Identità del pellegrinaggio cristiano tra Antico e Nuovo Testamento

JF
Johnny Farabegoli
The Sanctuary as a transfigured place – Jhonny Farebegoli
Jhonny Farebegoli analyzes the main experiences of pilgrimage starting from the patriarchs in the books of the Old Testament, through places where the Divine is manifested. The symbolic elements of the pilgrimage are found in the writings of the New Testament in a Christological perspective and, with an eschatological connotation, also in the Christian liturgy. Christ is the true sanctuary, in him there is the encounter with God and the Christian life is a pilgrimage in faith towards the heavenly dwelling place.

Nell’orizzonte di senso della fede cristiana, il tema del pellegrinaggio, in particolare, si configura come potente e “significativa” chiave di lettura teologico-simbolica, ma anche liturgica, per poter interpretare Antico e Nuovo Testamento in una mirabile prospettiva profetica: prospettiva che ha come meta catalizzatrice la figura di Cristo, quale vero e proprio Santuario il cui cammino è scandito dalle vicende della storia della salvezza. Sotto questa lente d’ingrandimento, il pellegrinaggio biblico, nel suo sviluppo storico-narrativo, non è mai quindi da intendersi semplicemente come mero cammino-spostamento verso una meta, ma come allontanamento da una propria posizione stanziale per raggiungere e scoprire un “luogo” altro, che, rispetto all’inizio del viaggio, in realtà, si pone come “improvviso” compimento e rinnovata prospettiva di senso. In questa chiave di lettura, emerge infatti con particolare importanza il concetto di Santuario, non da intendersi nell’accezione di spazio costruito dall’uomo, ma, in prima istanza, come “luogo” in cui si misura tutta l’esperienza di un incontro, che al pellegrino – ovvero lo straniero – si disvela in tutta la sua potenza.In questo senso, quindi, il Santuario, in quanto locus, è orizzonte di pienezza e spazio del disvelamento del divino. Nel documento Direttorio su pietà popolare e liturgia della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (LEV, Città del Vaticano 2002), si osserva opportunamente che «dal punto di vista teologico il Santuario […] è un segno della presenza attiva e salvifica del Signore nella storia» (§ 262), sottolineando subito dopo come questo abbia una grande valenza simbolica in quanto «icona della “dimora di Dio con gli uomini”». Qui, opportunamente, è utilizzata l’espressione “icona”, a rimarcare proprio quella “finestra sull’infinito” che il Santuario dischiude, ovvero “luogo” della manifestazione del Santo in tutta la sua pienezza. E proprio questa è l’esperienza che connota, fondamentalmente, i pellegrinaggi dei principali patriarchi della storia della salvezza, attraverso alcune delle vicende centrali che contraddistinguono la stessa storia del popolo ebraico all’interno della narrazione biblica, a partire da Abramo che inizia il proprio viaggio da Ur seguendo l’ordine di Dio. Un ordine che non consiste inizialmente nell’abbandonare la propria terra, ma, come attesta l’originale ebraico, è un chiaro comando ad allontanarsi, in prima istanza, da sé (lek-leka: letteralmente, «allontanati da te stesso»! [Gn 12,2]) e solo successivamente dalla propria terra e dalla casa del proprio padre.

