1. La speranza di Israele
Il libro del profeta Geremia, nella sezione che la Bibbia di Gerusalemme definisce come «oracoli pronunziati soprattutto al tempo di Ioakim», presenta due definizioni di Dio come speranza di Israele, (Ger 14,8;17,13).
Gli oracoli geremiani, in questa sezione, si aprono con la condanna della fiducia del popolo nella protezione che il Signore assicura della città, abitando nel Tempio, sperimentata al tempo della mancata invasione di Sennacherib, re d’Assiria.
Per questa presunzione di sicurezza, il Tempio diventa un covo di ladri, che lì si recano per placare con sacrifici l’ira del Signore contro i loro misfatti, i quali ultimi continuano ad essere perpetrati fuori dal recinto sacro. Si punta qui il dito contro il peccato di menzogna, šeqer, che consiste non solo nel trasgredire la legge, ma – cosa ben più grave e insidiosa – nel pervertirla, come evidenzia Ger 8,8:
Contro questo peccato, che si rivela essere un male incurabile (Ger 8,21-23), non c’è intercessione in vista di chiedere la guarigione: Dio non ascolta la supplica del popolo, invita il profeta a non pregare per esso e pronuncia la sentenza di condanna (Ger 14,11-12; 15,1-3).
Qui si collocano le due invocazioni a Dio-speranza:
Ger 17,13: «O speranza di Israele, YHWH».
In entrambi i passi, il termine tradotto con l’italiano “speranza” è miqwēh, parola che indica anzitutto il luogo di raccolta delle acque, come in Gen 1,10, dove ricorre l’espressione «il luogo di raccolta (miqwēh) delle acque», ed ancora in Es 7,19, in cui si parla del luogo di raccolta delle acque degli egiziani, e Lv 11,36, dove si dichiara puro il luogo di raccolta delle acque nonostante possano eventualmente cadere in esso pezzi di cadavere di alcuni animali che strisciano.
Le invocazioni di cui sopra si inseriscono, in effetti, in un contesto nel quale si parla di siccità, come espressamente annunciato all’inizio del cap. 14, o si contrappongono fertilità ad aridità, come nella pericope di matrice sapienziale di 17,5-11, la prima segno del giusto che confida (in ebraico il verbo è bṭḥ) nel Signore, la seconda espressione di quanti dalla sua fiducia (si ripete il verbo bṭḥ) si allontanano. La siccità e l’aridità causano la morte, poiché senza acqua non può esserci vita, si legge in 14,2:
Lo stesso dicasi per l’uomo che non confida in Dio descritto in 17,5-6:
Egli sarà come un tamerisco nella steppa; quando viene il bene non lo vede. Dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere».
Dio come miqwēh di Israele, la sua speranza, è colui allora che dà la vita, perché assicura l’elemento che della vita è il fondamento, l’acqua. In quest’acqua, che Dio elargisce, Israele vive. L’espressione ebraica miqwēh Yiśrā’ēl, allo stato costrutto, può intendersi, infatti, come “luogo di raccolta di Israele”.
A ragione, pertanto, il profeta, sempre al v. 13 del cap. 17, chiama Dio «sorgente (in ebraico meqôr) di acqua viva», espressione già adoperata al cap. 2, del quale il cap. 17 è pendant. Si legge, infatti, in 2,13:
La speranza, come si ricava dai testi sopra citati, è dunque riconoscere Dio come fonte della vita e in lui confidare; essere senza speranza significa aver perso la fiducia in Lui, il che equivale a condannarsi all’aridità e, conseguentemente, alla morte, giacché altre realtà non possono donare la vita, sono cisterne screpolate.
2. Prigionieri della speranza
Dalla radice qwh deriva il termine più noto in ebraico per indicare la speranza, tiqwah, che in realtà significa originariamente “corda” o sta ad indicare qualcosa di teso, come appare da Gs 2,18.21:
«Essa allora rispose: “Sia così secondo le vostre parole”. Poi li congedò e quelli se ne andarono. Essa legò la cordicella scarlatta alla finestra» (v. 21).
In realtà, non si comprende perché appaia il termine tiqwah dopo che al v. 15 è stato usato il lessema ḥeḅel per indicare sempre la corda. Questa corda è legata alla finestra da Raḥab, colei che accoglie gli esploratori a Gerico, facilitando così la conquista della città da parte del popolo di Israele. La corda sarà il segno al momento dell’assedio e Raḥab e tutta la sua famiglia, che – non si dimentichi – sono cittadini di Gerico, potranno salvarsi soltanto se la corda sarà tesa alla finestra di casa sua. Raḥab e la sua famiglia sono, pertanto, “prigionieri della corda”, espressione utilizzata da Zc 9,12, tradotta normalmente e come è corretto “prigionieri della speranza”. Nel libro del profeta Zaccaria è Israele a essere liberato dall’assedio dei nemici, grazie all’intervento di un re giusto, vittorioso e umile (vv. 9-10).
La speranza, allora, come corda che rende prigionieri. Mentre fuori tutto brucia e si consuma e la morte dilaga, il prigioniero della speranza sta in casa, come Raḥab e la sua famiglia, e attende, tra l’incertezza e la paura, causate da ciò che accade all’intorno, e la fiducia che il Salvatore, nel quale si confida, sarà fedele all’alleanza ed alla promessa e darà, con la salvezza, la vita, come promette Zc 9,11-12:
3. Vedere le voci
Il racconto biblico, pur conservando espressamente leggi che proibiscono il farsi un’immagine della divinità, tuttavia invita a vedere le parole. In Es 20,18 è scritto circa la teofania del Sinai:
Nel passo in questione, il vocabolo qôlōt, plurale di qôl, è tradotto normalmente con il termine “tuoni” a causa della presenza nel versetto medesimo della parola lēpîdim, “lampi”, e tale significato conserva in tutta la Scrittura ebraica nei passi nei quali ricorre. Tuttavia, Childs, analizzando Es 19, sembra ammettere per qôl il significato di “tuono” solo al v. 16, in linea con la tradizione salmica (cfr. Sal 18 [17],14; 29 [28],3); il v. 19 dello stesso capitolo, dove si racconta come Dio risponda a Mosè nella o con la voce (ḅeqôl), è anticipato dal dire di Dio al v. 9: «perché ascolti (yišma‘) il popolo nel mio parlare (bedabberî)».
