Roberta Foresta
Insegna religione cattolica ad Aosta nelle scuole secondarie di secondo grado.
Tre bellezze continuano a colpire l’uomo d’oggi e a dargli da pensare: la bellezza di una vita santa; la bellezza della carità, da quella più semplice a quella davvero eroica; la bellezza delle arti. Ho sempre ritenuto che la pastorale abbia tra le sue prime finalità quella di mettere le persone in contatto con queste bellezze – e di favorirne la diffusione –. A Illegio siamo partiti da questa convinzione, condivisa tra comunità e sacerdoti. Poiché ciò che è grande, bello e nobile risveglia nel cuore le aspirazioni, le domande, le capacità migliori, con i parrocchiani abbiamo pensato che inventare a Illegio una forte proposta di bellezza, con stile cristiano e porte spalancate, avrebbe fatto buon effetto a tantissima gente, anche a quella che non si muoverebbe per le “normali” proposte della comunità cristiana, e tutto ciò avrebbe fatto buon effetto alla stessa comunità di Illegio, stimolandola a dare il meglio di sé, a qualificarsi, a vivere una stagione di rinascita sociale, di unità, di ingegno.
Inquadriamo meglio la vicenda, però, per coloro che non conoscono direttamente Illegio e le sue mostre internazionali d’arte. Nel centro di una conca che improvvisamente spalanca l’anima e lo sguardo, cinta all’orizzonte dai monti più elevati del Friuli Venezia Giulia, dopo qualche tornante tra alture e volpi, sta il borgo di Illegio, tra le cui case l’acqua perennemente fresca sgorga da una sorgente incantata, a muovere i mulini e a dissetare le case di 340 abitanti, fino a qualche anno fa tra i pochissimi a conoscere il paese. Oggi, Illegio è il nome di un miracolo, frutto di un cammino lungo vent’anni. Partendo da un’idea forte, organizzandosi come una vera e propria impresa e coltivando l’entusiasmo e l’affiatamento di un gruppo coraggioso di promotori, dopo qualche tentativo più modesto e limitato all’orizzonte della Carnia (tra il 2000 e il 2003), a partire dal 2004 Illegio ha proposto ogni anno una diversa e audace mostra internazionale d’arte. Di volta in volta, vengono esposte quaranta cinquanta opere (ottenute con la probabile cooperazione della Provvidenza), prestiti spesso strepitosi grazie ai buoni rapporti con oltre 400 collezioni di tutta Europa: opere da Madrid, Londra, Mosca, Parigi, accanto a capolavori dagli Uffizi, dai Musei Vaticani, dalla Pinacoteca di Brera, di Capodimonte… con firme come quelle di Caravaggio, Bernini, Botticelli, Canova, Rubens, Tiepolo, El Greco, Monet, Van Gogh, Picasso, Dalì.
Meraviglie messe a disposizione dei visitatori assieme ad una schiera di giovani preparati accuratamente a porgere a tutti con competenza e passione le chiavi di lettura più avvincenti per entrare nel linguaggio di dipinti e sculture decifrando i loro segreti d’arte, di storia, di filosofia, di teologia. Tutti vengono accompagnati, sempre. E la sede prescelta per queste mostre è stata la casa del prete, in mezzo al paese, riadattata e attrezzata in modo da poter competere in sicurezza, climatizzazione e allestimento con i migliori musei contemporanei. Risultato: tra le case illegiane sono passate 500.000 persone – circa 20mila in una mostra dei primi anni, crescendo fino a 45mila nelle mostre degli ultimi anni –, nei cinque o sei mesi di ogni anno che consentono di ammirare la nuova esposizione per lasciarsi trapassare l’anima dai messaggi e dalle domande che il racconto di ciascuna mostra suscita. Parallelamente, ci è stato chiesto di allestire, negli anni, ulteriori mostre di richiamo internazionale a Bruxelles, ai Musei Vaticani, a Roma a Palazzo Venezia, a Castel Sant’Angelo e a Galleria Borghese, fino all’ultimo progetto commissionato per il 2021 a Udine come inaugurazione della sede d’arte moderna e contemporanea che la città ha voluto ripensare e rilanciare. Altri 600mila visitatori in queste esperienze “in trasferta”. Le trenta mostre inventate a Illegio sono state viste da oltre un milione di persone, da non crederci.
