La condizione del viandante tra erranza e desiderio di una patria (celeste)

Presentazione di tre pubblicazioni sul tema

JF
Johnny Farabegoli
Christian Bobin, L’uomo che cammina, Qiqajon, Magnano 1998, 2008, pp. 61,
Jaques Nieuviarts, Con il passo del pellegrino, Qiqajon, Magnano 2009, pp. 118,
Franco CardiniHomo viator. Il pellegrinaggio medievale, La Vela, Viareggio 2019, pp. 272.


Vogliamo qui segnalare, brevemente, tre testi di autori appartenenti a contesti culturali e biografici di diversa estrazione, ma con sguardi “complementari” (e nella sostanza convergenti), che hanno approfondito il significato dell’essere “in cammino”, o meglio, di un andare che si configura quale vera e propria ”erranza escatologica” fissandola al centro della loro narrazione. Questi sono: L’uomo che cammina (Qiqajon, Magnano 1998, 20082, pp. 61) di Chirstian Bobin (1951-2022), scrittore e poeta francese, vincitore di alcuni importanti premi quali il Prix de l’Académie Française (2016); Con il passo del pellegrino (Qiqajon, Magnano 2009, pp. 118), di Jaques Nieuviarts religioso assunzionista, biblista e professore di esegesi; Homo viator. Il pellegrinaggio medievale (La Vela, Viareggio 2019, pp. 272) di Franco Cardini, noto storico e saggista, e Luigi Russo docente presso l’Università Europea di Roma.Il tema del camminare, nel senso di rinnovata e incessante peregrinatio secondo la quale ogni meta (provvisoria) non può che testimoniarci del nostro essere giunti lì in qualità di stranieri (e proprio “straniero” è il significato etimologico del termine peregrinus), è affrontato in termini specifici e trasfigurati – duramente trasfigurati – nel primo testo proposto. Nel breve ma intenso saggio di Bobin, arricchito da una postfazione nella forma di dialogo tra il monaco di Bose Guido Dotti e la saggista e conduttrice radiofonica Gabriella Caramore, sin dall’inizio è introdotta la figura, protagonista, di un viandante che sembra muoversi senza sosta; un pellegrino d’eccezione, ossia Cristo stesso, anche se, come tale, non viene mai esplicitamente menzionato. Il suo incessante andare è metafora viva e specchio di quel difficile “abitare” umanamente la fede, senza mai rallentare il passo, nonostante «la morte, il vento e l’ingiuria»: prospettiva narrativa che tanto ci ricorda le parole di San Paolo al termine della sua vita, là dove dichiara: «ho combattuto una buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (2 Timoteo 4, 7-9).La vita “nella fede”, quindi, è assunta come metafora viva di un viaggio, di una “viandanza” continua, in cui la meta non può essere altro che il superamento di ogni senso di annullamento, di ogni avversità che si incontra lungo il cammino, per riscoprire, alla fine, un più ampio orizzonte di senso, purché si mantenga – durante il “viaggio” – lo sguardo fisso verso l’Assoluto. Ecco quindi che l’essere “ontologicamente” stranieri è condizione propria per camminare nella fede, nella convinzione che il nostro esserci è condizione inevitabilmente non-stanziale: ma non nella forma di un vagare senza orizzonte finale , ma, al contrario, come sollecitazione ad un progressivo allontanarsi da sé stessi. Non a caso, è proprio questo il primo comando rivolto da Dio ad Abramo peregrinus , ossia: «lekh lekhà » (Genesi 12,1), letteralmente «allontanati da te stesso», ma omesso nelle traduzioni. Un allontanarsi per riscoprire, in questo processo di kenosis , di distacco dalle proprie sicurezze quotidiane, le condizioni di apertura per un rinnovato incontro con il divino quale “luogo” privilegiato (e maqom , luogo in ebraico, per la tradizione rabbinica è anche uno dei Nomi di Dio), di cui ogni santuario ne è visio anticipatrice. «Se ne va a capo scoperto», scrive Bobin a proposito del suo protagonista in perenne cammino, aggiungendo subito dopo: «tutto riceve in faccia, senza mai rallentare il passo. Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera. Che la morte è nulla più di un vento di sabbia. Che vivere è come il suo cammino: senza fine».

Il testo di Nieuviarts, è un vero e proprio invito all’uomo ad intraprendere un cammino con il passo del pellegrino quale opportunità per abbandonare «il proprio luogo», ovvero le proprie certezze – «rompere con il quotidiano», precisa l’autore – ed aprirsi all’incontro con l’Altro, partendo da una condizione di ascolto. Un atto radicale, quasi assoluto, lontano da ogni visione “volgarmente” diffusa del fenomeno del pellegrinaggio – snaturato da cliché che ne hanno depotenziato la stessa identità -, riconducendolo ad un vero e proprio appello all’umano, in cui l’uomo sia capace «lentamente di regredire di fronte agli imperativi» del mondo (economici, tecnici…), per «esporsi alla novità, alla sorpresa, alla differenza, all’incontro», con la consapevolezza che partire «significa perdere dei punti di riferimento nella speranza immensa, o folle, di guadagnare tutto». Quello che l’autore propone è dunque una vera e propria antropologia escatologica del “viandante”, recuperando potentemente la metafora della vita come viaggio.

