Stefani
Pietro Stefani
The biblical Jubilee between time and space – Pietro Stefani
The theme of the pilgrimage is analyzed in the biblical jubilee described in chapter 25 of the book of Leviticus and compared with the different meaning of the pilgrimage connected to the Catholic jubilee, the penitential character of the latter it appears today outdated in secularized societies, in favor of religious trips that increasingly resemble tourist trips.
Il giubileo biblico è un’istituzione che, assai probabilmente, non ebbe mai luogo; in ogni caso è certo che da lunghissimo tempo mancano le condizioni perché la si effettui. Ci confrontiamo perciò con una dimensione più ideale che reale. Il nostro riferimento è, in sostanza, un testo, il venticinquesimo capitolo del Levitico, dal carattere a un tempo utopico e giuridicamente molto dettagliato. Il periodo delle sette settimane di anni che scandisce il giubileo è definibile, in particolare per chi è in condizioni di disagio, come una specie di pellegrinaggio nel tempo: nel cinquantesimo anno si ritorna alla situazione di benessere precedente: «ognuno tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia» (Lv 25,10); «in quest’anno del giubileo ciascuno tornerà alla sua proprietà» (Lv 25, 11), lo schiavo ebreo nell’anno giubilare «se ne andrà da te insieme ai suoi figli, tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella proprietà dei suoi padri» (Lv 25,41). A rendere possibile questa reintegrazione nella perduta pienezza è soltanto il trascorrere del tempo.Il giubileo non prevede alcun spostamento collettivo in qualche luogo particolare. Nessun versetto del capitolo fa riferimento al tempio di Gerusalemme. Il giubileo non ha nulla da spartire né con i «canti delle salite» (Sal 120-134), né con le tre feste di pellegrinaggio (Pasqua, Settimane, Capanne, Dt 16, 16-17). Gerusalemme non è una meta.

Il giubileo biblico ha un carattere stanziale, legato alla triangolazione Torah-popolo-terra. Un suo irrinunciabile fondamento sta nel fatto che la terra d’Israele è del Signore; di conseguenza il popolo risiede su di essa come forestiero e ospite (Lv 25,23): non è necessario spostarsi per sentirsi stranieri, né si è possessori per il semplice fatto di avere nelle proprie mani qualche appezzamento di terreno. Un’altra precondizione, esplicitata dalla tradizione, proietta il giubileo addirittura in un avvenire «messianico». Secondo Mosè Maimonide, esso non vige che in terra d’Israele, purché ogni singola tribù sia stanziata nel suo territorio (cfr. Gs 13-19) e non vi siano contrasti tra loro (Libro dei precetti, n. 135).

È una situazione storicamente mai datasi. Per Maimonide il tempo del ripristino messianico non è scandito dal succedersi misurabile di sette settimane di anni; la prospettiva è quella di un imprecisato avvenire. Quando sopraggiungerà, la situazione sarà contraddistinta da una ordinata stanzialità territoriale. In definitiva la visione biblica del giubileo è saldamente legata sia al tempo sia allo spazio, ma non prevede alcun pellegrinaggio.

Perché allora in ambito cattolico, a partire dalla sua istituzione nel 1300, il giubileo prevede l’effettuazione di pellegrinaggi? La risposta è piuttosto semplice; nonostante l’omonimia, il giubileo cattolico non ha alcun legame originario con quello biblico (la sua effettuazione, del resto, non è mai stata strettamente vincolata alla successione temporale delle sette settimane di anni). La riproposizione dell’ideale della remissione dei debiti, intesi, specie a livello internazionale, in senso economico-finanziario, è un tema apparso solo in epoca contemporanea. La breve bolla di Bonifacio VIII Antiquorum habet che istituisce il primo giubileo della storia cristiana è priva di ogni riferimento biblico (cfr. Bollario dell’anno santo. Documenti di indizioni del giubileo del 1300, a cura di E. Lora, EDB, Bologna 1998).

Gli ascendenti del giubileo vanno ricercati altrove. Il suo antefatto più stringente lo si trova nel pellegrinaggio armato delle crociate. San Bernardo di Chiaravalle, nella sua predicazione e nelle sue lettere, aveva presentato la seconda crociata (1144-1149) come un giubileo cristiano proprio a motivo delle indulgenze da essa concesse. I debiti venivano ormai intesi in senso spirituale. Dopo la caduta di San Giovanni d’Acri (1291), che segna la fine dell’ultimo vestigio del regno latino in Terra santa, la mistica della crociata avrebbe trovato il suo sostituto nel giubileo. L’indulgenza plenaria era ormai legata a luoghi più accessibili di quelli che contraddistinguevano il pellegrinaggio armato a Gerusalemme.