Non si tratta di fare salotto né di coltivare élites: la dimensione comunitaria e il successo popolare del caso di Illegio sono un modo di fare oggi quello che la Chiesa ha sempre saputo fare raggiungendo l’uomo con il miglior repertorio che la creatività sa generare, dall’arte alla musica al teatro al cinema. Le arti sono territorio di missione in piena regola. A volte sulla porta di casa. Insomma, è un nuovo modo di proporre la rilevanza dei punti che stanno al cuore del Vangelo e di incontrarsi amichevolmente tra diversamente credenti e ricercanti, colpiti insieme dalla bellezza. Ne ho parlato con tanti catechisti, con tanti sacerdoti, vescovi e cardinali, trovando una sintonia che promette bene, ma che forse per fiorire più vigorosamente domanda qualche catalizzatore, qualche ripensamento innovativo di alcune abitudini pastorali, qualche animatore dedicato alla causa e allenato ad una visione di ampio respiro, e qualche scuola dove imparare e dove potersi gettare nell’avventura.
E beninteso: questa è un’opera di comunità, il frutto di un paese che è pienamente coinvolto nella proposta culturale delle mostre e di tutto ciò che esse comportano. Nuove attività d’accoglienza e ristorazione, giovani decisi ad impegnarsi qualificandosi con competenza e professionalità, tanti volontari che fanno vivere una complessa “macchina” che a sua volta fa vivere il paese stesso e può generare ulteriore bene al territorio dintorno, case risistemate, fiori dovunque, vecchiette simpatiche che a dispetto del riserbo e del tratto un po’ roccioso delle popolazioni di montagna ti rincorrono in strada con una tazzina di caffè se hanno la percezione di un ospite stralunato da tante sorprese. Illegio era già prima un paese molto bello, ora è un simbolo e racconta che c’è futuro anche per le periferie più nascoste. È un segno di speranza per tante piccole comunità alpine e non solo, che – almeno nel nostro territorio – spesso patiscono da decenni i fenomeni dello spopolamento e della depressione economica, sociale e anche morale e spirituale.
Tanto la bellezza della natura quanto quella delle opere d’arte suscitano in noi meraviglia. La meraviglia è l’opposto dell’inedia della mente e dello spirito, tipica di chi vive tutto in modo superficiale, svuotando momenti e incontri e azioni e cose di ogni valore e rendendo banale e grigia l’esistenza. La meraviglia è la percezione di essere sorpresi dalla grazia di esserci e dalla grazia che la realtà di fronte a me ci sia e manifesti che è preziosa.
A quel punto, la bellezza della natura e la bellezza dell’arte attestano la gloria della realtà, l’irradiazione del bene che c’è in ogni angolo dell’universo e in ogni essere umano, a prescindere dall’asservimento di tutto questo ai nostri interessi. Stimare le cose, i momenti, le persone, addirittura Dio stesso, per quel che potrebbero darti, significa non riconoscere il loro valore, imprigionandosi in una logica meschina di utilitarismo. La bellezza è una rivelazione della dignità di una realtà, che induce contemplazione riconoscente e non sfruttamento. Così, lo sguardo sulla bellezza del cosmo e il suo studio possono anche avere applicazioni utili alla nostra vita, ma in primo luogo sono esperienze di stupore assai prossime al senso religioso, comportano l’intuizione di una unità logica ed estetica del mondo che ci spinge ad avvicinarci alla natura con rispetto, con istintiva umiltà e con la domanda sul perché di tanto splendore. Anche un’opera d’arte fa accadere qualcosa di analogo: essa consiste in un pezzo della realtà (una materia, una superficie) sottratto alle dinamiche del calcolare, utilizzare, vendere e comprare, consumare, gettare via, un pezzo della realtà definitivamente “impregnato” di un senso e della corrispondente dignità visibile, per cui quella tela, quel legno, quella pietra, quei pigmenti, non sono più materiali sottoposti alla logica economico-produttiva, quei materiali hanno valore precisamente perché sono usciti dalla logica economico-produttiva e sono diventati sede dello spirito, un’estensione della nostra coscienza.