Non interessa all’autore né elencare modelli di itinerari, né tantomeno proporre visioni storiche del fenomeno, ma, più radicalmente, segnalare l’importanza di quel dover “tenere” un “passo” instancabile, l’unico possibile in quello “stare” nella fede come continua vigilanza e tensione verso la “meta finale”, che anche qui ci viene presentata come rinnovato incontro con l’Assoluto: incontro che non può avvenire se non attraverso un’esperienza profondamente individuale, ma non in solitudine . «Partire! Si è sempre solitari quando si parte», annota l’autore, precisando: «Solitari, eppure non sempre soli. Perché spesso, o forse sempre, si parte su una parola. Quella, interiore, che esprime il canto o l’anelito dell’essere umano, il suo appello all’Altro».

E non a caso, Nieuviarts insiste proprio su di una rilettura della vita dei grandi patriarchi dell’Antico Testamento, proprio in una prospettiva interpretativa che li connota quali grandi pellegrini della storia della Salvezza: quali grandi “solitari”, a partire da Abramo, Giacobbe, Mosè: tutte figure che si caratterizzano per il loro incessante e necessitante andare, segnato dalla comunanza nello sradicamento, nell’essere “stranieri” ovunque, ma illuminati, nel cammino, dall’ascolto di segni e parole, per poi restituirli, come nel caso specifico di Mosè, all’intera comunità. Una lettura “progressiva” che di fatto pone le premesse per riconoscere anche nel Logos incarnato il Pellegrino per eccellenza, fattosi uomo per ritornare al Padre, dopo aver indicato la strada («Io sono la Via»): ovvero l’esperienza concreta dell’Agape , di un Agape assoluto, fino al dono di sé. E non a caso, come ricorda lo stesso autore, saranno proprio le reliquie dei testimoni di questo Agape, trasfigurato in coloro che hanno contribuito ad edificare la Chiesa – che hanno conformato la loro vita a quella di Cristo – a costituire le vere “mete” – “luoghi” (nella vera accezione ebraica secondo quanto sopra indicato) – dei numerosi cammini sparsi in particolare in tutta Europa, ancora prima dei sontuosi santuari costruiti in loro memoria. Significativamente, lo studioso francese Raymond Oursel nel suo mirabile testo dedicato al cammino di Santiago dal titolo Le strade del Medioevo. In Arte e figure del pellegrinaggio a Compostela (Jaca Book, Milano 1982), scriveva:

«Vi è una [categoria] di protagonisti, ed è quella a cui è dedicato questo testo. Sono i santi che vengono venerati nelle cento e cento chiese, cappelle, monasteri […] disseminati lungo le molte vie che conducono a Santiago. Questa compagnia non è altro che la totalità della Chiesa […] una, pellegrina sulla terra, come spesso ripete la liturgia».

Ultima tra le letture proposte, ma non per importanza, è il più recente Homo viator, citato all’inizio. Il saggio, che offre un quadro storico del pellegrinaggio articolato e scandito per fasi cronologiche, con particolare interesse per l’epoca Medioevale in cui il fenomeno ha assunto la sua massima espressione, recupera alcune riflessioni che Franco Cardini aveva già sondato in alcune interessanti pubblicazioni precedenti, tra le quali Gerusalemme. Una storia (Mulino, 2012) e Le Gerusalemme d’Italia (Mulino, 2016).

Anche in questo testo in esame, il concetto di pellegrinaggio appare ricondotto ad una dimensione radicale. Proprio a partire dal termine peregrinus , ovvero straniero (e nel quale Giovanni Semerano, nelle sue straordinarie escursioni filologiche contenute nel Dizionario della lingua latina e di voci moderne [Olschki, Firenze 1994], individuava l’accadico pararu , andar via, più geri , ossia in cammino con la carovana), i due autori sopra citati ne sottolineano la dimensione di estraniamento: dimensione che investe l’identità stessa dell’homo viator il quale, si legge nel testo, «potrebbe essere straniero nella sua terra d’origine», mentre la sua vera patria «essere appunto la sua meta», perché «il cristiano è cittadino del cielo [e] la sua vita è un pellegrinaggio perché parte dall’esilio e desidera tornare in patria». Il desiderio e la tensione verso la patria, ovvero la patria celeste (diversamente declinata in Sion o Gerusalemme celeste ), diventano così gli elementi catalizzatori della reale identità del pellegrinaggio, tra l’altro già al centro dall’escatologia di San Paolo, che scrive: «la nostra cittadinanza infatti è nei cieli» (Filippesi 3,20), nella convinzione che «siamo sempre in esilio» nell’attesa fiduciosa di «abitare presso il Signore» (2 Corinti 5,6 ).

Per questo, in un orizzonte più ampio di vita nella fede, il pellegrinaggio non può essere in alcun modo ricondotto a semplice fenomeno turistico-esperienziale, perché, si sottolinea nel saggio, «Non si va in pellegrinaggio. Si è pellegrini: lo si è sempre e comunque». Non a caso nel mirabile portale della cattedrale di San Lazzaro a Autun, nella teoria dei risorti, il pellegrino di Santiago è tra i primi a risorgere prima della figura di un monaco (che si trova proprio alle sue spalle), mentre nelle storie del breve ciclo pittorico dedicato alla vita di Sant’Eldrado, presso l’abbazia dei santi Pietro e Andrea a Novalese, il santo, prima di entrare in monastero ed avviarsi alla vita monastica, viene invitato dall’abate ad intraprendere l’esperienza del pellegrinaggio (a Santiago). Solo al suo ritorno, potrà farsi “pienamente” monaco, nella convinzione che l’essere pellegrini-stranieri è condizione ontologica ed antropologica di ogni “stare” nella fede, ancor prima di ogni scelta vocazionale.
«La vita – conclude significativamente il saggio di Cardini e Russo – è un pellegrinaggio» e «i viaggi e i pellegrinaggi che facciamo nell’arco della vita altro non sono se non metafore di essa». E ogni meta, seppur mirabile, non può essere che provvisoria.