Roberta Foresta
Insegna religione cattolica ad Aosta nelle scuole secondarie di secondo grado.
Associo la pace alla ricchezza e alla complessità dello shalom biblico. Molto di più di un concetto, di uno status di assenza di conflitto: è, piuttosto, un orizzonte ampio, che parla di pienezza di vita, di integrità della creazione, di possibilità di futuro per le generazioni che verranno. Ha i tratti di un ventre gravido, è promessa di un altro giorno, è vita nuova da accogliere e custodire per poter vederla crescere, proprio come un figlio, una figlia. Lo shalom è dono divino da accogliere e insieme impegno umano che richiede tutta la creatività di cui siamo capaci. Lo possiamo tradurre nelle tre direttive che ormai da anni impegnano il movimento ecumenico: pace, giustizia e salvaguardia del creato. Accordare la propria vita a questo orizzonte di pace – che prova a dare forma al sogno di Dio di una vita buona – richiede un grande lavoro su se stessi, sui propri stili di vita, le proprie relazioni. Il cantiere della pace inizia nel proprio cuore, nelle scelte di ogni giorno, nel modo creativo di affrontare i conflitti che il quotidiano presenta. Non è il conflitto a fare problema: senza conflitto non ci sarebbe vita in relazione, il nodo sta nelle modalità di gestione dei conflitti. E su questo aspetto le Scritture ebraico-cristiane si presentano come una scuola di sapienza, in grado di tenere insieme la faticosa trama delle relazioni conflittuali col progetto di una loro soluzione creativa. Una sapienza che si rivolge ad un popolo. Una singola persona non ha la forza di fermare una guerra; tuttavia, può determinare un clima nelle sue relazioni sociali, partendo proprio da quelle intime, familiari. Con il nostro malumore possiamo tenere in ostaggio le persone che amiamo, possiamo trasformare un pasto familiare in un momento di festa come anche in un inferno. Chi non conosce l’aria pesante, tesa, in famiglia, il silenzio assordante di una discussione esasperata? Occorre partire da qui, nel quotidiano, per costruire la pace, vigilando sul clima che determiniamo. Devo cominciare a chiedermi se l’aria è respirabile o se la tensione la rende troppo pesante. Per fare la pace bisogna imparare a litigare bene, a riconoscere il dissenso, i diversi punti di vista. Personalmente, affronto così i conflitti che il quotidiano mi presenta, sia in famiglia che nelle relazioni pastorali: come sfide per ricercare soluzioni creative che rendano l’aria emotiva, se non gradevole, almeno respirabile.
La storia delle chiese battiste, oltre che dall’intolleranza religiosa che ha causato, ai suoi albori, persecuzioni e sterminio di intere comunità, è stata segnata dalla schiavitù e dalla segregazione razziale. È difficile separare la storia del movimento per i diritti civili afroamericani dalle comunità battiste. Non è un caso che i leaders di questo movimento siano stati soprattutto pastori, ad iniziare da Martin Luther King. La ricerca di libertà ha fatto sì che intere comunità di fede si riconoscessero nella vicenda di liberazione del popolo ebraico dalle catene d’Egitto. L’imperativo dell’esodo – nei suoi tre movimenti: uscita da una condizione di schiavitù, cammino nel deserto ed entrata nella terra promessa – ha caratterizzato la costante riscrittura creativa di questo evento fondatore della fede biblica. I gospels ne sono la testimonianza artistica e liturgica più creativa. Sono inni che cantano tutti e tre i movimenti del processo di liberazione: dal grido al canto di lode, il gospel accoglie la voce collettiva di un popolo in cammino, come quella del singolo orante. La liberazione integrale – lo shalom – politica e spirituale, del singolo come della comunità, diventa unica voce nel canto comunitario.