Infine, la bellezza della natura, come quella dell’arte, indicano un oltre. La loro intensa esperienza è anche l’esperienza di un certo struggimento, come se ci si presentasse, in una determinata bellezza con i suoi limiti, l’apparizione di una bellezza senza limiti o almeno l’affioramento del suo desiderio nell’intimo del nostro essere. È come se tutto ciò che è bello testimoniasse di essere un anticipo e una promessa, che la nostra coscienza coglie immediatamente, intrigata dal senso di ammirazione che prova e nello stesso tempo spinta come a sperare che ci sia un compimento per ciò che ha iniziato a risplendere nel tempo, una salvezza dalla morte. Ammirare la bellezza di chi amiamo, così come ammirare quella del cielo stellato o di una creatura incantevole ed elegante, significa covare almeno segretamente il desiderio che il niente risparmi quella meraviglia, che non la corroda e che non la offenda, che non la inghiotta per sempre in un baratro oscuro. Altrimenti, la bellezza sarebbe uno scherzo, uno strano incidente, una promessa che suscita entusiasmo mentre poi la vita ti pugnalerebbe alla schiena: se fosse così, sarebbe da augurarsi (e da ricercare) una certa indifferenza a tutto, per non starci troppo male a vedere tutto invecchiare e corrompersi. Ma qualcosa dentro di noi, ad ogni incontro con la bellezza, insiste a sperare.
Abbiamo bisogno delle forme di bellezza che ci rammentano la nostra vera dignità e la nostra destinazione, poiché su questi due punti soffriamo di una amnesia collettiva molto seria e preoccupante. In particolare, mi sembra, ci sia bisogno di cinque bellezze. La prima è la bellezza di un pensiero chiaro e accurato: la ragione è il primo dono che il Creatore ha fatto all’uomo ed è il geniale approdo dell’evoluzione cosmica, usarla e usarla bene dà lode a Dio e consolazione a chi si ritrova davanti ad un ragionamento alto, preciso, profondo e illuminante, su qualsiasi argomento! (ahimè, quanto è frequente, invece, ascoltare oggigiorno ragionamenti bislacchi e approssimativi di ogni genere, a volte fino a rasentare l’assurdo). La seconda bellezza è quella delle relazioni fraterne, la bellezza di quell’amore accogliente, gratuito e capace di migliorare tutto ciò che raggiunge, chiamato carità. La terza è la bellezza dell’innocenza: è così snervante vivere in una società dove tutti si guardano con un certo sospetto o con una certa volgarità… e come è bello invece lo sguardo puro, che non cosifica, che non tradisce, che non fa calcoli, che non pesca nel torbido… La quarta è la bellezza delle storie sante, storie vere di luce che accadono e che sono accadute, mostrando a quale grandezza l’essere umano può giungere, suscitando il desiderio di imitarle. La quinta bellezza è quella del Paradiso: nessuna bellezza che si possa incontrare in questa vita, infatti, è sufficiente per le proporzioni del nostro cuore, noi siamo fatti per la vita piena, completa, eterna, chiamata Paradiso, dove le precedenti quattro bellezze arrivano al grado infinito e non sono più minacciate di precarietà.
Anche i non credenti hanno bisogno di queste bellezze: della chiarezza del pensiero, della fraternità, dell’innocenza e della santità – anche un ateo ammira la vita dei santi –, e in fondo i non credenti hanno bisogno anche della bellezza del Paradiso, almeno nel caso che abbiano amato qualcuno così tanto, che nel caso della sua morte vorrebbero di cuore che la morte non fosse l’ultima parola nella storia di quel legame, dunque vorrebbero Dio, anche senza accorgersene.
