Raul Gabriel
L’arte, così come la intende Gabriel, sfugge a qualsiasi definizione concettuale. L’arte è forza irresistibile che afferra chi è disposto ad affidarsi a lei con dedizione gratuita, senza la certezza di un contraccambio. L’arte è come la vita e la fede: la loro esistenza testimonia di una forza generosa, capace di generare stupore e sempre nuove visioni. L’arte non può essere funzionale a nulla, come la poesia, essa sgorga dalla forza gratuita della vita e una volta che accade, può paradossalmente, servire a qualcosa, per un fine che non era stato pensato all’origine. Quale rapporto vi è tra l’arte e la pace? L’arte non può servire alla pace, almeno come intento, essa è unicamente risposta alla forza vitale che la genera. Se così non fosse, l’arte non sarebbe poesia, come deve essere, ma una scoperta finalizzata a qualcosa. Eppure, una volta che accade, l’opera d’arte può generare, prima di tutto nell’artista, una presa di coscienza della gratuità dell’arte come della vita, della fragilità dell’artista che crea qualcosa che forse, senza nemmeno saperlo e volerlo, potrà cambiare il mondo.
Quale arte?
Una bolla di espansione voluttuaria e vitale, imprevedibile e privilegiata, trappola sempre inadeguata per una preda effimera, tanto presente quanto elusiva come l’energia fisica ed esistenziale che ribolle incessantemente sotto la crosta delle convenzioni dal momento in cui veniamo al mondo. Il suo unico scopo sarebbe ingabbiare la vittima dentro una concretezza formale che la confini e la renda incontrabile. Naturalmente non ci riesce mai del tutto e questo è parte della seduzione che si rinnova senza sosta. E’ entrata nella mia esperienza senza che l’avessi invitata, ed è stata come un treno in corsa. Per definirla non trovo ancora oggi un termine migliore di irresistible force, un vortice che pretende dedizione, fiducia e non restituisce alcuna certezza.
Nel parlare comune e accademico viene definita spesso come indagine o scoperta, termini che mi sembrano inappropriati e insufficienti, astrazioni di un corpo che è altro. Potrei dire che l’opera è affermazione, proposizione semplice o complessa, predicato, discorso o proclama, presidio farmaceutico provvidenziale per le miserie umane e panacea per lo spirito. Il compendio delle definizioni è una fiera delle vanità sterminata, come succede per tutti quei concetti in cui ognuno mette ciò che conviene, ciò di cui ritiene essere ambasciatore privilegiato. Ma se rifletto su quanto ciascuna di queste descrizioni abbia a che fare con la natura di un’opera per come io la vivo realmente, rimango al palo. L’affioramento formale dell’energia poetica è un nucleo scarno che rifiuta ogni vicinanza con decorazione, didascalia e utilità.
La nostra contemporaneità celebra il concetto di funzione in un modo che non ha precedenti nella storia umana. L’accezione attuale di progresso non concede udienza a nulla che non serva a qualche cosa. Naturalmente ogni gesto, evento e pensiero sono causa di qualche conseguenza e provengono a loro volta da altri eventi e pensieri. Impossibile slegare i nodi di questo intreccio osmotico dei nessi.
Eppure vi sono dimensioni per cui la preoccupazione di causa-effetto è una zavorra che impedisce qualunque dinamica autentica. L’arte è una di queste. La fede, qualunque fede, è probabilmente l’altra.
L’arte si pone fuori da ogni logica di baratto, compreso il baratto morale. In questo risiede il suo potenziale di forza e novità capaci di generare stupore e intuire visioni a venire molto prima che servano a qualcosa.
Invece, complice un innato desiderio di controllo e incapacità di rischio, siamo portati ad elevare la funzione a nume tutelare del reale, arte e fede comprese. Senza la funzione non siamo in grado di concepire l’esistenza e neanche l’arte. L’arte deve servire a qualcosa. E’ curioso perché nasciamo liberi dall’assolvere qualsiasi funzione, nasciamo in un fiotto di sangue, acqua e gratuità senza etichetta. Non nasciamo perché “serviamo a qualcosa”, nasciamo perchè è talmente forte la spinta generosa dell’esistenza che riesce a comprendere anche noi. Ma appena siamo scossi dal primo sussulto provvidenziale che ci regala un accesso illimitato all’ossigeno ce ne dimentichiamo. Non siamo più in grado di restituire alcuna fiducia e gratuità, intenti ad addomesticare ogni azione come se fossimo realmente in grado di controllarla. Così facciamo con l’arte, così con la fede, così pressochè con tutto.