L’ascendenza crociata fu a lungo evocata senza alcun disagio. Ancora a metà del XVIII secolo, il più prolifico pontefice che scrisse sul giubileo, Benedetto XIV, richiamava alla memoria il fatto che Urbano II nel 1096 aveva concesso che «quel viaggio» (la prima crociata) fosse compiuto per chi vi partecipava «come penitenza totale» (cfr. Apostolica costitutio, 26 giugno 1749, in Bollario dell’anno santo, par. 325). Si tratta, inutile sottolinearlo, di una genealogia che suscita un forte disagio in epoca contemporanea; essa perciò, nelle bolle di indizioni più recenti, viene semplicemente ignorata. Per limitarci a un solo esempio, Paolo VI, in riferimento all’anno santo del 1975, dopo aver rievocato l’idea di pellegrinaggio sviluppatasi nei secoli XII e XIII, afferma che «nasce così il giubileo, frutto di una maturazione dottrinale, biblica e teologica, che ha una sua pubblica manifestazione nel giubileo indetto nel 1220 dal pontefice Onorio II per il pellegrinaggio alla tomba di San Tommaso Becket, poi – come è noto – a Roma […] nel grande movimento popolare e penitenziale dell’anno 1300» (Apostolorum limina 23 maggio 1974, Bollario anno santo, par. 1321).

È una tendenza tipica, specie nella parte più colta della Chiesa cattolica postconciliare, auspicare ritorni a visioni più bibliche della fede; tuttavia l’operazione è, a volte, condotta in modo così ingenuo da dar luogo a ibridi impropri. L’anno santo cattolico conosce fin dalle origini una pratica di spostamenti collettivi che nulla hanno da spartire con il giubileo biblico. La presenza della folla è già ricordata da Dante in un paragone, a prescindere dalle intenzioni dell’autore, oggettivamente imbarazzante a motivo della sua ambientazione infernale: la mobilità dei dannati è paragonata a quella dei pellegrini.

«Nel fondo erano ignudi i peccatori; / da mezzo in qua ci viene verso ‘l volto, / di là con noi, ma con passi maggiori, / come i Roman per l’essercito molto, / l’anno del giubileo, sur per lo ponte / hanno da passare la gente modo colto, / che da l’un lato tutti hanno la fronte / verso ‘l castello e vanno a Santo Pietro, / da l’altra sponda vanno verso l’monte» (Inferno XVIII, 25-33).

Una delle due schiere dei dannati procede in una direzione, l’altra in senso opposto, questa situazione fa sì che Dante si richiami ai pellegrini divisi in due file sul ponte del Tevere: in una direzione quelli che andavano verso S. Pietro, nell’altra quelli che tornavano da là. La Commedia coglie, in germe, un aspetto dell’anno santo destinato a moltiplicarsi a dismisura nel corso del tempo: la presenza di un «essercito molto».

Nel 1300 il giubileo e le sue pratiche devozionali segnarono, per più aspetti, il passaggio da una religione intesa come grande fattore di mobilitazione storica a una spiritualità sempre più incentrata sulla salvezza individuale. La meta ultima del cristiano consisteva nella salvezza della propria anima. A oltre settecento anni di distanza, in società largamente secolarizzate e nelle quali le convinzioni sulla sorte umana dopo la morte sono le più varie (anche fra i cristiani), il pendolo sembra spostarsi di nuovo verso forme di «viaggi religiosi», peraltro assai diversi dagli antichi. Ormai le indulgenze si possono lucrare, anche nel corso degli anni giubilari, in molti luoghi senza compiere spostamenti. Il beneficio ricevuto, dal canto suo, è tutto interiore e quindi sprovvisto di ogni riscontro esterno. Le profondità dell’anima non sono legate a luoghi particolari. I viaggi giubilari sono perciò, in un certo senso anche coerentemente, sempre più slegati dalla dimensione più propriamente spirituale.

Il turismo nacque, tra XVII e XIX secolo, come una forma secolarizzata dell’antico (e antiquato) pellegrinaggio penitenziale. Per ammirare i capolavori dell’arte, la bellezza della natura e le antichità classiche non c’è bisogno di avvertire alcun senso di peccato. Per raggiungere la pace interiore, gli antichi pellegrini si sentivano nei peccati e si spostavano nello spazio. I turisti, invece, si pensano sempre innocenti, anche quando fanno disastri. Oggi le linee di confine tra pellegrinaggio e turismo sono diventate sempre più indistinguibili; entrambi sono ormai fenomeni di massa, inoltre tra essi sono tutt’altro che infrequenti ibridazioni reciproche. Il senso del peccato (dato e non concesso che ci sia ancora) non è più una causa che ci fa spostare nello spazio. Per determinati luoghi un discorso diverso va però fatto per la sofferenza. Il dolore è tuttora un fattore che induce a pellegrinare. Fermo restando che oggi, a differenza di un tempo, sofferenza e peccato, a torto o a ragione, sono colti come fattori tra loro del tutto disgiunti. Ciò vale tanto sul versante negativo della causa, quanto su quello positivo dell’espiazione.