Ci è stato rivelato che il cammino dell’umanità e della storia universale procede all’edificazione di due immense città: Babilonia e Gerusalemme. Ci è stato anche rivelato che della prima resteranno macerie tristissime, mentre la seconda risplenderà per sempre. I simboli della suprema salvezza e bellezza e della totale rovina sono due città, nella Scrittura. Perciò sì, si può vivere la bellezza nella città, quando la città si vive come parte del cantiere della Gerusalemme celeste. La città è bellezza quando è luogo dove si impara l’abitare in armonia con Dio, con il prossimo e con la creazione, dove si asciugano le lacrime e si guariscono le ferite, dove al centro della vita sta nuovamente la familiarità naturale con Dio. Le città sono famose e stimate specialmente quando sono state capaci di edificare, custodire e far vivere i segni concreti di tutto ciò, che prendono forma in piazze, cattedrali, università, istituzioni di carità, di accoglienza, di cura, opere d’arte e opere civiche, per le quali ancora oggi vengono visitate e ammirate da gente di tutto il mondo.
Ma dentro le nostre città è aperto anche il cantiere diffuso di Babilonia la grande, ebbra di tutto ciò con cui vuole ingozzarsi fino alla nausea, con strade e ambienti dove si butta nella sfrenata volgarità, pervasa da un continuo baccano che uccide ogni vita interiore, in continua ricerca di alleanze con le potenze militari ed economiche del pianeta, senza più spazio per Dio e senza più spazio per la prossimità, portando la gente a concentrarsi in metropoli o in condomini o in viali residenziali dove nessuno conosce più nessuno e dove si vive e si muore nella più inspiegabile indifferenza altrui.
In ogni città ci sono le due forme di urbanesimo, quella della luce e quella delle tenebre. Sta a noi scegliere quale delle due cittadinanze vogliamo avere e praticare.
La scienza gronda di bellezza e disvela sempre nuove pagine inedite dello splendore del cosmo e della vita. Nell’immensamente grande, nei minimi dettagli della realtà subatomica, nei meccanismi geniali della vita e dell’intelligenza, la scienza è una delle esperienze più potentemente estetiche dell’umanità. Anzi, la bellezza è perfino un criterio scientifico, nel senso che la storia delle scienze insegna che le spiegazioni più esatte dei fenomeni studiati si sono rivelate quelle più eleganti e più belle. Chiunque frequenti gli sviluppi della meccanica quantistica o della cosmologia lo sa.
Inoltre, un fatto sorprende, sopra tutti gli altri: l’unità logica delle leggi fisiche dell’universo. È l’armonia complessiva del cosmo a colpirci, l’armonia intelligibile per cui esso si comporta come un’orchestra in cui ogni musicista suona il proprio strumento in perfetta consonanza con tutti gli altri, con uno spartito che appare sempre più chiaro e con una direzione unitaria. La bellezza ha sempre a che fare con l’armonia, con una certa interezza consonante che è l’opposto della frammentazione e della dissonanza disordinata. L’universo ha questa caratteristica e sulla sua carta di identità merita di stare alla voce dei segni particolari, poiché è il connotato per niente ovvio del reale, la traccia che allude vistosamente all’autore di tutte le cose.
L’applicazione delle scienze alla vita, nei suoi vari ambiti e campi, cioè la tecnologia, ha bellezza ogni volta che ha la direzione del servire la vita e la giustizia, mentre è orrore quando prende la direzione esattamente contraria. La tecnologia dopotutto è un prolungamento delle nostre possibilità corporee: come tale, porta in sé le caratteristiche del protagonista, che è l’uomo, dunque tutti i segni della nostra grandezza e delle nostre contraddizioni. Può contribuire al progresso del mondo e può contribuire alla sua rovina. Ciò non dipende da essa, ma dalla nostra moralità.
