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Veronica Petito

L’esercizio del pensiero che definiamo filosofia costituisce un luogo privilegiato di ricerca del senso dell’umano. Da questa ricerca emerge una dialettica tra il potere e la giustizia che non costituisce una semplice attività ideale o intellettuale, ma cerca una realizzazione nella storia e nel mondo. Nella cultura occidentale, giustizia e potere rappresentano l’orizzonte di senso in cui si è formata la nostra civiltà. Nella filosofia greca, infatti, la giustizia è la virtù per eccellenza: Aristotele, nel V libro dell’Etica Nicomachea la definisce più ammirevole della stella del mattino e della sera, la virtù completa1. Una virtù dunque che illumina il cammino di colui che la esercita e che emerge sulle altre per il fatto di completarle. Tale virtù possiede la peculiare caratteristica di metterci in rapporto con altri, di essere l’azione che manifesta e realizza la capacità di vivere insieme, di costruire una socialità, una comunità più umana.

Per questo la giustizia e l’ingiustizia si dicono in molti modi2 e tra i significati più comuni con cui possiamo intenderla vi è quello del rispetto delle leggi. In questo caso, si può osservare che le leggi rappresentano un’espressione particolare del modo in cui gli uomini imparano a convivere. Come aveva ben compreso Kant, il rispetto della legge è sempre rispetto della persona3.

Considereremo, allora, anche un altro significato della giustizia, attraverso la riflessione di Simone Weil che, in Attesa di Dio, citando l’opera dello storico Tucidide “La guerra del Peloponneso”, racconta come nel corso di tale guerra, gli Ateniesi avrebbero voluto costringere gli abitanti della piccola isola di Melo (fino ad allora neutrali) a schierarsi al loro fianco. Davanti all’ultimatum di Atene, i Meli implorarono clemenza per la loro antica città e si appellarono alla giustizia, ma gli Ateniesi rasero al suolo la città e fecero schiavi uomini e donne. Tucidide dunque fa pronunciare agli Ateniesi delle parole in cui essi, rispondendo alla richiesta dei Meli, non si appellano alla giustizia, ma a ciò che è possibile: “Voi lo sapete quanto noi – affermano gli Ateniesi rivolti ai Meli – considerata la natura dello spirito umano, si esamina ciò che è giusto solo quando da entrambe le parti c’è uguale necessità. Ma nel caso ci siano un forte e un debole, ciò che è possibile viene imposto dal primo e accettato dal secondo… sempre per una necessità di natura, ciascuno comanda ovunque ne abbia il potere4.

Il significato della giustizia, qui esaminato, si riferisce a quella che la pensatrice francese definisce “giustizia naturale”, cioè il potere che si afferma come dominio del più forte sul debole. In tale condizione non vi è alcun riconoscimento di uguaglianza, ma l’istituzione di una legge di natura, di una necessità di natura, per cui, come abbiamo visto, ciascuno comanda ovunque ne abbia il potere. La giustizia naturale allora non è altro che una forma di potere, che attraversa, da sempre, non solo la storia dei popoli, ma anche le più comuni e ordinarie vicende umane. Questo potere può essere tradotto nell’esercizio di un diritto – una sorta di legge naturale – che gli uomini impongono con la forza. Così la legge è la legge del più forte: “All’inizio ci sarà stata la forza – scrive Derrida”5, per indicare che “non c’è diritto senza forza”, ma anche che solo la giustizia supera il diritto6.

Ponendo dunque l’attenzione sul discorso del potere, osserviamo che la più comune esperienza umana e la storia ci insegnano che l’uomo non rinuncia al dominio sulla natura e sull’altro uomo. D’altra parte, la rinuncia al potere costituisce un tratto particolare del cristianesimo, per cui la giustizia deve superare la legge. In questa prospettiva è esattamente Dio, non l’uomo, a rinunciare al potere o, meglio, all’onnipotenza. Vero Dio infatti – scrive Simone Weil – è quel Dio sì onnipotente, ma che non comanda ovunque ne avrebbe il potere7.