A nulla vale l’abbandono del proprio orizzonte materiale e affettivo, se prima non avviene questo atto fondativo del pellegrinaggio che è l’abbandono del sé, una sorta di vera e propria kènosis, capace di predisporci a riconoscere i segni di quel “luogo” in cui il divino si manifesta. A questa dinamica del pellegrinaggio, va ricondotta proprio la peregrinatio di Abramo, come ad esempio a Sichem, in cui avviene l’atto fondativo di un segno, l’erezione di un altare, là dove il Signore si è manifestato al patriarca (Gn 12,7). Ecco allora che l’altare diviene segno simbolicamente potente di un luogo “icona” dell’incontro, rimarcando ancora una volta come nella tradizione biblica il Santuario non nasca semplicemente come frutto di un’opera umana, ma testimoni in realtà l’iniziativa di Dio nel suo comunicarsi agli uomini per stringere un patto di salvezza. A suffragare in termini ancor più assoluti l’importanza del concetto di “luogo” come spazio della presenza del divino, e quindi della sua specificità di Santuario quale categoria biblica, vi è la stessa tradizione interpretativa ebraica che riconosce nel termine stesso di “luogo”, ovvero maqôm, uno dei nomi di Dio, là dove Dio stesso è qualificato come il «luogo (maqôm) del mondo», senza che per questo il mondo stesso sia il suo luogo (Genesi Rabba, LXVIII, 10). Il luogo-maqôm dell’incontro diviene così lo spazio-Santuario in cui il Divino si palesa attraverso una rinnovata presenza.

Santuario
Foto di Alfredo La Malfa

Anche Isacco, mentre sale a Bersabea, costruisce un altare nel luogo/maqôm della manifestazione del Signore, dopo che gli è apparso di notte dicendogli: «Io sono il Dio di Abramo, tuo padre, non temere; perché io sono con te: ti benedirò e moltiplicherò la tua discendenza a causa di Abramo, mio servo» (Gn 26, 24). E la narrazione biblica prosegue con l’azione del patriarca che costruisce proprio «in quel luogo (maqôm) un altare», invocando il «nome del Signore» (Gn 26, 25).
Non dissimile all’esperienza di Abramo e di Isacco, ma più potente nella sua dinamica simbolica, si configura il pellegrinaggio del patriarca Giacobbe con il noto episodio del sogno, così come narrato in Genesi 28, 10-19. Qui Giacobbe – e significativamente torna con insistenza l’accezione di luogo-maqôm a suggellare l’intera vicenda – erige una stele commemorativa dopo la mirabile visione onirica di una scala fissata a terra con la cima che raggiunge il cielo e lungo la quale salgono e scendono angeli di Dio (Gn, 28-12). Ancora una volta il luogo-Santuario è lo spazio santificato dall’incontro con l’orizzonte divino, che lo stesso patriarca definirà con una mirabile sequenza simbolica, quale «luogo (maqôm) terribile», «casa di Dio» e «porta del cielo» (Gn 28,18).

Betel (in ebraico, letteralmente, casa di Dio) sarà anche il nome fondativo del un nuovo luogo-Santuario, segnato dall’erezione di una stele utilizzando quella pietra che il patriarca si era posta come guanciale poco prima di addormentarsi.

Proseguendo su questo piano di lettura, anche l’esperienza di Mosè, presso il monte Oreb (Es 3,1-6), di fronte al roveto ardente, si configura come esperienza di pellegrinaggio. L’intera teofania si svolge all’insegna della pianezza dell’incontro, anche qui improvviso ed inaspettato. Santo ancora una volta è il luogo-maqôm che definisce il contesto dell’azione. Qui l’identità del Santuario, ovvero non una costruzione umana ma la santità del luogo, è rimarcata da un gesto dello stesso Mosè, che, in segno di riverenza, è invitato a togliersi i sandali, lo stesso gesto che faranno molti pellegrini nella storia in prossimità delle grandi mete di pellegrinaggio: uno tra tutti, Nicola Albani, che nel suo resoconto di viaggio da Napoli a San Giacomo di Compostela nel XVIII sec., appare genuflettersi a terra, baciare il suolo e togliersi i calzari proprio alla vista del gruppo di guglie della cattedrale compostellana, che si slanciano nel cielo della città, quasi a richiamare potentemente, nel panorama urbano, l’immagine di un “roveto ardente”.