L’arte parla in nome del lato spirituale della realtà e partendo dalla materia riesce a toccare l’interiorità della persona umana e a risvegliare domande e intuizioni sul senso della vita, della storia, del cosmo. Queste mostre sono come un dramma teatrale in cui la gente entra e da cui esce rivedendo se stessa e portandosi addosso per lungo tempo la sensazione di dover meditare ancora le suggestioni ricevute. Arte, musica, letteratura, teatro, cinema, come pure i luoghi del silenzio e i tempi della preghiera, non sono beni di lusso, né diversivi, intrattenimenti estetici o vezzi di alcuni appassionati: sono chiarimenti dell’umano. Il contatto con tutto ciò, nelle sue forme più smaglianti, ha il potere di introdurre le persone in un ordine spirituale più elevato di quello in cui ordinariamente viviamo o ci accomodiamo, dispersi tra mille attività e purtroppo impoveriti dalla barbarie delle comunicazioni rapide. Le elaborazioni profonde del pensiero, le arti e la vita religiosa sono le attività caratteristiche e indispensabili della particolare variante della specie homo cui apparteniamo, capace di sbalorditiva grandezza non per l’aggettivo erectus e nemmeno per l’aggettivo abilis, ma per l’aggettivo sapiens. Il cristianesimo consce bene la necessità di sostenere l’uomo nella sua insopprimibile tensione verso il vero, il bello e il bene e nella sua delicatissima percezione d’essere una domanda di infinito collocata in una impegnativa finitezza. Tra l’altro, quando l’uomo è culturalmente denutrito e dannatamente superficiale, questo mortifica anche la sua testimonianza di fede o lo porta ad assumere posizioni sbagliate animato da sincera fede ma confuso da ignoranza o da una falsa idea della realtà.
Gesù, al quale non manca la sensibilità e la finezza di saper cogliere e apprezzare la bellezza dei gigli del campo o del tempio di Erode, della freschezza dei bambini o di una festa genuina, ha portato in particolare tre bellezze. Egli è il più bello dei figli dell’uomo, come dice un salmo giustamente riferito a lui dalla fede della Chiesa: ecco la prima bellezza, Cristo mostra la bellezza di una vita umana perfetta, di un essere umano dal cuore grandioso, dalla sapienza impareggiabile, di virtù immensa, di libertà totale, di limpidezza senza infingimenti, di delicatezza commovente, di forza consolante. Gesù è un uomo senza ombre e senza meschinità, nel quale noi vediamo finalmente bene quanto è meravigliosa la nostra vita umana, quando decidiamo di viverla divinamente.
Gesù è il Signore, uno della Trinità, che non smette di essere Dio mentre si mette ad essere uomo. Nei suoi gesti e nelle sue parole, negli atti della sua vita terrena e nei momenti in cui ha rivelato gradualmente la sua identità e la sua gloria, rifulge in tutta la bellezza possibile Dio stesso, finalmente a noi accessibile in modo da essere veduto e toccato. E alla bellezza del vivere con Dio, del tornare a Lui e del lasciarlo regnare in noi Cristo è venuto a ricondurci.
Infine, Gesù rivela una terza bellezza, strana e vertiginosa: la bellezza della croce. Una tale bellezza era inimmaginabile per le estetiche di questo mondo, paradossale nel suo manifestarsi laddove ci pare di scorgere ciò da cui istintivamente vorremmo distogliere lo sguardo. Ma come Isaia aveva intravvisto quasi ottocento anni prima del Golgotha, il miracolo supremo dell’amore del Figlio di Dio che vince il mondo sulla croce e attira tutti a sé con il proprio sacrificio è di una bellezza da lasciarci ammutoliti. E la vediamo riverberarsi ogni volta che quaggiù assistiamo alla fatica benedetta di chi si consuma per amore di qualcun altro, a volte fino a consumarsi nel servizio: c’è forse qualcosa di più bello?
Le immagini sono tratte dal sito www.illegio.it per concessione di Don Alessio Geretti.