L’onnipotenza divina è qui rappresentata come non-esercizio del potere. La questione del potere può essere così rivisitata e ricompresa alla luce di un nuovo modo di concepire il divino e l’umano. Tale novità, per la Weil, emerge proprio dalla visione cristiana: “La creazione è da parte di Dio non un atto di espansione di sé, ma un ritrarsi – scrive la Weil – un atto di rinuncia. Dio insieme a tutte le creature è meno di Dio da solo. Egli ha accettato questa diminuzione”8. D’altra parte, il finito di fronte all’Infinito non potrebbe in alcun modo sussistere. Tommaso d’Aquino nella Summa teologiae, prima di argomentare le sue celeberrime cinque vie per la dimostrazione dell’esistenza di Dio, descrive così il rapporto tra l’infinito e il finito: “Se di due contrari uno è infinito, l’altro resta completamente distrutto”9.

Ci domandiamo così come può sussistere la creazione di fronte all’Infinito. L’unico modo perché il finito possa esistere davanti a Dio è che l’onnipotenza di Dio “rinunci al suo potere”. Dio, proprio in quanto Dio, accetta questa diminuzione di Sé. La creazione, come osserva la Weil, costituisce allora un atto di autorinnegamento di Dio in nostro favore: il testo biblico ci restituisce a più riprese questa visione del divino. L’Incarnazione intesa come Dio che in Cristo si svuota di sé, sta a significare che il ritrarsi di Dio appartiene al Suo agire nella storia degli uomini.

Secondo la Weil, la rinuncia dell’uomo al potere è invece quasi impossibile e accade similmente a un miracolo, come dono che viene dall’alto e che costituisce la più autentica forma di giustizia: la Compassione. Questa non è da intendersi come devoto esercizio di pietà per l’altro sventurato (che significherebbe pur sempre che chi dona è superiore a chi riceve), ma quale capacità di “trasferire se stessi nell’altro”, per simpatia. La simpatia del forte per il debole è contronaturale, afferma la pensatrice francese, ma è, al contempo, in grado di ristabilire una condizione di uguaglianza. L’uomo che rinuncia ad accrescere il proprio dominio sull’altro uomo diventa, solo in questo modo, simile a Dio. Giustizia vuol dire dunque amore del prossimo, capacità di stabilire una nuova legge al di là della legge di natura. La novità è esattamente il potere del non-potere, per cui l’altro, accolto come sé stessi, è l’alter ego in una relazione di uguaglianza ristabilita.

La riflessione di S. Weil ci mostra così che la filosofia dischiude possibilità di comprensione di inedite forme dell’umano e che un nuovo umanesimo passa solo attraverso l’autentico incontro con altri, un potere di attenzione in grado di riprodurre, nell’amore del prossimo e dell’altro invisibile, qualcosa di simile all’atto creatore:

“Gli uomini sono immagini della parola di Dio; amarli come si ama se stessi significa trovare in loro e in se stessi il nome che Dio ci ha dato fin dall’origine, come omonimo al suo; significa pronunciare tale nome […].
Ai propri benefattori il Cristo non dà l’appellativo di caritatevoli o amorevoli. Egli li chiama giusti. Il Vangelo non fa alcuna distinzione tra la carità verso il prossimo e la giustizia…
Si compie un miracolo quando un benefattore dà senza asservire… allora lo sventurato non riceve solo un po’ di pane, riceve la propria anima…
Quando ci si trova in un rapporto di forze ineguali in cui si è in posizione di vantaggio, la giustizia soprannaturale consiste nel comportarsi esattamente come se vi fosse uguaglianza. (Questo) significa amare quel Dio che ama in noi, significa imitare la rinuncia di Dio, la rinuncia creatrice di Dio”10.

NOTE

1. Cf ARISTOTELE, Etica Nicomachea, tr. it di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 1999, 1129b 26-30.
2. Ibidem, 1129 a 28-29.
3. Cf IMMANUEL KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 1997, 33n.
4. S. WEIL, Attesa di Dio, tr. it di M. C. Sala, Adelphi, Milano 2008, 102.
5. J. DERRIDA, Forza di legge, Bollati Boringhieri, Torino 2003, 54.
6. Cf Ibidem, 52.
7. S. WEIL, Attesa di Dio, 106.
8. Ibidem.
9. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I, q. 2, a. 3.
10. S. WEIL, Attesa di Dio, 224-226.