Nella bellezza il senso mistico dell’esserci
Bernardo Gianni, O.S.B.
Abate di San Miniato al Monte
Natale, credo, scada il bollino blu
del motorino, il canone URAR TV,
poi l’ IMU e in più il secondo
acconto IRPEF – o era INRI?
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sono le nostre dolcissime metastasi.
Ciò è bene, perché io amo i contributi,
l’anestesia, l’anagrafe telematica,
ma sento che qualcosa è andato perso
e insieme che il dolore mi è rimasto
mentre mi prende acuta nostalgia
per una forma di vita estinta: la mia.
I versi appena letti di Valerio Magrelli ci sembrano un’acuta e puntuale diagnosi della squalificazione estetica ed antropologica in cui è incorsa la nostra incerta e logora autoconsapevolezza, fra i bagliori variopinti e cangianti di un narcisismo dilagante e la tentazione di sottrarsi alla luce della vita disattivando qualsiasi dinamica generativa di desiderio, di speranza e di fiducia. In questa progressiva dissolvenza di quella che a noi pare l’irrinunciabile autenticità della nostra condizione umana, riflettere sulla bellezza è un invito fermo a scoprire o riscoprire quell’alone di mistero generato dai luminosi riverberi di una eccedenza capace di sorpassare ogni imperante riduzionismo antropologico. Alcuni versi di Mariangela Gualtieri segnalano nitidamente l’importanza della posta in gioco:
Lo sento ora, con una precisione
che metto in parole qui per te.
Dirti questa visione semplice.
Nessun metraggio ci contiene
nessun confine di sponda
nessun nome è bastante
in nessuna foto noi veniamo
nessuna telecamera riprende per intero
questo essere nostro che slegato si estende
tutto impastato di infinità.
Contro ogni pretesa della dittatura tecnologica di colonizzare la nostra interiorità e di scansionare i suoi frastagliati perimetri, poche sillabe poetiche con grande efficacia riaffermano come la nostra struttura personale sia sempre sorprendente ulteriorità rispetto ad ogni presuntuosa e ultimativa diagnostica cibernetica o biochimica. Il Vangelo avvalora questa consapevolezza e chiede di esserne eloquenti testimoni restituendo alla vita di noi tutti la possibilità di accedere, col dono della fede, alla nostra più vera immagine per scoprire così l’inesauribile vivacità con cui la non remota parentela con l’infinito amore da cui veniamo immetta tutto di noi in una dinamica assimilativa a quella stessa perenne sorgente di luce, di bellezza, di vita. Meditando sul mistero del Natale contemplato da quanti erano accorsi nella luminosa penombra della notte di Betlemme, così predicava san Basilio Magno: «La potenza divina, come raggio attraverso un cristallo, splendeva in quel corpo umano, rifulgendo dinanzi agli occhi puri del loro cuore. Potessimo anche noi trovarci con loro a contemplare con sguardo puro, come riflessa in uno specchio, la gloria del Signore, per essere trasformati anche noi di gloria in gloria, per grazia e bontà del nostro Signore Gesù Cristo». Con umile ostinazione generata dall’amore e resa possibile dalla fede in una tensione inclusiva di speranza pasquale non desistiamo dal riproporre l’incarnazione del Signore Gesù come accadimento fondativo di una concezione di noi stessi in forza della quale l’effettivo straniamento da se medesima che caratterizza, soprattutto nel tempo presente, la nostra umanità possa trasfigurarsi nella riscoperta di una esperienza rivelativa della nostra verità e del nostro mistero. «Et virtus Altissimi obumbrabit tibi» (Lc 1.35): così l’arcangelo Gabriele rassicura Maria nell’incipit della sua divina e umana maternità. Un’ombra che per noi diventa consolante illuminazione circa l’oggettiva consanguineità che fa dei nostri volti lo specchio di quello del Figlio e della sua incontenibile luce, ben oltre il pallido e malfermo riflesso sul volto di Mosè (2 Cor 3 13): «E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3.18). Nessuno meglio di sant’Ireneo di Lione ha formulato i fondamenti della questione in termini di grande e limpido rigore teologico:
Il Verbo di Dio si è fatto uomo e il Figlio di Dio si è fatto figlio dell’uomo perché l’uomo, unito al Verbo e ricevendo l’adozione, diventi figlio di Dio. Non potevamo infatti in nessun altro modo ricevere l’incorruzione e l’immortalità se non con l’essere uniti all’incorruzione e all’immortalità. E come poi avremmo potuto essere uniti all’incorruzione e all’immortalità se prima l’incorruzione e l’immortalità non si fosse fatta quello che siamo noi, perché ciò che era corruttibile fosse assorbito dall’incorruzione, e ciò che era mortale dall’immortalità, e noi potessimo ricevere l’adozione di figli? (Adv. Her. III,19)