Sceglierei parole che non umiliano i contendenti, parole che non dividono il mondo in buoni e cattivi, vincitori e vinti. Il dualismo, che semplifica la realtà riducendola a questione di tifoserie, è già il linguaggio della guerra. Per convincere l’aggressore a deporre le armi devo richiamarlo alla sua umanità, non accusarlo di essere un mostro. Gli afroamericani che marciavano per il riconoscimento dei loro diritti civili cantando “we shall overcome, neri e bianchi insieme…”; erano fermi nel denunciare un sistema ingiusto, senza per questo denigrare i cittadini bianchi. Questa guerra, tra le molte vittime, sta criminalizzando un intero popolo, un’intera cultura. I musicisti russi che non possono esibirsi nei teatri occidentali sono l’immagine di questa criminalizzazione che credo non aiuti a costruire la pace. Anche all’interno del popolo russo ci sono disertori, oppositori, voci critiche, soggetti di azioni di resistenza e disubbidienza civile che vanno incoraggiati. È proprio la voce dell’arte, con la poesia, i canti e la narrazione, che può aiutarci ad uscire dal linguaggio della propaganda e della retorica bellica. Sceglierei, dunque, parole non gridate, canti che anelano alla riconciliazione o al pentimento come Amazing grace, insieme anche ad alcuni dei tanti salmi musicati dal movimento del risveglio.
Nutro la speranza che dai diversi pensieri teologici possano scaturire percorsi di vita buona, nella misura in cui le teologie scaturiscono dall’ascolto di quel mistero del mondo che chiamiamo Dio, della sua Parola e della realtà in cui questa risuona. Le teologie che si mettono in ascolto del Dio biblico sono rimandate alla storia, a quel Dio che ode il grido di un popolo oppresso e desidera liberarlo. Proprio come avviene nella Scritture, tra i diversi suoi libri, è importante che le diverse teologie siano in dialogo tra di loro, che non assolutizzino il proprio punto di vista ma sappiano abbracciare sguardi più ampi, mettendo in conto un ascolto reciproco, più forte delle dispute accademiche e delle difese d’ufficio. Il terreno per accogliere il seme della pace lo si prepara così, non assolutizzando la propria prospettiva e mettendosi in dialogo.
Nelle Scritture, le donne occupano ruoli marginali rispetto al potere maschile. Il loro canto, spesso, mette in scena un mondo all’incontrario, visto da un’altra prospettiva. Le donne cantano un mondo sottosopra dove i potenti vengono abbassati e i piccoli (e le piccole) innalzati. Il loro canto evoca la forza dell’immaginazione, apre al futuro perchè osa questionare l’ordine esistente del mondo che, spesso, coincide con l’ordine dei prepotenti. Maria, la piccola di Nazaret, osa credere che, nonostante la sua condizione di miseria, la sua vita non sia insignificante per Dio. Cantano le donne – come in uno dei testi più antichi dell’intera Scrittura – la forza di un Dio che ha disarmato i potenti gettando nel mare ogni strumento bellico. Cantano guidate dalla profetessa Miriam, quelle donne che, insieme agli uomini, camminano verso la libertà. La storia maschile si dimenticherà che anche loro hanno marciato, che anche per loro il mare si è diviso; sarà la traccia di questo canto a tenere viva la memoria sovversiva di una storia di libertà ancora tutta da realizzare per le donne. Il canto delle donne ha il potere dell’immaginazione e del sogno. Credo che M. Luther King, quando ha pronunciato il suo discorso più celebre, “I have a dream”, avesse in mente anche il canto delle tante eroine bibliche che hanno osato immaginare un futuro diverso. Per chi cammina verso la libertà, il canto è come un’ostetrica che aiuta il futuro a nascere accompagnando con i suoi respiri e le sue ripetizioni il travaglio del mondo nuovo che viene.
