P Elia Citteriop. Elia Citterio

Un semplice aneddoto, occorsomi in uno dei miei viaggi in Romania negli anni ottanta e novanta del secolo scorso, penso possa esprimere bene la particolarità del ‘pellegrinaggio’ vissuto nei paesi ortodossi, specie in questi ultimi due secoli. Venivo da un lungo giro nei monasteri della Moldavia e ritornavo a Iași. Ero entrato, stanchissimo, nella cattedrale metropolitana, priva di banchi e mi ero riproposto di avanzare lentamente fino all’iconostasi per venerare le icone, proprio per evitare l’impressione del visitatore straniero, curioso e superficiale. Ero quasi arrivato vicino all’iconostasi quando mi sento chiamare da una bambina che mi chiede: padre, da quale monastero proviene? Mi giro e vedo, inginocchiata a distanza, la mamma che aveva mandato avanti sua figlia. Mi avvicino e le spiego che sono un monaco italiano in visita ai monasteri ortodossi romeni. E lei mi dice: «L’ho vista entrare con tale devozione che mi sono detta: dobbiamo andare a far visita a quel monaco, nel suo monastero, per avere la benedizione».

Mi ero confuso più volte con i pellegrini che arrivavano a Sihăstria, in Moldavia, per avere la benedizione di p. Cleopa Ilie (1912-1998). Dal momento che già lo conoscevo, mi invitava a partecipare all’incontro con i pellegrini, incontro che durava gran parte della notte, con domande e risposte, e la gente restava visibilmente colpita dalla grazia e dalla forza spirituale di quest’uomo. Ero stato a Sihla, un romitaggio dipendente da Sihăstria, dove viveva p. Paisie Olaru (1897-1990), un’altra grande figura spirituale del monachesimo romeno del secolo scorso e i pellegrini giungevano non solo per il luogo di pace e di grazia, ma per la benedizione di p. Paisie, per la letizia e la pace che questo padre ispirava e infondeva. Così in altri monasteri, soprattutto quelli dove prevaleva la tradizione esicasta, riaffermata nei paesi romeni con l’irradiamento dell’opera di Paisij Velikovskij (1722-1794) e poi estesasi nelle terre russe, fino alla fioritura, nell’Ottocento, di centri come Optina Pustyn’con le grandi figure di starcy immortalate anche nella grande letteratura russa.1

Mi ero anche chiesto perché, nel prestigioso volume di Fernando e Gioia Lanzi sui pellegrinaggi cristiani nel mondo, erano citati solo tre santuari di paesi ortodossi, il Monastero Patriarcale di Pec’ in Serbia, la Lavra della Trinità di s. Sergio in Russia, il Santuario della Madre di Dio Protettrice a Rila in Bulgaria. 2 C’è una visione differente nel vivere i pellegrinaggi tra i latini e gli orientali, come del resto aveva sottolineato il prof. Marcello Garzaniti nelle sue ricerche sui pellegrinaggi nella Russia antica e medievale.3 In oriente, sono i monasteri i centri del sacro, come i ricercatori moderni li chiamerebbero. In Russia in particolare, ma la cosa vale anche per gli altri paesi ortodossi, come Romania, Grecia, Bulgaria; sono i centri monastici ad attirare le folle, a ispirare la gente, a suscitare il desiderio del cielo, a ridare vigore e identità.