Così, ritornando allo spazio fisico dell’esperienza teofanica di Esodo, questo appare come dilatarsi per segnare la totalità dello sguardo del patriarca, configurandosi come luogo d’incontro e di apertura verso l’assoluto. Sono proprio i tratti di questa esperienza di fede ad essere stati ben rappresentati in uno dei mosaici dell’area presbiteriale della basilica di San Vitale a Ravenna, in cui Mosè viene raffigurato nell’attimo stesso in cui si sta togliendo i sandali, secondo il comando di Dio, davanti al roveto ardente, che qui non viene rappresentato nella sua unicità, ma replicato in una molteplicità di fiammelle distribuite tutte all’intorno, quasi che Mosè stesso si trovi al centro del roveto ardente, avvolto dalla presenza di Dio, che qui, palesemente, sembra rappresentato proprio attraverso la qualità totalizzane del luogo-maqôm. Sicuramente, la rivelazione teofanica narrata in Esodo è anticipatrice di quel grande pellegrinaggio che è l’attraversamento del Mar Rosso (Es capp.13 e 14), come straordinaria vicenda di liberazione del popolo ebraico dalle incombenti vessazioni egiziane e che mirabilmente nel grande resoconto del Cantico di Mosè (Es 15 1,18) ci viene restituita attraverso una chiave ora pienamente trasfigurata. Qui, infatti, l’intera vicenda dell’attraversamento del Mar Rosso viene poeticamente riletta addirittura in una luce “profetica”: la vera meta d’approdo esaltata appare configurarsi non tanto come l’altra sponda d’arrivo, ma la stessa Gerusalemme celeste.

Recita infatti il Cantico: «Guidasti con il tuo amore questo popolo che hai riscattato, lo conducesti con la tua potenza alla tua santa dimora» (Es 15,13), specificando subito dopo: «Tu lo fai entrare e lo pianti sul monte [Sion] della tua eredità, luogo (maqôm) che per tua dimora, Signore, hai preparato, Santuario che le tue mani, Signore, hanno fondato» (Es 15,17). Tutti elementi che rimandano alla santa Sion così ben descritta e mirabilmente “impersonificata” dal profeta Isaia, là dove si legge: «Alzati, rivestititi di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua Gloria appare su di te» (Is 60, 1-2). Ma al tempo stesso, la stessa santa Sion – che rimanda ovviamente anche alla Gerusalemme terrena – si configura come meta di una potente riconciliazione finale, come ci ricorda sempre il profeta Isaia: «Verranno a te in atteggiamento umile i figli dei tuoi oppressori; ti si getteranno pronti alle piante dei piedi quanti ti disprezzavano. Ti chiameranno “Città del Signore”, “Sion del Santo d’Israele”» (Is 60,14) e subito dopo, con riferimenti simbolici che si troveranno anche nell’Apocalisse di Giovanni, si trova scritto: «Il sole non sarà più la tua luce di giorno, né ti illuminerà più lo splendore della luna. Ma il Signore sarà per te luce eterna, il tuo Dio sarà il tuo splendore» (Is 60,19).

La stessa santa Sion, nei Salmi, costantemente diverrà la dimora celeste, meta assoluta di ogni pellegrinaggio: «Grande è il Signore e degno di ogni lode nella città del nostro Dio […]. Il monte Sion, vera dimora divina, è la capitale del grande re» (Sl 48, 2-3). È allora interessante notare come molte delle valenze simboliche del pellegrinaggio biblico sopra descritte siano poi state fatte proprie sia dalla “prospettiva” neotestamentaria, sia, a seguire, dalla stessa liturgia cristiana che in alcune delle sue preghiere ha riletto il fenomeno del pellegrinaggio come modello della stessa azione liturgica. Va di fatto osservato che proprio la categoria del pellegrinaggio, così radicata nella narrazione dell’Antico Testamento ed esplicitata in particolare sia dalla tensione verso la Gerusalemme celeste come luogo della manifestazione della Gloria di Dio (con particolare riferimento alle mirabili visioni di Ezechiele [Ez capp. 40-47]), sia dall’esaltazione del Tempio come meta di pellegrinaggio (come testimoniato costantemente dai Salmi, in particolare quelli cosiddetti delle Salite [nn.120-134]), ha avuto nell’ambito degli scritti neotestamentari uno dei terreni più fertili, restituendolo contestualmente in una prospettiva pienamente cristologica. In particolare, il Tempio, fulcro dell’attività liturgica e dell’identità del popolo ebraico, e centro ideale della stessa Gerusalemme celeste (così come emerge dalle visioni del profeta Ezechiele), acquista all’interno degli scritti del Nuovo Testamento una specifica connotazione escatologica, esplicitamente riferita alla figura di Cristo.

