st
Elio Cappuccio

Nel maggio del 1964 Paolo VI, rivolgendosi agli artisti nella Cappella Sistina, rilevava che molti di loro avevano preso le distanze dalla Chiesa per “andare a bere ad altre fontane”. Da ciò emergeva, sottolineava il Papa, “un linguaggio di Babele” dinnanzi a cui ci si sentiva “intimiditi e distaccati”. Tali considerazioni non conducevano tuttavia a una chiusura verso forme di creatività estranee al mondo ecclesiastico. Paolo VI ammetteva infatti che la Chiesa aveva talora posto “una cappa di piombo” addosso agli artisti, che non erano stati introdotti nella cella segreta “dove i misteri di Dio fanno balzare il cuore dell’uomo di gioia” e riconosceva che si era ricorso spesso all’oleografia e “all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa”. Nella Pasqua del 1999 Giovanni Paolo II ribadì il legame profondo tra arte e religione, citando Marc Chagall, per il quale i pittori, lungo i secoli, “hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia”, il loro “atlante iconografico”. Nel novembre del 2009 Benedetto XVI, incontrando gli artisti in Vaticano, riprese il messaggio dei suoi predecessori, ponendo in evidenza come l’arte possa dar forma alla ricerca dell’assoluto.

Il divieto biblico di realizzare immagini di Dio (Esodo 20,4), motivato dal rischio che ciò favorisse l’idolatria, alimentò diverse tendenze iconoclaste, dal Medioevo alla Riforma. Tale divieto non escludeva però che, per via analogica, si potesse risalire dalla bellezza del creato al suo autore, come insegnava il Libro della Sapienza, ripreso poi da S. Paolo. Se Cristo è “immagine del Dio invisibile” (Epistola ai Colossesi 1,15), le icone possono allora avere un fondamento teologico. E proprio alle icone ortodosse faceva riferimento Giovanni Paolo II, associandole ai sacramenti, in quanto rendono presente il mistero dell’incarnazione, seguendo una tradizione che da Dionigi Areopagita giunge a Teodoro Studita e alla Teologia della bellezza di Pavel Evdokimov.

Il ricco repertorio di immagini della tradizione cristiana ha segnato la storia dell’arte, come dimostrano le opere che osserviamo nei musei di tutto il mondo. Nella Teologia della bellezza degli ortodossi l’iconografo concepisce il suo dipingere come un pregare e ritiene di aver svolto pienamente il proprio compito nel momento in cui l’icona appare “non fatta da mano d’uomo”. In Occidente l’elemento soggettivo della genialità dell’artista ha posto in termini diversi il rapporto con la fede e il processo di secolarizzazione della Modernità ha progressivamente ridotto la presenza delle figure bibliche ed evangeliche nello spazio figurativo. Tutto ciò non è riconducibile ad una intenzione deliberata, ma è il frutto di un divenire storico, i cui risvolti possono riconoscersi in ogni campo della cultura.

L’arte contemporanea, quando si è accostata ai temi della religiosità, ha privilegiato in genere linguaggi estranei alla figurazione, evocando l’irrappresentabilità del sublime, con riferimenti più o meno espliciti alla teologia. La tensione al trascendente si manifesta raramente nel seno di una confessione, come avviene, ad esempio, nella Chapelle du Saint-Marie du Rosaire di Henri Matisse a Vence. Pur essendo raro il riferimento a una specifica simbologia religiosa, vi sono opere che trasmettono un profondo messaggio di spiritualità, come testimonia la Cappella aconfessionale di Mark Rothko a Houston, inaugurata nel 1971. I monocromi rappresentano qui il corrispettivo visivo del silenzio su Dio, che incontriamo nella teologia apofatica e nelle testimonianze dei mistici. La composizione del musicista Morton Feldman, Rothko Chapel, esprime, nella sua essenzialità, il suono di queste monocromie.

Anche Barnett Newman scelse l’astrazione quando si accostò al tema della Via crucis e declinò la sacralità delle quattordici Stazioni seguendo la poetica di The Sublime is now.
La forma astratta prevale anche nella Chiesa di S. Maria degli Angeli, in Ticino, dove Enzo Cucchi e Mario Botta hanno concepito uno spazio di contemplazione. Nella Chiesa di S. Paolo a Foligno, progettata da Massimiliano e Doriana Fuksas, la Via Crucis di Mimmo Paladino presenta invece immagini il cui intento non è propriamente narrativo e nelle Crocifissioni di Nicola Samorì l’elemento concettuale irrompe sempre nella trama figurativa, rivelando l’intensità di un percorso insieme estetico e spirituale.

I pregiudizi che segnano il rapporto tra arte contemporanea e fede religiosa rischiano di scavare un abisso che separa quanti ritengono che la religione è costitutivamente legata alla creatività artistica, da quanti sostengono che il Modernismo si identifica con una laicità poco sensibile alla dimensione spirituale. Da Mark Rotkho e Vasilij Kandinsky ai nostri contemporanei, come Anselm Kiefer e Anish Kapoor, solo per indicare alcuni fra gli artisti più noti, la tensione metafisica è fortemente intrecciata con la ricerca artistica e il fatto che non sia collocabile entro un ambito confessionale, non può costituire un ostacolo per un confronto fra compagni di strada. Un luogo privilegiato che ha dato spazio all’incrociarsi di percorsi che possono apparire dissonanti è stato sicuramente rappresentato dalle Cattedre dei non credenti del Cardinale Carlo Maria Martini. Norberto Bobbio, cogliendo lo spirito che animava quei dialoghi, sosteneva che bisognava cercare le differenze non tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti, “ovvero tra coloro che riflettono sui vari perché e gli indifferenti che non riflettono”.

In questo camminare insieme rivive la figura dell’Homo viator, che ha rappresentato la cifra dell’esistenzialismo cristiano di Gabriel Marcel. Per il filosofo francese il dialogo doveva tendere a valorizzare le differenze, accettando anche la sfida di un confronto non sempre facile. Marcel pensava che un ordine terrestre stabile potesse instaurarsi solo a condizione che l’uomo accettasse “la coscienza della sua condizione itinerante”, una condizione che oggi condividiamo con quanti vivono tra noi, provenendo da luoghi e culture lontane.

L’arte contemporanea ha dato immagine a questi volti e a questo errare. Nel 2015, nel campo profughi di Calais, Banksy ha raffigurato Steve Jobs, il fondatore di Apple, figlio di un immigrato siriano che ha sicuramente contribuito ad accrescere la conoscenza e le risorse del paese che lo ha ospitato. Ai Weiwei, nel 2016, ricoprì le colonne della Konzerthaus di Berlino con migliaia di giubbotti di salvataggio provenienti dall’isola di Lesbo, dove ha anche inaugurato un suo studio, e l’anno successivo, presso la Galleria Nazionale di Praga, ha esposto Law of the Journey, un gommone in cui trovavano posto le riproduzioni di 258 migranti. L’artista cinese, insieme ad Anish Kapoor, ha partecipato a una manifestazione a Londra mostrando una coperta, che testimoniava la precarietà in cui versano i migranti, la cui disperazione, dichiarò Kapoor su The Guardian, deve essere la nostra disperazione. Kapoor, Ai Weiwei, Banksy, e tanti artisti come loro, rivendicano, attraverso le loro opere, l’esigenza di un diritto cosmopolitico, in cui attraversare le frontiere non comporti per nessuno il rischio di perdere la vita o di assoggettarsi nuove forme di schiavitù.