Non parlo tanto dei pellegrinaggi tradizionali, diffusisi nelle terre cristiane, verso Gerusalemme e la Terra santa, meta che in qualche modo ha strutturato per sempre l’essenza stessa del pellegrinaggio in ambito cristiano e che non è mai venuta meno nei cristiani di ogni paese sia nell’antichità che nel Medio Evo e nei tempi moderni. E nemmeno dei pellegrinaggi al Monte Athos o a Costantinopoli, che nell’oriente cristiano hanno segnato e cambiato le vite di molti pellegrini. Intendo piuttosto parlare dei pellegrinaggi all’interno dei paesi ortodossi, in specie Russia e Romania, dove, alla fama dei vari luoghi con la venerazione di icone miracolose o di quei centri storici che hanno corroborato la formazione di una identità culturale e religiosa, si è aggiunta la presenza di grandi figure spirituali, veri poli di attrazione spirituali per tutto un popolo. Inevitabile il collegamento tra pellegrinaggi e mondo della Filocalia, perché i centri monastici che nell’Ottocento e Novecento sono fioriti nelle terre russe e romene sono collegati all’opera e alla fama di quel Paisij Veličkovskij che ha dato una impronta filocalica alla vita cenobitica, con il rinnovamento della pratica esicasta, della confessione dei pensieri e della preghiera di Gesù, insieme a una vita fraterna e liturgica ferventi e uno studio assiduo dei Padri.

I monasteri diventano famosi per gli starcy che li guidano, li animano, ne attirano i pellegrini sia contadini che intellettuali, diventando la forza spirituale di riferimento di un popolo. È valso in Russia come in Romania. Le folte schiere di pellegrini che frequentano quei centri cercano una forza, un senso, una consolazione, una accoglienza, che la vita quotidiana o i drammi della storia, con le sue miserie e oppressioni, sembrano negare. Se teniamo conto che nei monasteri ortodossi l’accoglienza dei pellegrini di ogni dove e di ogni ceto era garantita per tre giorni gratuitamente, impegnando gli stessi pellegrini in qualche forma di servizio, si comprende come una certa osmosi tra monaci e laici, tra respiro spirituale e dramma quotidiano, tra miseria della terra e percezione del cielo, abbia segnato e contrassegnato l’aspirazione interiore di popoli. Si avverte una specie di solidarietà fraterna tra coloro che vanno pellegrini nei monasteri e la comunità di monaci che li accoglie, dal momento che molti monaci si trovano ad accudire, ad accompagnare, a consolare quanti lì cercano pace e riposo. La gente si sente supportata dai loro monaci, trova in loro la benedizione per vivere il dramma della storia. In particolare, in quelle grandi figure di starci, che incarnano la santità di una umanità pacificata e di una tradizione secolare, attorno alle quali si ravviva il fuoco della fede e della speranza, la gente, e anche la stessa popolazione monastica come la chiesa tutta, trova sostegno e consolazione.

Basta rileggere il grande riquadro che Victor Arminjon ha tracciato sullo sviluppo dei centri monastici come tessuto interiore di un paese e di un popolo, si tratti dell’antica Rus’, della Grande Russia, della Russia Bianca, della Piccola Russia, della Russia zarista o sovietica o postsovietica.4 Dal nord, con il famoso monastero delle Solovki, al limite del circolo polare artico, sul Mar Bianco, al sud, con le regioni di Pskov, Novgorod, Souzdal, Mosca e Kiev, la Russia è un territorio innervato da centinaia di monasteri, con migliaia di monaci e interminabili colonne di pellegrini in cammino tra un monastero e l’altro. Gogol’ aveva potuto scrivere: «Il nostro monastero è la Russia!». Per la Romania è la stessa cosa, nel senso che il territorio è disseminato dalla costruzione di centri monastici, abitati e visitati, soprattutto nelle feste dei santi patroni fondatori o in presenza di grandi figure monastiche, da folle di pellegrini.

Cosa cercano questi pellegrini? Da che cosa sono attratti? Quali sono i sentimenti interiori che li muovono o le urgenze spirituali che li pressano? Nei tempi dell’oppressione comunista, la visita a questi luoghi, ricordava loro il ‘patrimonio’ nascosto, difficilmente afferrabile nella sua vitalità ma ben percepibile nella sua preziosità. Come mi ricordava Anca Vasiliu, una fine intellettuale romena con formazione filosofica e artistica, insegnante alla Sorbona, nel commentare la lettura della mia ricerca sul movimento del Roveto ardente a Bucarest nella metà del secolo scorso: «Ho dovuto ripercorrere le pagine di questo libro per riappropriarmi della mia storia. La storia del mio paese nel XX secolo, così come la storia della mia giovinezza nella quale ho potuto incrociare molte delle persone i cui nomi sono qui citati e visitare i luoghi evocati (ad eccezione del Monte Athos, naturalmente) senza presagirne tutta la carica emotiva e spirituale.