Qui va premesso che il termine ebraico per indicare il volto di Dio (paneh: volto) è lo stesso per indicare anche la facciata del Tempio (paneh: facciata). Così quando si ritrova l’espressione biblica «il tuo volto (paneh), Signore, io cerco» (Sl 27,8 ), si ha una formula che rimanda pienamente al tema del pellegrinaggio, dove il pellegrino ebreo aveva proprio come meta quella di avvicinarsi alla facciata del Tempio, denotando così come l’istanza ultima del pellegrinaggio, ovvero recarsi al Tempio-Santuario, altro non sia che testimonianza di ricerca del volto (paneh) di Dio. Non è quindi del tutto improprio inquadrare dentro questa dinamica simbolica, la pratica di esporre, contestualmente al primo Giubileo indetto da papa Bonifacio VIII, il cosiddetto velo della Veronica (il “Volto Santo” di Gesù) per i pellegrini che raggiungevano la basilica di San Pietro in Vaticano: un convenire da parte dei fedeli verso il “Volto” di Cristo che conserva senza dubbio ancora la matrice della tradizione ebraica del salire verso la “facciata” del Tempio.

Ed è significativo, sempre a questo proposito, che a connotare la presenza di un pellegrino nel Trionfo della Chiesa militante (1366-67) nel Cappellone degli Spagnoli, presso la chiesa di Santa Maria Novella a Firenze, il pittore Andrea Bonaiuti nel copricapo che contraddistingue la figura del viandante rappresenti, oltre alla classica conchiglia che richiama il cammino di Santiago di Compostela, anche un inserto contenente il “Volto Santo”, memoria di una peregrinatio verso la tomba dell’apostolo Pietro, immagine di Cristo-Tempio nella fede. Ritornando allora agli elementi simbolici confluiti in ambito neotestamentario, sicuramente quello del Tempio appare tra i più radicali, là dove è Cristo stesso a presentarsi quale nuovo Tempio/Santuario, aprendo così una prospettiva escatologica che vede il cammino di fede cristiana come vero e proprio pellegrinaggio al vero Santuario che è Cristo. È infatti l’evangelista Giovanni che ci ricorda come nell’episodio dell’allontanamento dei mercanti dal Tempio, Cristo davanti ai presenti si identifica come nuovo Tempio, là dove, in riferimento al Tempio di pietra di Gerusalemme, afferma, alludendo alla sua morte e resurrezione,: «Distruggete questo Tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19).

A far luce è l’annotazione successiva dello stesso Giovanni, che, proprio in riferimento alle parole di Cristo, scrive: «parlava del Tempio del suo corpo» (Gv 2,21). A suffragare questa rivelazione è anche l’evangelista Marco, il quale ricorda che tra coloro che accusarono Gesù favorendo la sua condanna a morte, ci furono anche coloro che testimoniarono dicendo: «Lo abbiamo udito mentre diceva: ”Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d’uomo» (Mt 14,58). Proprio a questo proposito Jean Chélini e Henry Branthomme, emeriti studiosi di storia del pellegrinaggio, affermano che allontanando i mercanti «Gesù stesso lasciava già intuire che avrebbe sostituito il Tempio» e ne avrebbe edificato un altro, ovvero «il Tempio del suo corpo»; ma aggiungono anche, riallacciandosi all’esperienza del sogno di Giacobbe, che «La parola rivolta a Natanaele – “vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo” (Gv 1,51) – suggerisce anche che la vera Casa di Dio e Porta del Cielo è ormai il Figlio dell’Uomo. La persona di Cristo morto e risorto costituisce il vero Tempio, il solo luogo in cui abita la gloria di Dio, in cui avviene l’incontro fra Dio e l’uomo» (Jean Chélini e Henry Branthomme, Le vie di Dio. Storia dei pellegrinaggi cristiani. Dalle origini al Medioevo, Jaca Book, Milano 2004).

