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Marco Dal Corso

Premessa

Le cronache attuali che provengono dal Mediterraneo, purtroppo, sono spesso portatrici di notizie di naufragi, morti e dispersi. Il “mare nostrum”, però, è stato e continua, nonostante tutto, a rappresentare uno spazio di incontro, di dialogo, di scambio. I drammi a cui assistiamo, spesso impotentemente, dicono nella loro drammaticità un bisogno urgente: quello di un nuovo pensiero e una diversa pratica circa il rapporto con l’alterità e la diversità culturale e religiosa. Se la “legge del mare” moralmente esige che si salvi la persona in pericolo di vita, essa non può essere messa in contraddizione con la legge che punisce colui che accoglie un clandestino (cosa che secondo alcune culture giuridiche riceve il nome di “delitto di ospitalità”).

Tale nuovo pensiero che trae ispirazione dal Mediterraneo è quello capace di operare una triplice azione: rispondere all’ansia dell’uomo e della donna moderni che si sentono minacciati dalla perdita di identità quale prezzo chiesto dall’era della globalizzazione, ma anche sconfessare la legittimazione religiosa del potere umano e, infine, superare la sacralizzazione della politica. Un pensiero e una pratica mediterranea che libera dall’ansia, ma anche libera la religione dall’abbraccio mortale del potere, così come libera la politica dalla deriva teocratica.

Dal mare di mezzo è possibile reclamare una “cittadinanza mediterranea” come idea nuova e più ampia di cittadinanza. Sappiamo, cioè, che il Mediterraneo ha offerto ospitalità a molti popoli che viaggiavano in molteplici direzioni: fenicio, greco, cartaginese, romano, bizantino, arabo, normanno, genovese, catalano, veneziano, ottomano…Ereditando questa storia ospitale, anche le religioni sono chiamate a dire la loro.1

Il contributo delle religioni

Nel mare del “tra” anche le religioni possono aiutare in questa opera di costruzione di fraternità e ospitalità. E non solo perché da esse ci aspettiamo un appello e un impegno per la pace, ma prima ancora perché esse, interpretando l’essere umano in relazione con la trascendenza, sono chiamate a ripensare l’umano come vita aperta e ospitale. Se c’è una cifra che più di altre appartiene a tutte le religioni abramitiche quella è la parola e la pratica dell’ospitalità. Esperienza umana prima che religiosa, quando proprio l’incontro ospitale genera un tempo e uno spazio dove il divino può manifestarsi.

Riscoprirsi ospitati, prima ancora che sapersi capaci di ospitalità, può aiutare a ripensare i rapporti: errare non è più tradire la verità, ma cercare un nuovo rapporto con il vero; il primato del possesso viene soppiantato dalla scoperta della dimensione della gratuità con cui sono stato accolto. E infine, l’ospitalità ricevuta e insieme data testimonia che il senso dell’esserci non è tanto la cura dell’Io quanto la cura e la responsabilità per l’altro.

Il pensiero ospitale

Se l’incontro con l’altro è prima di tutto un’esperienza etica e se l’etica che ne deriva non è un semplice atteggiamento morale, ma struttura originaria, metafisica come sostiene Levinas2, allora declinare l’etica dell’ospitalità diventa un contributo importante non solo per la pratica, quanto soprattutto per ripensare l’essere e, con esso, l’umanità. L’ospitalità, quindi, come etica. Qui un possibile sviluppo.

Ospitalità come primato dell’eteronomia sull’autonomia

Mentre il cuore della storia moderna è la proclamazione dell’autonomia, al punto che con Kant è possibile affermare che “l’uomo è legge a se stesso”, il racconto di altre narrazioni (come quelle delle religioni) ricorda che il soggetto non è creatore, che egli nasce eteronomo, che la vocazione della sua vita è quella dell’assunzione di senso piuttosto che donazione di senso3. Che, in fondo, suo compito è accogliere e ospitare un senso. Leggendo le narrazioni delle religioni, come quelle contenute nella Bibbia, infatti, possiamo scorgere un percorso che porta:

1) Dal “paradigma dell’identità” al “paradigma ospitalità”

La Bibbia non propone il paradigma identità (che pure è psicologicamente e culturalmente importante), ma quello dell’ospitalità. Icona biblica per eccellenza qui è Abramo, uomo sradicato dalla sua terra natale. Diversamente da Ulisse che va per tornare, Abramo va senza fare ritorno. Le radici di Ulisse e i piedi di Abramo sono due metafore che traducono due diverse concezioni. Abramo, in questo senso, relativizza il tema dell’identità che invece Ulisse reclama come senso ultimo del suo pellegrinare. Abramo, come dice il libro del Levitico (Lv 25,23) rimane, anche nella terra dove arriva, “uno straniero e inquilino”. La terra non gli appartiene, come succede a tutti gli stranieri, appena gli è data per vivere ed essere custodita, come è chiesto a tutti gli inquilini. Sua vocazione sarà quella di stare nella terra come ospite, non potendo reclamare di esservi nato. Il suo diritto alla terra riposa nel suo dovere di ospite e non in qualche pretesa di possesso. Infatti, l’unica cosa che l’ospite non può fare è pronunciare la parola “mio”, rivendicare il possesso delle cose. In questo senso, si afferma una contraddizione logica ed ontologica tra l’esperienza di ospitalità e quella della proprietà. Per questo ancora, seguendo la pagina biblica, il racconto di Genesi al capitolo 3 dove si proibisce di mangiare dell’albero del bene e del male non rappresenta una storia mitica, adatta al pubblico infantile, ma presenta, nel suo richiamo radicale, un principio di destabilizzazione del dominio del pianeta.