Il v. 19 presenta il verbo dibber riferito non a Dio, ma a Mosè: per Dio si racconta come egli rispondesse “nella” o “con la voce”, espressione dal significato incerto sia che lo si intenda come un parlare intellegibile, il che non è specificato dal testo, sia che lo si traduca come “tuono”, il che non rientra nella narrazione, la quale non descrive agenti atmosferici. Lo zeugma “vedere le voci” di Es 20,18 contrasta con la distinzione deuteronomica tra udito e vista; allo stesso tempo esso è contenuto in una fonte che si ritiene antica e, pertanto, autorevole. Per risolvere il problema rappresentato da un vedere ciò che in realtà è scritto, il compilatore di Dt 4, che tenta di conciliare udito e visione, dispone di un testo preesilico, quello di Dt 5,1-5, che costituisce l’introduzione preesilica al Decalogo deuteronomico (vv. 6-21):
Il parlare faccia a faccia di Dio con il popolo non potrebbe indicare la visione di Dio, che è causa di morte secondo il dettato di Es 33,20: «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». L’inserzione da parte dell’autore di Dt 4 in Dt 5,1-5 del v. 5, che descrive la mediazione di Mosè bā‘ēt hahiw’, è volta a indicare come l’ascolto delle leggi e delle norme che Mosè “in quel momento” sta insegnando al popolo equivalga per quest’ultimo a un vederle allo stesso modo in cui si vedono le azioni di Dio nella storia. In tal modo, non soltanto dall’ascoltare, ma anche dal vedere nasce la fede: vedere è credere.
Lo stesso von Rad, sulla scia dell’esegesi condotta da M. Noth, ritiene che la proibizione delle immagini, contenuta in Dt 4, 15-20.23-24, riposi sull’assunto tradizionale di 4,12 come suo sviluppo, lì dove l’autore, per descrivere l’evento del Sinai, conferisce al termine “voce” non un significato desunto dal mondo fisico (il tuono), ma quello di parole (deḅārîm), per indicare una voce che parla e che è udita in modo tale come se fosse vista, alla stessa stregua della visione. E questo per il tramite di Mosè. La tradizione viene, pertanto, corretta nella tensione che essa presenta tra ascolto e visione; allo stesso tempo, da essa si genera un nuovo assunto che, inserendosi in essa come suo prosieguo, se ne attribuisce lo stesso potere normativo vincolante. Ciò che attrae lo scrittore Gabriel Mirò Ferrer è, per l’appunto, la forza autogenerativa del racconto biblico.
4. Il corpo della speranza
Diversi passi biblici (1Re 19,12c; Is 40,3.6; Pr 8,22-31; Sir 24; Mc 1,11: Ap 1,12-13) registrano l’impossibilità per il corpo di manifestare la voce, la quale permane così nello stato ossimorico di essere vista in quanto tale. Anche il corpo fisico delle pagine bibliche è destinato ad una visione: ciò che è scritto e, pertanto, si legge, contemporaneamente lo si ascolta. Ma in tal modo si vede la voce. Non a caso, la tradizione rabbinica impone la lettura a voce alta della Scrittura e, se possibile, non da soli. Se la voce si affanna a trovare un corpo che tuttavia non rende la pienezza del suo dire e se il testo scritto è esso stesso un tramite di visione uditiva, ciò accade, in ultima analisi, come avvertono i testi di Esodo e di Deuteronomio presi in esame, per sfuggire la tentazione dell’idolatria, che vuol dare a Dio una temûnāh, un’immagine.
Il racconto biblico pone dinanzi agli occhi del lettore diverse realtà o attraverso descrizioni minuziose, quali ad es. le dimensioni del Tempio e del suo arredo (cfr. Es 25-31; vd. anche Ez 40-45) secondo il modello che Mosè vede (25,9.40; 26,30; 27,8), o attraverso visioni apocalittiche di esseri celesti o di animali straordinari (cfr. Dn 7-8; Zc 1-6; l’intero libro dell’Apocalisse), oppure attraverso dettagli che costituiscono un’ellissi narrativa, come nel caso della tunica di Giuseppe in Gen 37,3 o quella di Gesù in Gv 19,23, della brocca abbandonata della Samaritana in Gv 4,28, del mantello di sacco di Rizpa in 2Sam 21,10. Il corpo della voce, in tal caso, è dato dall’assenza del corpo stesso nel momento in cui le si concede di averlo. Poiché di essa non è possibile farsi una temûnāh, essa permane, vista e udita, solo in quel «noli me tangere» (Gv 20,17 secondo la Vg).
Se la speranza segue alla fede, che si configura come stabilità in colui alla cui parola ci si abbandona senza riserve, ed alla carità, intesa come servizio ai fratelli nel mondo (cfr. Col 1,1-6), l’arte ne diviene, pertanto, l’espressione tutta umana che anela ad un oltre: nel segno, essa esprime il desiderio di un al-di-là mentre abita pienamente l’al-di-qua, il quale ultimo può configurarsi come una prigione (il caso di Raḥab) che sola, tuttavia, può riparare dal male e porre in attesa.