Proseguendo poi verso la mirabile visione finale della Gerusalemme celeste contenuta nel libro dell’Apocalisse, che tanto deve sicuramente alle stesse visioni di Ezechiele, si palesa che in essa non vi è «alcun Tempio», giacché, scrive l’evangelista Giovanni, «il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo Tempio» (Ap 21,22). Cristo, quindi, è il vero Tempio, vero Santuario, meta di ogni pellegrinaggio quale cammino di fede (senza dimenticare infatti che il cristianesimo nascente veniva identificato come la «Via», così come è attestato da At 9,2; 18,25; 24,22).

E d’altronde, così scrive il teologo Jean-Louis Ska: «Il Nuovo Testamento cambia prospettiva rispetto all’Antico, poiché il vero Tempio non è più il Tempio di pietra di Gerusalemme […], bensì la persona di Gesù» (Jean-Luis Ska, I luoghi sacri dei patriarchi, Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia 2009). A rimarcare questo aspetto è anche il teologo Jean Daniélou, il quale osserva: «Quando Gesù muore sulla croce, è il velo del Tempio che si lacera, e tre giorni dopo che il velo del Tempio si era lacerato, il Tempio della Nuova Legge, l’Umanità gloriosa di Gesù, era ricostruita» (Jean Daniélou, Il segno del Tempio, Morcelliana, Brescia 1953). Ancora più incisivo è Jean Corbon, il quale mette in parallelo la visione del profeta Ezechiele del Tempio della Geusalemme celeste – dal cui lato destro sgorga acqua (Ez 47,1) – con il sacrificio di Cristo sulla croce, osservando: «La croce è la teofania prima della sorgente, e proprio per averla contemplata con i suoi occhi di carne Giovanni potrà più tardi penetrare il mistero nell’ultima visione dell’Apocalisse (Ap 22,1-2). Quando uno dei soldati con la sua lancia colpì il fianco di Gesù, “subito ne uscì sangue e acqua” (Gv 19,4). Quell’acqua scendeva anche dal lato destro del Tempio, del vero Tempio che è il corpo di Cristo» (Jean Corbon, Liturgia alla sorgente, Qiqajon, Magnano 2003). Tornano contestuali allora le annotazioni del Direttorio citato inizialmente, in cui si legge: «Secondo la rivelazione cristiana il supremo e definitivo Santuario è Cristo risorto, attorno al quale si raduna e si organizza la comunità dei discepoli» (§262).

A partire da questa prospettiva, è la stessa pratica liturgica ad aver fatto propria la dimensione del pellegrinaggio, introiettandone tutta la straordinaria carica simbolica, con particolare riferimento alla Gerusalemme celeste. È proprio uno dei documenti fondamentali del Concilio Vaticano II, la Costituzione sulla sacra Liturgia, Sacrosanctum Concilium, a ricordare al paragrafo 8 che «nella Liturgia terrena, noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste, che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini», mentre la Preghiera Eucaristica V con l’auspicio che i defunti, al termine del percorso della loro vita, possano godere della mirabile luce del “volto” di Dio, sembra sottendere tutta la simbolica di un pellegrinaggio al Tempio proprio là dove recita «ammettili [i defunti] a godere la luce del Tuo volto», mentre, con riferimento all’assemblea dei vivi, viene esplicitato: «concedi anche a noi, al termine di questo pellegrinaggio, di giungere alla dimora eterna, dove tu ci attendi». E d’altronde, proprio questa prospettiva liturgica, ovvero della vita nella fede come pellegrinaggio verso la dimora celeste, è una delle ricorrenze della teologia di San Paolo che ci ricorda che «la nostra cittadinanza infatti è nei cieli» (Fil, 3,20).

