Vladimir Zelinsky
La guerra russo-ucraina, scoppiata il 24 febbraio, ha risvegliato tante sfide e crisi – nascoste, marginalizzate, ma non guarite – presenti da cento anni all’interno della Chiesa Russa. Si tratta del problema, sempre doloroso, del rapporto tra lo Stato e la Chiesa – il cui atteggiamento rispetto alla guerra attuale è soltanto un episodio particolare e rivelatore. Se non andiamo in un passato troppo lontano e prendiamo solo il secolo XX, la Chiesa ha ottenuto la propria libertà solo con la rivoluzione del febbraio 1917 ed il segno di questa libertà è stato il Concilio di Mosca, convocato in ottobre, proprio durante i giorni della rivoluzione bolscevica. Il Concilio è tornato al sistema patriarcale (prima il governo della Chiesa era sinodale) con l’elezione del patriarca Tikhon Bellavin. La situazione era paradossale: la Chiesa, finalmente libera dalla mano zarista, favorevole ma pesante, era entrata in una società ove qualsiasi libertà piano piano sarebbe stata soffocata. Naturalmente, la Chiesa non avrebbe potuto rimanere un’isola autonoma in uno Stato dittatoriale con un’ideologia atea.Il patriarca Tikhon morì nel 1925. Dopo la sua morte la Chiesa ha ufficialmente annunciato la propria resa incondizionata al sistema statale deicida, con la tristemente famosa Dichiarazione del Metropolita Sergio Stragorodskij del 1927. Lui l’ha firmata (ma non è sicuro che l’abbia scritta di persona), dopo l’arresto di tutti candidati al trono patriarcale e dopo tre brevi periodi di carcere egli stesso, nella speranza di salvare la Chiesa dalla distruzione totale. In questo documento il metropolita, in nome della Chiesa Ortodossa Russa, ha giurato fedeltà incondizionata al potere sovietico. Dopo la dichiarazione centinaia di parrocchie si sono staccate da questa fedeltà coatta – che ha ricevuto il nome di “serghianesimo”. Negli anni ‘30 queste ultime sono state eliminate tutte, durante la persecuzione staliniana, insieme alle migliaia di parrocchie dette “serghiane” e leali al potere sovietico.
Questa ferita non si è mai cicatrizzata. Senza parlare della Chiesa Russa all’Estero, anche all’interno della stessa Chiesa di Mosca, non sono mai sparite le correnti “dissidenti” che denunciavano ogni tanto la collaborazione troppo stretta della Chiesa con lo Stato ateo. Il problema non è scomparso con il crollo dell’Unione Sovietica. La collaborazione andava avanti con lo Stato diventato molto benevole con la Chiesa Ortodossa ufficiale (“ufficiale” perché al margine di essa è sorto un gruppetto di Chiese non ufficiali, cosiddette non-canoniche verso cui, nel mondo globale cristiano, nessuno mostrava attenzione). I patriarchi Alessio e Kirill nonostante i loro legami con i servizi segreti sovietici (cosa subito dimenticata), rimanevamo persone stimatissime. L’invasione in Ucraina, però, che ha scosso il mondo con le sue atrocità ed il sostegno aperto a questa guerra offerto dal patriarca Kirill, ha risvegliato il vulcano dormiente della critica, che è andata oltre la persona del patriarca. Il pieno appoggio allo Stato da parte della Chiesa, detta “serghiana”, criticato di nascosto ma anche pubblicamente al tempo sovietico, è diventato insopportabile oggi nei tempi della guerra.
Nella Tradizione ortodossa la guerra può essere giustificata solo come guerra di difesa in caso di attacco da parte di una potenza straniera. Così affermavano i Padri della Chiesa. La stessa cosa ribadisce anche La Dottrina Sociale della Chiesa Russa elaborata sotto la guida dello stesso Kirill, quando era ancora metropolita di Smolensk. Le buone intenzioni sono una cosa, ma in pratica qualsiasi guerra può presentarsi come difensiva e nobile. La guerra contro l’Ucraina si è vestita dei panni della lotta al nazismo ucraino: un pretesto puramente immaginario, tenendo conto che il presidente Zelensky, ebreo di origine, è stato eletto con il 73% dei voti e che il partito che può essere chiamato nazista alle elezioni del parlamento (Rada) ha preso poco più del 2%. Quale guerra sia giusta e quale no, lo decide colui che ordina di fare la guerra ed il patriarca segue la sua logica. Questa volta, però, tanti e tanti fedeli chierici hanno detto di no. Il papa Francesco ha rivestito questo “no” in una formula che in Russia è già divenuta proverbiale: “Il patriarca non può trasformarsi nel chierichetto di Putin”.