Per la mia generazione, era semplicemente il paesaggio del posto, con il suo fascino naturale, la sua dignità e il suo silenzio imposto da una discrezione che si pensava ancestrale e che automaticamente vietava ogni curiosità. La nobiltà dei tratti umani delle persone incontrate era tanto evidente come l’armonia tra la natura e gli ambienti antichi. Ma si denominava tutto questo come il “patrimonio”; si imparava la sua storia e il dovere di conservarlo senza interrogarsi sui valori trascendenti. I nostri nonni non parlavano; i genitori lavoravano; a scuola si elogiavano i benefici della pace e si imparavano le scienze per assicurare la prosperità all’avvenire. La vita era altrove. La si sentiva pulsare in sordina e nominarla a mezza voce, come qualcosa di proibito che si fa passare sottomano e incomprensibile. Vivere così era già un regalo. L’ortodossia, la si veniva a conoscere solo in rapporto alle arti bizantine e alle lingue antiche. Eravamo gli eredi e non lo sapevamo nemmeno, nemmeno osavamo immaginarlo. Come accade spesso, si scopre il tesoro nascosto nel proprio giardino dopo aver fatto il giro del mondo».5

Cosa, invece, che nell’Ottocento, quando Gogol’ era arrivato all’eremo di Optina, frequentato da una foltissima schiera di pellegrini, così si percepiva: «Credo che sullo stesso Monte Athos non potrebbe esservi nulla di meglio. Qui la grazia è tangibile, si percepisce nel modo stesso di celebrare la liturgia, anche se non riusciamo a spiegarci il perché. Non ho mai visto monaci del genere. È come se tutto il cielo discorresse con ciascuno di loro… Appressandosi al convento, ad alcune versty di distanza già si avverte il suo profumo: tutto diventa più cordiale, gli inchini più profondi e la pietà per l’uomo più grande».6

Come riferisce il ‘pellegrino russo’ dei famosi racconti, si viene cercando la pace che dà la preghiera e la solidarietà cordiale con i fratelli: «Sì, ed è già un insondabile e radioso mistero, che l’uomo sia capace di conoscere la discesa nelle proprie profondità, di vedere se stesso con l’occhio interiore, e gioire della conoscenza di sé, intenerirsi e piangere dolcemente sulla sua condizione decaduta e la sua volontà ferita… Altre volte sentivo un amore infuocato per Gesù Cristo e per tutta la creazione di Dio, oppure scorrevano da sole dolci lacrime di gratitudine per il Signore, che aveva misericordia di me, peccatore miserabile».7

È caratteristico che nelle tradizioni dei vari paesi, a proposito dei pellegrinaggi, si parli sempre di qualche figura speciale di pellegrino. Nella Filocalia si fa menzione di Massimo Kausokalyba (1280-1375), il bruciatore di capanne, scoperto da Gregorio Sinaita quando arriva all’Athos. Pellegrino alla ricerca dell’hesychia e della preghiera, ingannando tutti come ‘pazzo’ per Cristo, dal monte Papikion a Costantinopoli, a Tessalonica, all’Athos, senza fissa dimora, costruendo per riparo una capanna di frasche e bruciarla poco dopo per costruirne un’altra, eremita e infine maestro della preghiera del cuore.8 Nella storia della chiesa d’occidente c’è un curioso caso di un santo greco, canonizzato solo dalla Chiesa latina, s. Nicola il Pellegrino o Nicola Kyrieleison, testimone di quella preghiera del cuore che nei secoli successivi verrà codificata nella sua forma completa: ‘Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me’ (‘peccatore’, aggiungono gli slavi). Nasce a Stiri, in Grecia, nel 1075. Fin da ragazzo ripete sempre Kyrie eleison, tanto da essere ritenuto folle ed essere cacciato dai monaci greci che ne curavano l’educazione. Ripara a Otranto nel 1092, poi a Trani, chiamato Nicola il pellegrino, dove muore in odore di santità nel 1094. Viene riconosciuto santo da papa Urbano II nel 1099.9