Quali ricadute debbono avere quindi nell’esperienza viva del pellegrinaggio cristiano le considerazioni qui sopra esposte? Innanzitutto la consapevolezza che ogni pellegrinaggio verso un luogo di culto – e purtroppo oggi molto spesso lo si dimentica – consiste, innanzitutto, in una vera e propria rinnovata esperienza di abbandono di sé – di cui si è parlato all’inizio, ovvero l’esperienza di Abramo – con il fine di prepararsi ad un incontro, là dove proprio la nostra meta, un Santuario – Tempio, oltre a configurarsi come preciso luogo fisico, costituisce già un’anticipazione della futura meta celeste. E proprio questo è stato lo spirito che nella storia ha caratterizzato i grandi pellegrinaggi, a partire da una delle figure più intraprendenti, ovvero Egeria, che nel suo resoconto sulla Terra Santa, non manca mai di ricordare come i luoghi visitati siano espressione di quell’incontro con l’Altro, che è la cifra ultima di ogni pellegrinaggio, finanche alla sommità del Monte Sinai, dove la piccola chiesa di un eremita, un vecchio e venerando monaco, diviene occasione sia per leggere alcuni passi biblici tratti dal libro dell’Esodo – a ricordare l’esperienza del patriarca pellegrino Mosè – sia per condividere una celebrazione liturgica all’insegna di una più intima fraternità (Egeria, Pellegrinaggio in Terra Santa, Città Nuova, Roma 2010).

A ricordarci ancora una volta come il pellegrinaggio, nella sua dimensione di cammino, declini tutta la potente simbolica di un itinerario verso quella Città Santa che ci attende al termine del nostro peregrinare terreno è sicuramente il Codex Calixtinus, il mirabile testo medievale rivolto ai pellegrini diretti a Santiago di Compostela e in particolare alla monumentale cattedrale di San Giacomo Apostolo: roveto ardente, Tempio-Santuario e immagine della Gerusalemme celeste (solo per indicare il palinsesto biblico-simbolico che sottende questo luogo meta di pellegrinaggio) e che si connota come vertice narrativo dell’intero Codex. E proprio il quinto libro, l’ultimo di questa importante opera, si configura come vera e propria Guida del pellegrino ai luoghi-Santuari più importanti a partire dal contesto francese (cfr.: Guida del pellegrino di Santiago, a cura di Paolo Caucci von Saucken, Jaca Book, Milano 1989) e che convergono verso un’unica grande meta: la cattedrale di San Giacomo, con una particolare attenzione a quello che diventerà, con le trasformazioni del tempo, lo straordinario Portico della Gloria.

Qui, ancora oggi, una moltitudine di figure tra cui Iesse, Davide, Salomone, fino ad arrivare a Maria ed alla Trinità incastonate in un mirabile “albero di Iesse”, insieme a san Giacomo tra apostoli e profeti e in alto Cristo tra i quattro evangelisti, angeli e una moltitudine dei Vegliardi sembrano accogliere coralmente il pellegrino giunto ormai alla meta più importante del suo viaggio. Non si può non osservare che in questo mirabile “luogo” la dimensione architettonica-scultorea sembra trasfigurare ogni matericità, per aprici a quello spazio d’incontro con l’apostolo Giacomo che di Cristo ha assunto le sembianze e ne è divenuto “colonna portante”. Un tripudio di forme e di colori che si presentano come vera e proprio disvelamento apocalittico, da cui sembra riecheggiare l’invito, come ricorda il Salmo 27, ad abitare nella dimora del Signore: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita per contemplare la bellezza del Signore e ammirare il suo Santuario» (Sl 27, 4).