In un passo di vertiginosa bellezza è ancora Ireneo a permetterci di intendere con grande chiarezza cosa comporti in ordine alla nostra consapevolezza antropologica abbandonare la vacuità delle nostre effimere luminarie natalizie e tornare ad affacciarsi negli austeri anfratti della grotta di Betlemme:
Ora questo si mostrò vero allorquando il Verbo di Dio si fece uomo, rendendo se stesso simile all’uomo e l’uomo simile a sé, affinché, attraverso la somiglianza con il Figlio, l’uomo divenga prezioso di fronte al Padre. Infatti, nei tempi passati, si diceva bensì che l’uomo è stato fatto a immagine di Dio, ma non appariva tale, perché era ancora invisibile il Verbo, a immagine del quale l’uomo era stato fatto: e appunto per questo facilmente perse la somiglianza. Ma quando il Verbo di Dio si fece carne, confermò l’una e l’altra cosa: mostrò veramente l’immagine, divenendo egli stesso ciò che era la sua immagine, e ristabilì saldamente la somiglianza, rendendo l’uomo simile al Padre invisibile attraverso il Verbo che si vede (Adv. Her. V,16,2).
Riemerge così un carattere decisivo dell’antropologia cristiana: partecipando della carne del Cristo Gesù, l’uomo recupera la sua preziosità agli occhi del Padre, quella amabilità che tanto dice di quell’onore e di quella gloria con cui il Creatore aveva circonfuso di ineffabile bellezza l’uomo e la donna. Tale bellezza torna a risplendere nella nostra storia giacché «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in un certo modo a ogni uomo» (Gaudium et Spes 22). Mediante il Signore Gesù, che Gregorio di Nissa commentando il Cantico dei Cantici (Omelia 4) chiama «il solo veramente bello. E non soltanto bello, ma la stessa essenza eterna e personale della bellezza» e nel Contro Eunomio II (PG 45.496D) «il bello ed è oltre tutto il bello», Dio ama la nostra umanità quasi riscoprendone l’intrinseca bellezza e compiacendosi di essa. E sempre mediante il Figlio Gesù si è attuato il salvifico desiderio di bello e di bene che il Padre aveva in serbo per noi: «questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che nulla vada perduto di ciò che mi ha dato» (Gv 6 39). «Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente» -scriveva con grande e accorata lucidità Giovanni Paolo II in Dives in misericordia 1 – «sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l’antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell’uomo in maniera organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante, del magistero dell’ultimo Concilio». Il papa alludeva qui a molti fondamentali passaggi, fra l’altro, di Gaudium et Spes, fra cui quello, celebre e celebrato, del già citato numero 22:
In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato si chiarifica veramente il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo era figura di quello futuro (Rm 5 14), e cioè di Cristo Signore. Cristo che è il nuovissimo Adamo, nella rivelazione stessa del mistero del Padre e del suo amore, manifesta pienamente l’uomo all’uomo stesso e a lui fa nota la sua altissima vocazione.
L’uomo dunque, voluto e creato in Cristo, che è suo prototipo, mediazione della sua salvezza e sua suprema destinazione, partecipa della vita nuova del Risorto in forza di quell’amore «riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5 5) per renderci ut filii in Filio. In questa luce il Cristo non solo svela l’uomo all’uomo, ma altresì tutto il segreto progettuale della creazione, orientata quest’ultima ad una pienezza e ad un compimento già inaugurati col mistero pasquale. Si attiva così nella nostra consapevolezza di battezzati un dinamismo propulsivo che scaturisce dalle energie dello Spirito per configurarci già in questa vita al Cristo luminoso quale appare sul Tabor: l’incarnazione del Signore Gesù e la sua trasfigurazione manifestano ed esplicano infatti l’originaria vocazione divina dell’uomo capax Dei, la sua chiamata ad esser figlio, il suo essere ad futurum, il suo essere-per-diventare partecipe della divina natura per mezzo della «potenza divina» del Cristo (2 Pt 1 3-4). Se il Verbo si incarna è perché l’uomo non può essere totalmente se stesso senza di lui, di più, senza il suo «potere» («a quanti però lo hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio» Gv 1,12); al contempo se il Cristo si trasfigura sul Tabor è per accendere nei nostri cuori la fiamma che, ispirando e appassionando la nostra volontà, ricordi al nostro intelletto l’impronta santa e divina della sua immagine impressa nella nostra carne: «E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo» (2 Cor 4 6). Come osserva con grande sapienza don Basilio Petrà, «se ogni ente creato è installato