La mia tradizione ecclesiale si riconosce nell’alveo della Riforma, particolarmente sensibile a questo rischio. La Riforma ha riproposto la questione biblica dell’idolatria come caso serio della fede cristiana. Lo ha fatto in modo radicale, fino a problematizzare le arte visive, che pure sono importanti, ma più a rischio di catturare il divino, rispetto alla musica. Non è questione di furia iconoclasta o di insensibilità estetica: il nodo è teologico. E in quanto tale abbraccia tutte le modalità del nostro rapportarci a Dio: dalle raffigurazioni artistiche ai concetti teologici. Come diceva Calvino, “il cuore umano è una fucina di idoli”. Ma per limitarci alla questione dell’arte e fuoriuscendo dai giudizi stereotipati promossi polemicamente dalle apologetiche confessionali, mi sentirei di dire che quando l’arte, invece di alludere, presume, quando invece di far intuire la forma la definisce e la fissa, quando l’arte non diventa più educazione dei sensi, ma si pone essa stessa come senso unico, allora è a serio rischio di idolatria. Un rischio da cui non è esente nessuna chiesa. Ma laddove sorge il pericolo si profila anche la salvezza. L’arte diviene alleata della teologia proponendosi come sapienza che educa la sensibilità, fino ad aprirla all’eccedenza del divino. Le diverse espressioni artistiche possono essere strade che portano a percepire la vera presenza del Dio-con-noi, senza mai dimenticare la sempre maggior grandezza di Dio rispetto alle nostre rappresentazioni. La sfida posta dalla Riforma consiste nel ritornare alla forma dell’evangelo. È, dunque, sulla questione della forma – dare forma allo shalom – oltreché sul sottrarsi alla trappola della presunzione, che arte e teologia condividono una comune battaglia.
Come chiese, conosciamo sulla nostra pelle le ferite di guerra, le scomuniche reciproche, la demonizzazione e la negazione dell’altro. Ma conosciamo anche la forza della riconciliazione. L’ecumenismo ha dato vita ad un vero e proprio cambio di paradigma nelle relazioni intra-cristiane, denunciando lo scandalo della divisione e annunciando, di nuovo, l’evangelo della riconciliazione. L’ecumenismo è il dono che Dio ha fatto alle nostre chiese, che ci ha aiutato ad uscire dal deserto dell’inimicizia e ci ha introdotto nel giardino di una ritrovata comunione. Ora, però, bisogna lavorare questo giardino, non solo custodendolo ma anche coltivandolo creativamente. Abbiamo abbandonato l’ideale non biblico di un’uniformità che fa del diverso da me un eretico e siamo arrivati a riconoscerci nell’orizzonte della comunione nella differenza. Ma ora le differenze domandano di essere affrontate, richiedono ascolto, mediazioni. Altrimenti, ci sarà chi se ne appropria indebitamente, per fini politici, per battaglie identitarie. Proprio come sta drammaticamente accadendo in questo frangente. Non dobbiamo aver paura dei conflitti, da cui non sono esenti le chiese. Piuttosto, sulla spinta propulsiva del movimento ecumenico, dovremmo fare delle nostre chiese dei laboratori di soluzione creativa e nonviolenta dei conflitti. Non è quanto richiede Gesù ai suoi discepoli nel suo discorso programmatico sul monte di Galilea? Non banalizziamo l’invito a porgere l’altra guancia. Se ci limitiamo a reagire, allora la spirale dell’inimicizia è senza fine e noi siamo succubi dell’ordine del giorno stabilito dal nemico.
Solo un’azione creativa, che si sottrae alla reazione mimetica, uguale e contraria, spiazzando il proprio interlocutore e mostrandogli un’altra possibilità, rende possibile la differenza evangelica nella gestione delle relazioni tra soggetti diversi. L’ecumenismo non è un esercizio diplomatico per addetti ai lavori; è un modo di vivere la fede che si fa carico dell’altro, che riconosce la pluralità costitutiva della fede cristiana – attestata nelle Scritture stesse: una biblioteca di tanti libri, in dialogo dialettico tra loro. E che si attrezza a vivere questa fede imparando a disinnescare le derive escludenti e persino violente del conflitto tra i diversi punti di vista; e proponendo soluzioni creative, che nascono dall’ascolto attento e paziente dell’altro. Come chiese, dopo secoli di inimicizie, stiamo maturando una sapienza relazionale che, ora, partendo da noi ma per poi andare oltre i territori ecclesiali, occorre spendere concretamente nei diversi scenari storici che sono la pasta in cui mischiare il lievito dell’evangelo. Il provare a farlo insieme, come chiese diverse, non più preoccupate di affermare il proprio ruolo, di difendere il proprio interesse, sarebbe un contributo non indifferente alla causa della pace, vero e proprio segno di quel Regno di Dio che osiamo annunciare in mezzo a noi.