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Secondo Bongiovanni

A Lascaux le “mani” emergono come fiori nell’oscurità della roccia: simbolo singolare di ciò che l’arte opera nell’uomo. Una grande domanda e un’inaudita sorpresa, quasi a suggello di un’umanità sempre insorgente. I nostri antenati sono arrivati fin qui e si sono arresi: consegnandosi/ci alla memoria di mani che custodiscono senza trattenere, dischiudono senza rinchiudere, come l’abbraccio di chi ama.
Le mani di Lascaux serbano la soglia tra ciò che siamo stati e ciò che siamo divenuti: tra noi e l’Altro, l’angoscia e lo stupore dell’esserci. In esse, per la prima volta l’uomo è capace di riconoscersi e di “dirsi” nel luogo originario della parola umana, nel gesto umile e profondo di una risposta che attraversa l’intera storia, giungendo fino a noi: “Eccomi! Ci sono. Mi hai chiamato?”.

Forse l’arte è questo invito, tenero e saldo, al con-venire, all’incontro, oltre ogni oscurità e paura. Essa sorge sempre improvvisa, non prevista, gratuita: celando l’appello inesauribile della Vita – come nel gesto della mano, non possiamo toccarla senza esserne toccati, né ricevere senza consegnarci.

Sono le mani di Dio nel tempo eterno della Creazione o quelle della madre nella cura del nuovo nato: ci ripresentano all’istante in cui veniamo al mondo e il mondo nasce con noi, nello stupore del riconoscerci presenti, insieme, nella vita. Non possiamo misurare la profondità insondabile delle mani che ci accolgono nella nascita, ci abbracciano e ci contengono. Sfondo sempre vivo in tutto ciò che siamo.

L’arte precede le nostre parole e abita il luogo-tempo originario in cui sorge la parola: è testimonianza insondabile di grazia e di gratuità per l’umanità dell’uomo. Non corrispondiamo all’arte utilizzandola come mezzo per i nostri fini. L’arte soggiorna nel Da-dove vengono le parole. È questa soglia che salvaguarda in noi, affacciandoci alla dimensione a partire da cui ogni cosa appare. Un silenzio disarmato, libero dalla paura di perdersi, lascia risuonare la luce da cui proviene.

Parlare dell’arte significa rivolgersi a ciò che essa compie in noi. L’arte è ciò che essa attiva e mette in opera nel dialogo che instaura con noi, in noi e per noi: in nostro favore. Non siamo noi a “dire” l’arte, ma è l’arte a dirci, aprendo la possibilità di un altro modo di essere al mondo. Non siamo noi a produrre arte, ma è l’arte a generarci all’umanità. Non è l’uomo a “fare” arte, ma è l’arte a con-tenere l’uomo: lo tiene-insieme, impedendogli di disperdersi.

La dismisura dell’arte è la gratuità e la Grazia del Lasciar-essere: nessuna necessità. Essa è un evento sempre unico: accade “senza perché” (ohne Warum), nella dimensione dell’incalcolabile, dell’indeducibile, del non-previsto: e ci immerge nella Sorgente della Vita. L’opera dell’arte ci rende contemporanei al Principio: non rappresenta il mondo, ma ci ripresenta al suo sorgere originario. Non testimonia se stessa, ma il mondo umano a cui, senza difese, si consegna.

L’opera dell’arte è restituirci all’umanità di cui è memoria viva: essa custodisce la Presenza di noi a noi stessi: Custodia fedele dell’umano. Non [si] spiega, non afferma, non proclama, non denuncia, non prescrive e non dichiara nulla. Non dimostra: soltanto mostra (Wittgenstein): mostra l’essenziale, nell’attesa della mano che soccorre.