Nel processo di emersione dei gesti alla concretezza si possono distinguere un prima e un dopo; succede per ogni fenomeno della realtà che collochiamo nella progressione temporale senza cui non sapremmo immaginare l’esistenza.
Se devo aggiustare un rubinetto o stendere l’intonaco, redarre il bugiardino di un medicinale o potare una pianta, i due momenti si confondono dentro la dimensione sovrana della utilità, della funzione, cui assolvono in modo direttamente proporzionale alle abilità messe loro a disposizione. La funzionalità di queste operazioni può essere distribuita secondo percentuali differenti, con margini relativi di libertà differenti, ma rimane il vincolo essenziale della loro ragion d’ essere. Per semplificare potremmo definirle attività pratiche che nascono e si concludono dentro l’alveo di utilità costitutivo del loro farsi. In questa categoria possono essere incluse anche le attività cosiddette di concetto, quando chi le esercita vi applica la forma mentis dell’ elettricista o del muratore.
La poesia è diversa. La relazione che ha l’opera con il prima e il dopo è del tutto singolare.
La differenza essenziale è questa: il prima è privo di funzione. Catarsi liberatoria da ogni aspettativa che non sia il flusso tra energia e forma, l’unica che può permettere, in alcuni casi, l’accesso al nuovo, all’ imprevedibile e inaspettato. L’arte e la sua dimensione poetica sono i paria del reale, sono pura inutilità (alla funzione) che diventa forma, presenza, simbolo.
Una volta che questa forma diviene incontrabile grazie ad una alchimia del fare dalla formula inaccessibile, inizia il dopo, con le sue inevitabili conseguenze, corollario fenomenologico di un evento la cui nascita deve essere affrancata da qualsivoglia influenza pragmatica.
Le conseguenze sono imprevedibili, non possono essere addomesticate a priori, diversamente l’ arte si sposta nella categoria cui appartiene l’avvitare una lampadina, allineandosi alla natura di un elettrodomestico, magari supertecnologico, con il suo libretto di istruzioni.
Questo appare destabilizzante, e di fatto lo è. Non accettarlo significa non essere propriamente per l’arte, ma per un surrogato di abilità tecniche al servizio di questo o quel comunicato. Il tesoro in dote alla dimensione poetica non identifica alcun precetto morale predefinito, alcuna etica stabilita.
Nessuna etica può affermare “l’arte è con noi” , parafrasando alcune derive storiche dei vari credo interpretati a proprio uso e consumo.
L’arte, come la fede, è azzardo adamantino e tagliente, espressione di vita, allergica ad ogni etichetta prestampata.
Può succedere, dopo, che, per uno strano contrappasso più l’opera è nata sotto l’unico segno della autenticità libera da altri vincoli, più corre il rischio di diventare utile. La sua forza sarà direttamente proporzionale alla genuinità del suo incrociare intenzione e struttura formale. A mio modo di vedere questo è talmente vero che supera in alcuni casi anche il problema estetico.
Quale pace?
La pace non ha una unica dimensione, ve ne sono almeno un paio. Quella personale e quella collettiva. Al netto dei bei discorsi, tra le due non vi è né contatto nè relazione di una qualche sostanza.
Rovistando l’etimo della parola pace non ho trovato elementi particolarmente eterei, memorie della colomba bianca, simpatica e paffuta cui un destino curioso ha posto nel becco il testimone ostinato della resistenza alle intemperie e alle mutilazioni, verde testardo che rinasce da quasi ogni trauma, presenza tutt’altro che edulcorata di cosa significa sopravvivere ad ogni costo. La radice del termine, distribuito ovunque inopinatamente e a piene mani come la cugina illustre, la bellezza, ha più a che fare con la prosa che con la poesia.
Per quel che ne so la parola pace non identifica una realtà unica e definita. Si dà (probabilmente) una pace che può farsi strada nel percorso di un individuo, una sorta di maturità, viatico alla propria eventuale realizzazione. Ve ne sono tante quante le persone, tante quanti i credo e i percorsi che ne derivano. È soggetta a cicli estremamente mutevoli che impediscono ogni connotazione di realtà permanente. La pace interiore è sempre a scadenza, trova e ritrova corpo in momenti differenti e a volte per ragioni incomprensibili. È, dovrebbe essere, la lente attraverso cui leggere la realtà in modo nuovo, il prisma che rivela le differenti tonalità dell’esistenza, capace di ricomporle in un flusso unitario che può a sua volta essere nuovamente disgiunto in uno spettro eterogeneo senza alcuna garanzia di stabilità. La pace personale non elimina il conflitto, lo supera, lo comprende, lo assolve, lo trasmuta, lo neutralizza.