Nella storia della Romania celebre è la figura di ‘moș Gheorghe’, le cui spoglie sono venerate al monastero di Văratec e dove accorrono migliaia di pellegrini. Gheorghe Lazăr (1846-1916), sposato a 24 anni, nel 1884 parte con altri compaesani per un pellegrinaggio in Terra santa, vi resta più di un anno, riceve il consiglio di non farsi monaco ma di andare per il mondo confessando il Cristo, digiunando e pregando. Trascorre poi un anno e mezzo sul Monte Athos, ritorna a casa in famiglia, sistema i figli e poi si ritira come pellegrino nei monasteri della Moldavia. Per tutta la vita fu pellegrino, camminando a piedi nudi e con la testa scoperta, con il Salterio in mano. Rimaneva per una settimana in un luogo e poi si spostava, tutti lo conoscevano. I monasteri più amati di Gheorghe il pellegrino erano: Bistrița, Neamț, Sihăstria, Sihla, Agapia, Văratec. Altri pellegrini seguirono il suo esempio, molti dei quali divennero monaci. Tra i suoi discepoli si annovera anche p. Ioanichie Moroi (che divenne starec del monastero di Sihăstria). Dal 1895 gli fu donata una cella nella torre della chiesa di San Giovanni a Piatra Neamț dove avrebbe vissuto per 26 anni. Di notte pregava (conosceva a memoria il Salterio) mentre di giorno attraversava le strade della città, seguito da bambini e persone che gli chiedevano consigli spirituali. Dal denaro che riceveva come elemosina, comprava il pane da una panetteria della città, che offriva ai poveri.

L’immagine che molti di noi hanno in mente quando si parla di pellegrini e Filocalia è la figura del pellegrino russo, che si sposta negli immensi spazi delle terre russe recitando la preghiera di Gesù e portando nella sua bisaccia un libro solo, voluminoso, il Dobrotoljubie, la versione slavonica della Filocalia.10 Ciò che la figura del pellegrino incarna è l’essenza dell’esperienza spirituale della tradizione russa, che ha compenetrato la sensibilità ortodossa russa a tal punto da viverla come l’ideale tensione del cuore. Si pensava a questa figura come a un determinato pellegrino che fa conoscere la sua esperienza. Si tratta invece di una figura letteraria nata dal fervore e dall’entusiasmo del sacerdote russo Arsenij Troepolskij, l’autore dei Racconti di un pellegrino russo.11 Ciò che però è straordinario è il fatto che tale ideale di ricerca della preghiera e della pace del cuore nonché della misericordia per gli uomini sia tanto penetrato nell’immaginario interiore da poter ‘creare’ una figura letteraria in cui tutta una tradizione si riconosce.

La riprova è stata l’occasione dello straordinario successo del film di Pavel Lungin Ostrov (L’Isola), 2006, dove la gente si è riconosciuta nel desiderio di redenzione a contatto con la figura di un santo, in un ambiente monastico impervio, nei silenzi della natura e nel canto dolce della liturgia notturna, con la folla di pellegrini che arrivavano con i loro fardelli. In un’intervista, l’attore che impersonava p. Anatolij, alla domanda se ci sia la possibilità di pentimento di fronte a peccati così grandi, ha dato questa risposta: «Le rispondo con una citazione. Efrem il Siro disse nel IV secolo: “La chiesa è un’assemblea di peccatori che si pentono”. Ecco cos’è la chiesa. Tutti i nostri peccati in un oceano di misericordia divina fanno un granello di sabbia. Il Signore accoglie tutti e perdona tutti: gli assassini, le persone più spaventose, se soltanto il nostro cuore si rivolge totalmente a lui. Nella vita ciò accade spesso e vicinissimo a noi. È successo a me, a colui che è di fronte a lei. Ecco la ragione della mia certezza quando ne parlo. Facevo un sacco di scemenze e poi il mio cuore si è completamente rivolto a Dio. Il Signore mi ha perdonato tutto e mi ha ricoperto del suo amore. Poi, disarmato, stupefatto, mi sono fermato».