Nella metropolia ucraina della Chiesa di Mosca un terzo delle diocesi hanno ufficialmente rinunciato a commemorare liturgicamente il loro patriarca. Di più, 300 sacerdoti circa dello stesso Patriarcato, in una lettera aperta, hanno chiesto la convocazione del tribunale ecclesiastico per fare il processo al patriarca. Lo stesso metropolita Onufriy di Kiev, prima della guerra fedelissimo di Kirill, adesso cerca di sottolineare la sua distanza da lui. Una domanda s’impone, però: nei tempi beati e nei tempi cattivi per la Chiesa il rapporto tra il suo capo ed il sovrano autoritario era davvero diverso? Il rapporto dei patriarchi bizantini con il basileus, il rapporto del Santo Sinodo con lo zar a partire da Pietro il Grande (1672-1725), il rapporto del clero con il regime sovietico? Forse, bisogna parlare non del comportamento di questo patriarca o di un altro, ma di una tradizione (con la t minuscola) come tale? Essa ha un suo fondamento teologico e anche spirituale: si appoggia sulla convinzione che qualsiasi potere, anche quello laico e ostile alla fede sia un’espressione del potere divino. In questa prospettiva la Chiesa segue il modello medievale, che non vede la Chiesa come un soggetto indipendente dalla storia e dalla società in cui si trova. La Chiesa vede se stessa come spazio dell’eternità sulla terra senza preoccuparsi del regime che domina questo spazio. La Chiesa nazionale ha sempre fatto parte del popolo e, dunque, dello Stato nazionale, qualunque esso sia.
Adesso questa tendenza verso l’etnofiletismo nella Chiesa Russa e nell’Ortodossia in generale, tante volte negato in teoria e tante volte confermato in realtà, è arrivata al suo punto estremo, contraddicendo i fondamenti dell’Ortodossia stessa, la quale si pensa come confessione universale. La Chiesa Russa durante il patriarcato di Kirill ha elaborato il concetto del cosiddetto “russkij mir” (mondo russo), che è servito come base ideologico-ecclesiale anche alla guerra. La dottrina del “Russkij mir” proclama che tre popoli slavi (russi, ucraini e bielorussi, che nel passato appartenevano all’impero zarista e, in seguito, sovietico) siano un popolo solo in senso culturale e religioso, intendendo così anche il senso politico. Di più, questa dottrina toglie agli ucraini la propria identità nazionale che essi difendono con tutte le forze. Dopo la convivenza con i russi a partire dal 1654, quando l’esercito ucraino (i cosacchi) scappando dal dominio polacco, per niente dolce per loro, si è unito allo zar russo e dopo, nel periodo sovietico, con la terribile esperienza della carestia imposta da Stalin, ed infine dopo 30 anni di esistenza come paese indipendente, la maggioranza dei cittadini ucraini non vuole avere niente in comune con la Russia. Nella loro visione i veri Russi storici sono loro, battezzati a Kiev nel 988, nella culla del cristianesimo russo; i cittadini della Federazione Russa sono soltanto dei moscoviti. Questo nazionalismo di un Paese nel quale si risveglia la coscienza nazionale anche in senso ecclesiale, è considerato in Russia come nazismo aggressivo che minaccia anche in modo militare. Alla minaccia un po’ inventata il Cremlino ha risposto con la guerra vera.
Parlando dell’Ortodossia in generale e della sua malattia, l’etnofiletismo, si vede che esso si è manifestato soprattutto negli ultimi cento anni, con la massiccia emigrazione all’inizio del secolo XX e che si estende in modo preoccupante anche nei nostri giorni. Tutte queste ondate di profughi dai diversi paesi hanno creato le proprie chiese, che in pratica non si conoscono. Sul territorio italiano, il paese più “ortodosso” in Europa Occidentale, si possono trovare almeno otto Chiese autocefale (rumena, russa, greca, serba, bulgara, georgiana, albanese, polacca). Tutti questi patriarcati sono “canonici” (ve ne sono anche altri “non canonici”), ma secondo gli stessi canoni su un territorio, in un paese, dovrebbe esistere solo una Chiesa; nel nostro caso la Chiesa Ortodossa Italiana (oppure dell’Europa Occidentale, dove si possono contare 10 milioni d’ortodossi, per la maggior parte rumeni). Quasi tutti i teologi sono d’accordo sul fatto che l’Ortodossia fuori dei confini nazionale debba sorgere come Chiesa unica. Tutti possono essere d’accordo in linea di principio, ma nessuno lo vuole in pratica. Ogni Chiesa giustifica questa diversità con la preoccupazione per la cura spirituale degli emigranti o dei profughi. Ma in Italia sta crescendo già la seconda generazione di coloro che sono nati qui, con la madre lingua italiana; senza parlare della Francia, della Germania, degli Stati Uniti dove vive già la quarta generazione dei profughi e che spesso non conosce la lingua dei loro bisnonni. Tutti questi vanno in chiese russe, greche, rumene… e non sbagliano mai la strada…
Se un giorno l’Ortodossia sarà capace di superare questa divisione tra le nazioni – a casa propria come dappertutto – essa diventerebbe una vera sorgente di pace e di dialogo ecumenico. E questo vuol dire: senza la guerra tra i popoli e tra le religioni.