La pace dei sistemi, delle comunità e degli stati è del tutto diversa. Non è una somma di tante armonie interiori individuali; credere nella evoluzione spirituale sincrona e collettiva è puramente ideologico. La pace delle collettività è un accordo, più o meno duraturo, più o meno illuminato da spolverate di valori umanistici, sempre fondato su dimensioni molto concrete. Anch’esso sempre precario, soggetto al baratto del quale di volta in volta si decidono le merci.
Non di rado la pace che è frutto di un cammino interiore, la pace personale, produce conflitti, perché non consiste nella trasformazione del deserto in un prato inglese. La pace personale dà la possibilità di percorrere il deserto come se fosse un prato inglese e viceversa, la pace personale è presa di coscienza e questo non ha nulla a che fare con la presenza o l’assenza di conflitto. La pace interiore nutre una libertà che non è materia del patto collettivo, e anzi ne può scompensare gli equilibri non di rado basati su compromessi che con l’etica e lo spirito non hanno nulla a che vedere.
Confondere le due forme di pace porta a confusione e fraintendimento. Ogni discorso che tenta di rendere omogenea la pace personale a quella tra stati è funzionale unicamente alla propaganda di utopie che non contribuiscono ad alcuna pace duratura.
Arte per la pace?
Lo spunto della riflessione è se l’arte possa servire alla pace. Dovrebbe essere già molto chiaro che la mia prima risposta è no, di getto. Non può, il suo ambito non è influenzare in direzioni precise le azioni, i sentimenti, i valori. L’arte non ha alcun effetto taumaturgico capace di preparare un terreno ideale per la pace. Se nasce per servire a qualcosa non è poesia, è illustrazione di propaganda, sonora, visiva o letteraria non importa, magari estremamente ben fatta, ottima per accompagnare gli istinti superficiali e mutevoli delle masse ma condannata dalla funzione ad essere altrettanto esteriore e priva di un corpo che faccia la differenza nel tempo. Se invece è poesia sfugge sempre il fine che si propone.
Per qualche motivo mi viene in mente il caso controverso di Leni Riefenstahl. I suoi filmati più famosi sono stati concepiti per la propaganda nazista. Una propaganda di altissimo livello estetico (a mio modo di vedere precursore inconsapevole di soluzioni geniali come la grande fotografia di Mapplethorpe ) in cui il nazismo assurge a epica, sublimato nella forma di un ideale malefico e affascinante per l’epoca, molto vicino alla mistica delirante delle rune così cara ad Heinrich Himmler.
Vedendo quei filmati è chiaro come il fine pedagogico e di condizionamento impedisca all’opera di essere considerata arte, indipendentemente dalla relazione con l’orrore nazista.
Eppure credo che qua e là, proprio in quel girato, vi sia la dimostrazione che se un fatto artistico accade, proprio lì sfugge alla funzione per cui era stato pensato. Dove questo avviene, ed è una mia opinione naturalmente, l’opera della Riefenstahl diventa veleno per lo stesso nazismo che li ha commissionati. I bianchi e neri folgoranti, le inquadrature monumentali, i tagli feroci e incisivi come rasoi configurano la rivelazione perfetta di tutto l’orrore che la visione distopica del Reich millenario recava in grembo, un grembo squisitamente europeo.
Non è possibile, come invece è molto comune fare perché estremamente remunerativo sul piano relazionale sociale, pensare ad un’arte autentica che nasce per la pace, così come non si può pensare ad un’arte che nasce per guerra, o per la fede, o per il credo politico. Si può tentare, e lo si fa continuamente, ma ciò che proviene da queste premesse non è poesia, è il bugiardino più o meno rifinito di un pensiero del momento, di una campagna elettorale, di una mietitura di proseliti.
Se l’arte, quella che nasce come omaggio alla forza vitale che la genera, ha una qualche influenza sulle traversie storiche umane, questa non si cura del risultato immediato ma della presa di coscienza. Può aiutarci, se siamo disposti a restituire con generosità la gratuità e fiducia che ci sono concesse, a comprendere quanto siamo vulnerabili, quanto il nostro contributo passeggero al mondo possa fare la differenza su di noi prima che sugli altri, quanto la nostra prima preoccupazione debba essere ciò che viviamo in prima persona, unico baluardo di identità e testimonianza possibile, unica giustificazione della eredità che abbiamo ricevuto, così, senza meritarlo, come servi inutili. Servi inutili cui è stata data la possibilità di creare un’arte tanto inutile da cambiare il mondo senza neanche volerlo.