nel proprio essere e in esso risiede, l’uomo –unico tra gli enti- è originato da una vocazione che giunge dal futuro e non trova quiete finché non incontra nella gioia il volto di colui che lo chiama e per il quale è stato fatto (“entra nella gioia del tuo Signore” Mt 25 21.23)». Il cammino umano è dunque un movimento dalla creazione kat’eikona – secondo l’immagine – eis omoiosin ovvero verso l’assimilazione con Dio. Un itinerario certamente ascetico, ma anche, osiamo dire, estetico. Non paia questa correlazione una forzatura o peggio uno sconcertante arbitrio: proprio in forza di questa centralità cristologica predicata ininterrottamente dalla Chiesa dei Padri, l’uomo, realizzando in pienezza l’umano, si assimila a Dio in una prospettiva che Ireneo non esita a comparare alla progressiva realizzazione di una vera e propria opera d’arte di avvincente bellezza:
Come sarai Dio, se ancora non sei divenuto uomo? Come sarai perfetto, se sei appena stato creato? (…) Prima tu devi custodire la tua condizione di uomo, e poi partecipare alla gloria di Dio. Perché non sei tu che fai Dio, ma è Dio che fa te. Se dunque tu sei opera di Dio, aspetta la mano del tuo Artefice, che fa tutte le cose al tempo opportuno (…) Presentagli il tuo cuore morbido e malleabile e conserva la forma che ti ha dato l’Artista, trattenendo in te l’Acqua che viene da lui per non rifiutare, indurendoti, l’impronta delle sue Dita. Conservando questa conformazione, salirai alla perfezione e l’arte di Dio nasconderà l’argilla che c’è in te; la sua Mano creatrice ti rivestirà di oro puro e di argento dentro e fuori; ti adornerà così bene che il Re stesso sarà preso dalla tua bellezza. Se invece ti indurisci e rifiuti la sua arte e ti mostri ingrato verso di lui perché ti ha fatto uomo, con la tua ingratitudine verso Dio tu perdi insieme la sua arte e la vita: fare è proprio della bontà di Dio, e essere fatto è proprio della natura dell’uomo. Se tu dunque gli affiderai ciò che è tuo, vale a dire la fede in lui e la sottomissione, riceverai la sua arte e sarai opera perfetta di Dio. (Adv. Her. IV,39,2)
A fronte del peccato di Adam che ha indebolito se non incrinato l’immagine e somiglianza col Creatore, sta l’umiltà mediante la quale il credente si consegna al suo Signore, «rinunciando alla nostra illusione di essere al centro» (Simone Weil), imparando a vivere la propria creaturalità come un dono, senza ricorrere all’inganno dell’orgoglio che, alimentando una patologica presunzione di noi stessi, ci costringe a deformarci in una caricatura idolatrica e inverosimile di noi stessi. Isacco il Siro, un grande padre dell’Oriente cristiano vissuto nel VII secolo, arriva a dire che «tutto quello che è dell’umiltà è bello» (Prima Collezione 12). Ed è bella perché per Isacco
l’umiltà è il vestito di Dio: tramite la Parola che si è fatta uomo, egli l’ha rivestita e con noi parla per mezzo di essa, attraverso il nostro corpo. Chiunque ne è ricoperto assomiglia in verità, tramite l’umiltà, a colui che è disceso dalla sua altezza, ha nascosto lo splendore della sua grandezza e ha velato la sua gloria, perché la creazione vedendolo non perisse. Perché la creazione non poteva vederlo, se non nella parte che viene da essa e che egli aveva assunto, e nella quale egli parlava con essa, così che questa poteva ascoltare la parola della sua bocca, faccia a faccia… Chiunque riveste questo mantello nel quale il nostro Creatore si è rivelato, per mezzo di questo corpo pieno di santità, riveste lo stesso Cristo. Perché costui desidera rivestire il suo uomo interiore di quella somiglianza nella quale Cristo si è rivelato alla sua creatura. (Prima Collezione 82)
È questo un testo di grande intensità che presenta l’umiltà come l’indumento più desiderabile per tornare a conseguire la più autentica delle eleganze, quella conferita dalla gloria di cui il Signore si spoglia per avvolgere di bellezza la nostra fragile e vulnerabile nudità. Solo indossando quella stoffa, grezza e preziosa al contempo, possiamo tornare a guardarci coi nostri stessi occhi sottraendo allo sguardo statico e autoreferenziale di Narciso quello specchio finalmente reso in grado di riflettere la luce infinita del cielo e la piena verità del nostro volto. Per questo Isacco poteva ben dire che «l’umiltà nasce nell’uomo dalla conoscenza di Dio e di se stessi» (Seconda collezione 18,6) e Margherita Guidacci, già diversi anni fa, ci avvertiva con profetica severità delle conseguenze di una nebbia dilagante che ripudia la luce, ne soffoca i riflessi e più ancora maschera i nostri volti rendendoci stranieri a noi stessi:
Per noi nessuno specchio
fedele o deformante.
