Andrea Bigalli
Nei difficili equilibri che si instaurano tra le varie componenti delle società umane, soprattutto in relazione alle dinamiche del potere, l’arte sembra sempre aver rivestito un ruolo secondario: di maggiore o minore asservimento, in relazione al dato di chi ha commissionato o pagato per la realizzazione delle opere: la letteratura, la musica, i film, le varie produzioni mediatiche. Anche sul come si rappresenta il visibile, si può dire che il committente regola la dimensione di approccio alla realtà. Nel manierismo l’arte figurativa è tanto più efficace se riesce a ben rappresentare la realtà: ma quella che si vuol vedere se si è colui che ne finanzia la realizzazione. Ciò che non è gradito alle autorità non deve essere mostrato, è una vecchia regola del meccanismo con cui si controlla (o si pensa di poter controllare) il consenso sociale. Non è mai bene generalizzare, certo. Anche committenti non proprio di buon cuore hanno comunque finanziato quanto ritenevano poco appropriato per affezione ai propri protetti: e un’arte libera perché povera è sempre stata ben rappresentata nei secoli. Può essere che questa considerazione iniziale sia dettata dalla considerazione, in questa contemporaneità, di come il livello di controllo e di asservimento della libera espressione sembra rimanere alto. Certamente i padroni dell’arte sono tanti, ed essa resta per molti un investimento, non il progredire della coscienza estetica del mondo.
In realtà è proprio questo dato della volontà delle gerarchie politiche di controllare chi fa arte a suggerirci che essa stessa, in virtù della sua potenzialità di comunicazione dei significati, è uno strumento di cui tener conto, da temere o su cui costruire le dissidenze e le opposizioni. Infatti da sempre artista e donna o uomo di pensiero hanno sovente rivestito i panni della contrarietà, della critica, della contestazione. Il livello elevato della ricerca e dell’espressione dà opportunità per trascendere anche sul piano di lettura sociale. Il ruolo dell’intellettuale rimane fondamentale, se lo è davvero, se è libero, se rifugge la cortigianeria. È un ruolo difficile: chi cerca la verità semina inquietudine.
E tale inquietudine può essere anticamera di un pensiero autonomo, per questo pericoloso. C’è un’arte da impedire nel suo status di deviazione perché rompe gli schemi – figurativi e non – trasmettendo un disagio molto lontano dalla rassicurante armonia che i regimi asseriscono di poter garantire. In tal senso non è solo la ricerca della bellezza che guida ogni ricerca figurativa o sonora, quanto piuttosto l’urgenza del significato da portare. L’aspetto militante del ruolo sociale dell’arte – che così di frequente si evocava negli anni ’70, spesso con forzature e strumentalizzazioni non dissimili da quelle che si volevano così contestare – rimane un pilastro del suo significato. Piaccia o no a qualcuno: se una forma artistica compiace il potente di turno non brucia dove serve. Il concetto di bello rischia di essere molto ambiguo se non corrisponde al bene di ciò che è vero e necessario.
È noto l’episodio del gerarca nazista che contestava a Pablo Picasso la dimensione di orrore estetico del suo Guernica e la risposta che il pittore spagnolo gli dette; siete voi criminali storici a fare orrori che poi ci rimproverate di mostrare al mondo. Nelle muraglie del forzato consenso ai regimi la crepa da identificare diventa proprio il senso di sgradevolezza di ciò che si sa vero, ma deve essere celato o addomesticato in forme che non escano da un frainteso senso di tradizione. Così il nazismo stigmatizzò e esplicitamente mise al rogo la cosiddetta arte degenerata dei simbolisti, gli astrattisti, tutti gli autori di una sperimentazione che cercava altre strade rispetto al manierismo dell’arte romantica, che in Germania doveva esprimere il meglio della cultura tedesca, intesa come quella destinata a dominare il mondo e assoggettare le altre, in primis quella ebraica. Quest’ultima divenne l’ossessione del Terzo Reich e non a caso.
Difficile negare elementi della cultura ebraica in moltissime espressioni dell’arte, dello spettacolo, della conoscenza nel patrimonio collettivo europeo del sapere e della bellezza. La shoah è anche evento tragico della negazione di una dignità culturale: questo, tra l’altro, sono tutti i genocidi. Del resto i regimi che bruciano i libri (e i dipinti) dal contenuto non gradito finiscono inevitabilmente per poi bruciare e annientare anche gli esseri umani.
Se quanto tratteggiato finora ci dice il male storico del totalitarismo, di un pensiero unico, della soppressione del dissenso, riflettere su tutto questo ci indica che la ricerca del significato possibile di ciò che è radicalmente umano (e per questo degno di attenzione e di tutela) nei linguaggi di più alto livello espressivo delle arti, diviene pedagogia di rispetto, cura, giustizia. Energia per il futuro, volontà che vuol realizzarlo. Per questo il nesso tra pace e arte è così limpido: ciò che consente all’umano di scoprire e rivelare (in primis a sé stessi) la propria identità è elemento iniziale del processo di relazione che sta al centro del significato dello shalom della cultura giudaico cristiana. La pace non è mera definizione di regole che impediscano il conflitto, nella forza necessaria ad imporle, come nella concezione latina di pax. Se non si tesse di ascolto reciproco e di quella mutua accoglienza che deve e può scaturire dall’incontro delle identità, la pace è magari solo assenza di conflitti, che però non può avere lunga vita.
Come aveva compreso l’apostolo Paolo, la norma da sola, soprattutto se assolutizzata, non garantisce tutela della vita concreta delle persone. In Romani 14,17 le norme alimentari, come esempio di una legge che rischia di creare categorie, si devono vivere nello Spirito se devono realizzare la benevolenza di Dio nei confronti del suo popolo: «Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo». Una condizione da ricercare e vivere in sé stessi, laddove originano i conflitti che affliggono il mondo: ancora Paolo in Efesini 2, 14-16; «Cristo infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in sé stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo pace e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in sé stesso l’inimicizia».
L’orizzonte della pace cristiana è il Regno dei cieli, e Gesù nei Sinottici non ha di fatto parlato di altro: e lo ha fatto con immagini di senso e bellezza, con poesia, con gesti di guarigione e di dignità restituita. Il Regno si realizza attraverso ogni atto umano che si radichi nella forza generativa dello Spirito. L’arte è espressione dell’agire divino, attinge alle modalità espressive più significative del genere umano: ma, ovviamente, se ciò è vissuto nella radicale logica di Dio, l’amore. Da ciò che non si motiva a questo livello non può generarsi un’arte che educhi donne e uomini all’Oltre, faccia loro desiderare l’Eterno, innervi di Resurrezione gli elementi delle loro esistenze.