che incarnava lo spirito del tempo.

A ben cercare tra le opere degli astrattisti europei di questi anni, si ritrovano rare ma esplicite rappresentazioni della crocifissione, sempre giustificate dagli artisti come riferimento a uno dei temi più rappresentati dalla Storia dell’Arte, piuttosto che come testimonianza di fede.

Anche negli anni delle contestazioni e delle marce contro la guerra del Vietnam l’arte visiva ha delegato la narrazione alla letteratura e alla sua derivazione visiva, il cinema. Questo mentre le diverse forme di arte visiva di impronta concettuale e postconcettuale guardavano a questioni legate all’analisi del linguaggio. Da parte loro, gli artisti socialmente impegnati hanno affrontato temi legati al femminismo, alla liberazione sessuale e all’uguaglianza tra i sessi, mentre la questione razziale affiorava solo nell’opera degli artisti neri, ampiamente emarginati dal sistema dell’arte. Quando un decennio dopo le nuove generazioni hanno dato l’avvio a fome espressive figurative, è persistita in molti pittori l’idea che l’arte dovesse rimanere estranea alla narrazione. Questa tendenza ha portato numerosi artisti a fare i conti con il fatto che due immagini riconoscibili racchiuse nel perimetro di un quadro danno inevitabilmente vita a una narrazione. Ciò nonostante sul piano teorico la presenza di narrazione e simbolo nell’opera è stata ostinatamente negata. Nel contesto di quegli anni, in Europa ha fatto in tal senso eccezione la Germania, che vedeva la propria capitale divisa in due da un muro. Attorno a questa condizione buona parte dell’arte tedesca ha costruito una narrazione fatta di simboli e racconti.

Dagli anni Ottanta in avanti si sono registrati numerosi segnali che tendevano a minare le tante certezze dei decenni precedenti. L’arte si è progressivamente affrancata da condizionamenti perlopiù dovuti a una visione ideologica. Anche nei rari casi in cui sono stati raffigurati soggetti religiosi l’intenzione dichiarata dell’artista non è stata manifestare o dichiarare una professione di fede.
Come si relazionano nei nostri giorni gli artisti con le narrazioni religiose e con la fede? Un artista come Nicola Samorì, pittore e scultore che nei suoi lavori attinge all’immaginario religioso barocco, alla domanda se le sue immagini a sfondo religioso implichino una dichiarazione di fede, risponde: «No, testimoniano il mio contatto profondo con una catena di immagini che hanno adottato il soggetto come impalcatura solida per mettere in scena la trasformazione dei codici nel tempo». A sua volta, Francesco De Grandi, pittore che attinge all’immaginario religioso, raffigurando scene che rimandano alla narrazione evangelica, precisa:

«Ci sono immagini che vengono da lontano e sono tuttavia ancora capaci di smuovere eserciti, immagini che pongono domande a cui non siamo in grado di dare risposte. Capisco che ci sono attinenze con la fede, ma il mio obiettivo è porre domande, non dare risposte».

Laddove, dunque, l’immaginario dell’artista di oggi si rapporta alla religione non è la religione in quanto tale a predominare, a manifestarsi è semmai la ricerca di spiritualità. Questa ricerca di spiritualità si estende ad artisti che nei loro lavori non guardano alla narrazione e alla simbologia religiosa e si manifesta nel rapporto con la natura e con l’altro. L’interesse degli artisti è oggi prevalentemente rivolto a temi legati al cambiamento climatico, al gender sessuale, alla parità dei diritti, all’accettazione del diverso, al colonialismo, al patriarcato, al controllo dell’individuo attraverso le nuove tecnologie, all’intelligenza artificiale e alle sue applicazioni. Sono questi gli stessi argomenti dibattuti nella società e dei quali l’arte cerca di dare la propria visione. Quando può, come può.