Non esistono pozze d’acqua tremula
né vetrine per un furtivo sguardo.Sconfitto è il gnòthi seautón
dall’assoluta mancanza d’immagini.
Grigiore di muri, d’asfalto,
di nebbie compatte.Tagliati fuori dalla conoscenza
solo dell’ignoranza ormai cerchiamo la chiave.
Il mondo è divenuto così opaco
o siamo noi che non abbiamo più volto?Una fosca diagnosi che pare riecheggiare l’ancor più sofferta autopsia in versi di fra’ David Maria Turoldo:
La profezia è spenta
La poesia è muta…Dio non c’è nel nuovo Caos…
La Bellezza è stata sconfitta!
Le «nebbie compatte» evocate da Margherita e il «nuovo Caos» percepito da fratel David non riescono tuttavia a dissolvere la loro e la nostra filocalia, nella feconda persuasione che la bellezza trovi nel Signore Gesù il suo più autentico e affidabile statuto ontologico: nella luce del Tabor, che ci ha mostrato il fulgore divino la cui partecipazione è cuore e meta della vocazione battesimale alla sequela del Cristo, e nondimeno nell’eclissi di sole sulla nuda collina del Calvario, quando l’orribile oltraggio patito per amore nostro dallo splendore del corpo crocifisso del Cristo ha fatto sì che la bruttezza generata in noi dal peccato tornasse ad essere la primigenia bellezza ammirata dal compiacimento di Dio rivolto ad Adamo appena creato. Così infatti nelle Enarrationes in Psalmos 103,1,5 Agostino, rivolgendosi alla nostra anima, evidenzia l’immane vantaggio che abbiamo conseguito con quell’inaudito scambio:
Ma egli per renderla bella, oso aggiungere, l’ha amata anche brutta. Che significa che l’ha amata anche brutta? Cristo infatti è morto per gli empi. Quale vita egli riserva per te, già giustificato, se anche all’empio ha fatto dono della sua morte? Ecco come colui che è bello, magnifico di aspetto tra i figli dell’uomo, nel venire verso colei che è brutta, si è fatto brutto per renderla bella.
«Il più bello tra i figli dell’uomo» (Sl 45,3) si lascia dunque vedere «senza bellezza, né decoro» (Is 53,2), sfigurato, anzi deformato dalla cruenta passione che ha subìto e che lo ha innalzato sulla croce, così come lo era stato l’osceno serpente nel deserto esodico (Gv 3,14-15). Ma è dall’alto che egli, con il liberante magnetismo dell’amore, attrae tutti a sé perché la sua deformitas ci restituisca la deiformitas. Questo altrimenti imprevedibile e insperabile esito ci viene consegnato dalle parole forti e definitive di Agostino nel suo Sermone XXVII che qui lasciamo risuonare nell’eloquentissimo latino originario: «Deformitas Christi te format. Ille enim si deformis esse noluisset, tu formam qua perdidisti non recepisses. Pendebat enim in Cruce deformis, sed deformitas illius, pulchritudo nostra est». L’amore indefettibile che si è reso manifesto come radicale umiltà a Betlemme, come fosforescente bellezza sul Tabor e come perdono di salvezza sulla croce del Calvario, ci ricorda e ci ricordi che ogni creatura è chiamata a vivere nelle pupille del Signore: «ubi amor ibi oculus» (Riccardo di San Vittore). Proponendoci con obbediente mansuetudine di dimorare in quello sguardo di abissale chiarore potremo finalmente avvertire, nonostante l’attrito del nostro disordinato istinto, l’incontenibile capacità di rinascita e di liberazione che si sprigiona dal fuoco inesausto del mistero pasquale. È quanto sembra suggerirci anche l’essenziale nitore di pochi, ma intensi versi di una appartata poetessa del nostro tempo, l’amica Giovanna Fozzer:
In quanto esiste, la creatura è amabile
E tu la ami, in quel tuo allagarsi
Del cuore, in quel dare tepore e protezione
Che vorresti per loro e -certo- per te.
Memoria di san Pier Damiani