È appunto il fuoco vivido di tale esperienza che non viene mai meno, che aspetta solo una scintilla per riaccendersi, di cui si va in cerca e che alla fine guida l’esperienza interiore, spesso inconsapevole, dei fedeli. Riassumerei così il senso profondo e misterioso di questo pellegrinare nei luoghi santi, nei monasteri ortodossi. La luce del cuore ha a che fare con l’amore misericordioso di Dio per i suoi figli, tanto che, quando ci riferiamo a un cuore luminoso, lo intendiamo pieno di compassione per il prossimo. Come testimonia Isacco di Ninive: «Segno luminoso della bellezza della tua anima sarà questo: che tu, esaminando te stesso, ti trovi pieno di misericordia per tutti gli uomini, il tuo cuore è afflitto per la compassione che provi per loro, e brucia come nel fuoco, senza fare distinzione di persone. Attraverso ciò l’immagine del Padre che è nei cieli si rivelerà in te continuamente».12 Come del resto è stupendamente descritto da Dostoevskij nelle parole dello starec Zosima nel romanzo I fratelli Karamazov: «Fratelli, non abbiate paura dei peccati degli uomini, amate l’uomo anche col suo peccato, perché questo riflesso dell’amore divino è appunto il culmine dell’amore sulla terra».13

E ancora. A che cosa si desta la mente quando scende nel cuore? All’insorgere di una nuova sensazione, di una nuova capacità di sentimento, alla sensazione del Regno. Dostoevskij mette in bocca allo starec Zosima queste parole: «Molte cose sulla terra ci sono nascoste, ma in compenso ci è stato donato un misterioso, recondito senso del nostro vivido legame con un altro mondo, un mondo superiore, celeste, e le radici dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti non sono qui, ma in altri mondi. Ecco perché i filosofi asseriscono che è impossibile concepire l’essenza delle cose sulla terra. Dio prese i semi da altri mondi e li seminò su questa terra, il suo giardino crebbe e tutto quello che poteva germogliare germogliò, ma ciò che è cresciuto vive ed è vivo esclusivamente in virtù di quel senso di contatto che avverte con gli altri mondi misteriosi. Se questo senso si indebolisce o scompare in te, morirà anche ciò che è cresciuto in te. Allora diventerai indifferente alla vita e comincerai persino a odiarla. Ecco quello che penso».14

Trovo ben descritto questo senso misterioso del pellegrinaggio dell’anima nei paesi ortodossi in una poesia di un autore di spirito filocalico del movimento del Roveto ardente di Antim, dal titolo Călătorie spre locul inimii (Viaggio al luogo del cuore) di Vasile Voiculescu (1884-1963). La poesia è stata scritta nella notte del 24 dicembre 1955.

Il luogo del nostro cuore? chi mai lo conosce? Quanti lo cercano?
Non certo là ci conduce il vortice dei pensieri…
Il luogo del nostro cuore in Cielo dimora
E racchiude la dolce Luce di Colui che è immortale.
A pezzi vanno gli aspri abissi in ogni persona.
Sui monti dell’anima innevati di maledizioni
arde il fiore delle meraviglie — il Roveto Ardente —
che spazio e tempo in cenere riduce.
Signore, verso il luogo del nostro? del Tuo? cuore conducano
i passi di preghiera spossata dal cammino
là dove subito la mente si desta chiara
nel meriggio della Tua Eternità.
15

p. Elia Citterio
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