Non resterebbe che dar voce alla soggettiva osservazione della realtà se non rischiassimo di aggiungere un’opinione alle tante altre, oppure – ed è la strada che vorremmo percorrere – bussare alle porte del mondo artistico e della letteratura in particolare. Perché mai – qualcuno potrebbe dire – proprio alle porte dell’artificio e dell’immaginario? Forse – così pensiamo – perché le forme artistiche, rispetto ad altri ambiti culturali, conservano il privilegio di incidere in piena libertà come correttivo critico nei confronti di un mondo tradizionale e stereotipato.
In altre parole l’arte, impegnata com’è nel racconto della realtà concreta in cui l’uomo è immerso e nella suggestiva tensione verso possibilità conoscitive alternative, non ridimensiona la ricerca di senso collocandola nelle sfere dell’astratto, ma si offre all’attenzione del lettore come possibile completamento della lettura pur sempre parziale – in quanto umana – del mondo fisico.
Per quanto concerne la letteratura, chi potrà mai dimenticare, infatti, certe figure sacerdotali consegnateci dalla tradizione poetica e ancora vive nella nostra memoria storica oltre i confini del tempo? Sono tipologie desuete – qualcuno obietterà – ma non tanto da essere considerate residui museificati in polverose biblioteche, se non altro per l’incessante rielaborazione che del passato opera una civiltà progredita. Intendiamo dire, cioè, che nella letteratura esistono caratteri universali che, per quanto generati da un preciso ambiente e da una data epoca, sfidano le categorie spazio-temporali e si ripropongono nella loro attuale e, a volte, drammatica condizione. Ne sono valida testimonianza i preti manzoniani, dignitosi strumenti di Dio, come Fra’ Cristoforo o il Cardinale Borromeo, o gretti e vigliacchi come don Abbondio; oppure i personaggi verghiani, come il canonico Lupi, ignoranti, intriganti e privi di vera laboriosità cristiana; o ancora quelle sagome pirandelliane, secondo cui i sacerdoti vanno catalogati tra quella “gente che ha rinunciato ai piaceri della terra per averne il doppio”.
Già negli anni Cinquanta A. Blanchet vedeva il prete come una bestia curiosa e circondata dal mistero, e in quanto tale il gesuita francese si proponeva nei suoi studi di rivelare all’umanità il segreto del suo destino, ma col passare degli anni il segreto non si è rivelato, anzi si è infittito. Gli esempi letterari in questo cinquantennio, e andando avanti negli anni, si sono sviluppati tra una galleria di tipi, in cui all’eroica coerenza tra parola e azione veniva affiancato il monotono mestiere o più filosoficamente il male di vivere. Tale condizione è possibile riscontrare negli interessanti Profili in controluce di G. Colombo, dedicati ad autori quali Manzoni, Verga, Fogazzaro, Deledda, Pirandello e altri.
Riconosciamo, cioè, un filo conduttore che la letteratura, specchio della vita, mantiene nelle sue tradizionali espressioni, come le diverse facce del prisma si compongono in un’unica e attendibile figura, che così crediamo di sintetizzare: se il prete predica dogmi, la società non lo tiene in grande considerazione; se impone divieti morali, la società lo detesta; ma se si mostra limpido e scevro da cupidigia, distaccato dalla bramosia del possesso, servo del dolore e della miseria umana, allora anche l’uomo moderno – egoista orgoglioso e disincantato – ne è pervaso da un fremito di ammirazione. Tale semplificazione della problematica, pur variegata tra mille sfaccettature realistiche o semplicemente edificanti, ha resistito fino al vento nuovo del Vaticano II, spartiacque tra passato e futuro, in virtù del quale il sacerdote è visto in una luce diversa.
Egli non è più considerato come un uomo dotato di particolari alchimie o poteri magici; il suo potere proviene solo da Cristo e senza questo presupposto la sua funzione terrena si vanifica; tale potere è una vera e propria investitura, che rimane inalterata anche quando egli cadesse nel peccato: peccatore si, ma pur sempre prete.
Cambia in questa nuova prospettiva, e grazie anche al peso culturale ormai acquisito dalla cultura francese (Bernanos, Mauriac, Greene), il modo di fare letteratura proprio in direzione dello svelamento di quel mistero auspicato da Blanchet, come si evince dai romanzi di scrittori contemporanei quali Parazzoli, Lisi, Coccioli, Parise, Doni: non più autori di storie sacre, bensì di pagine di analisi su uomini spesso impreparati al cambiamento in un mondo di confusione e di crisi dei rapporti, in cui il sacerdote, prima impegnato solo nei doveri del creato, ora si ritrova a fronteggiare una realtà in fermento tra pratiche burocratiche, organizzative, caritative, ricreative e quant’altro.
Viene ormai escluso nei romanzi odierni il grottesco anticlericale, quel prete incurante dei doveri pastorali, a vantaggio di un’indagine religiosa umana e creativa, nella quale è rilevante il recupero della giustizia sociale, non il prototipo di chiesa, ma la piena compartecipazione nel mondo. Il sacerdote è chiamato, pertanto, a mettere in discussione il rapporto tra se stesso e l’autorità religiosa, la gente, le donne e il mondo del lavoro; egli, spesso incapace di vedere un progetto di Dio nello squallore della vita e di sfuggire all’angoscia del “tragico quotidiano”, come diceva Giovanni Papini, è protagonista di un dramma, che è il frutto del dibattersi tra sacro e profano, tra misticismo e materialità. Essere preti non significa essere alieni dalle tentazioni, tuttavia quando ciò accade, il sacerdote non rinnega l’umanità; egli è chiamato a trasfigurare ogni pericolo verso la sua missione in qualcosa di sublime, dilatandolo e potenziandolo ad amore per la natura e, quindi, per Dio. Cambiano le epoche e cambiano le forme sociali, artistiche, poetiche che le rappresentano.
Cadute le ideologie, svalutata fortemente la parola sulla bocca dei tanti “gazzettieri” di cui pullula la società, il prete è testimone di impegno e di valori con il suo operato, con la sua stessa vita. In costante tensione tra grazia e peccato, egli è sintesi dei contrari – o almeno così ci piace vederlo – tra elementi dialettici: corpo e spirito, forza e debolezza, umiltà e divinità, tempo ed eternità. In quanto tale, egli è “dono all’umanità”.
La letteratura e tutte le altre forme artistiche testimoniano con efficacia tale duplice dimensione, orizzontale e verticale, del vivere sacerdotale; sia un romanzo che una poesia o una pittura o anche una scultura non si limitano più a descrivere o raffigurare un ritratto fisico stereotipato, ma esprimono attraverso le parole, i versi e i colori un dissidio, un conflitto interiore, ma anche una luce che dal mondo terreno si sublima alla ricerca di Dio. Questa è la forza dell’arte: scandagliare l’animo umano e rinvenire da esso il senso profondo dell’esistere. Così agivano Botticelli, Leonardo, Michelangelo, Dante, Manzoni, propensi a scorgere nella vita una cifra dialettica e non a privilegiare una realtà monocorde.
Il sacerdozio vive, come l’arte, una condizione altra e possibile, seppur ortodossa, che dona all’uomo libertà, bellezza, grandezza. Essere sintesi dei contrari per il sacerdote equivale quindi a realizzare l’essenza della sua missione teologica nelle sue varie declinazioni, in cui l’arte offre la concretezza della sua magia e leggerezza.