L’esperienza raccontata dalla bibbia di essere ospite non descrive solo il limite, ma vuole presentare le possibilità e le vere condizioni umane. Così, Abramo che vive l’esperienza di essere straniero ospitato scopre la sua alterità umana come alterità accolta. Metafora del rapporto con l’alterità divina. Sapere di non avere una terra, ma di essere in essa ospitati non è, per la bibbia, una considerazione ornamentale, magari ecologica ed eticamente corretta.

Più in profondità, il paradigma dell’ospitalità, che si fonda sull’esperienza di essere ospiti, pone la persona e descrive la condizione umana oltre l’individualismo: ognuno è destinatario di una relazione in cui è posto. La vocazione umana fondamentale, insomma, è quella dell’accogliere e dell’essere accolto anche se la libertà umana può negarsi a farsi accogliere. Ma la sua condizione umana originaria è quella di essere accolta così come indica la metafora biblica della maternità: simbolo per eccellenza dell’umano come dualità di affidamento e insieme responsabilità. «Come un bimbo in seno a sua madre», recitano i salmi, non è solo poesia lirica, ma descrizione di una nuova visione antropologica.

L’esperienza e la condizione di ospite sulla terra, della quale non posso rivendicare il possesso, per la bibbia non porta allo spaesamento, quanto all’accasamento. La terra è di Dio e l’uomo la abita come casa da lui donata e da quest’ultimo accolta. In questo senso il rapporto con il mondo non è quello dell’autoaffermazione e del possesso, ma quello della recettività e dell’accoglienza. Qui si spiega, tra altre cose, il significato del sabato dentro la teologia ebraica: giorno in cui fare memoria e vivere nel presente questo rapporto con il mondo e le cose.

Secondo il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe l’uomo è forestiero ed inquilino sulla terra non perché essa sia insufficiente, ma perché l’essere umano si pone, dentro la visione biblica, fuori dallo spazio dell’appropriazione e dell’avere. La sua vocazione, casomai, è quella di avere tutto senza possedere nulla perché lo spazio ospitale offre un di più ontologico (qui anche teologico): essere è essere accolti.

2) Dal paradigma dell’esclusione al paradigma della co-ospitalità

La tradizione giudaico-cristiana raccolta dalla Bibbia, seconda tappa del percorso interno al primato dell’eteronomia, propone il paradigma della co-ospitalità. Abramo che ha fatto l’esperienza di essere ospite e accolto, diventa a sua volta ospitante ed accogliente come ricordato, ancora nelle pagine di Genesi, attraverso il racconto dei tre angeli (Gn18)4. Si tratta, infondo, di assumere la gratuità ricevuta come gratuità ricevente. Si tratta, se non fosse troppo difficile anche per gli stessi personaggi biblici, di imitare il Dio ospitale.

In Genesi al capitolo 18, la Bibbia sembra proporre, ancora attraverso la storia del patriarca Abramo, i tratti dell’io ospitale che sono quello di tenere la porta aperta, dare il benvenuto, accorgersi di ciò che l’altro ha bisogno, fare spazio all’altro, donare ciò che si ha. Ma prima che un prontuario da mandare a memoria, il racconto biblico descrive la straordinarietà dell’ospitalità che consiste nel fatto che l’altro non si sceglie, ma ci accade. Abramo, per essere fedeli alla nostra figura, prima ancora di essere capace di accoglienza, la impara dallo straniero. Diviene, cioè, ospitale grazie allo straniero. Senza di lui non avrebbe potuto ricambiare e saputo fare l’esperienza di accogliere. La sua, definitivamente, è l’esperienza che l’umano non si fonda a partire dall’autonomia, ma dall’eteronomia se è vero che il senso ultimo della vita umana non è il logos-ragione (dell’io), ma la responsabilità e la risposta (all’altro).

La co-ospitalità biblica (ma in generale quella raccontata dalle religioni) propone una sua costituzione del soggetto umano. Egli, innanzitutto, è etero-costituito, la sua vocazione umana, cioè, è rispettata nella misura in cui accoglie l’altro e risponde al suo bisogno. Qui sta la sua autenticità: nella capacità di andare oltre la legge della natura e di vivere la relazione con l’altro che, in natura, appare un problema, come ricordano i filosofi, piuttosto che la condizione per essere e vivere da umani. Infine, il soggetto in quanto ospitale sperimenta la sua prossimità a Dio stabilendo non tanto un criterio di dogmatica teologica o di speculazione filosofica quanto di vera spiritualità quando pone la priorità dell’etica sulla religione, della giustizia sulla liturgia. Insomma, la proposta del paradigma della co-ospitalità è quella che si può riassumere nel passaggio dall’amore di identità all’amore di alterità. Rimanendo, quest’ultimo, un amore immorale, perché oltre la morale fatta di se e perché, e un amore irrazionale, perché oltre la logica della simmetria.

Amore gratuito quando tutto, al contrario, è interesse. Eppure amore storico, concreto, capace di salvare il pianeta, di rispondere al problema della fame, se fosse realmente ed universalmente vissuto. Anche la terra potrebbe tornare ad essere il pianeta di tutti e non solo di alcuni.

«La gratuità è la condizione di possibilità per sfamare il mondo perché essa interrompe la legge dell’essere, dove ciò che si ha lo si ha per sé, e introduce la legge del disinteresse dove -ospitalità e fraternità- ciò che l’io ha lo ha non per sé ma per l’altro»5.

Ospitalità come primato della responsabilità sulla libertà

La crisi dei tempi postmoderni è una crisi da ubriacatura da libertà. Rispetto alla quale occorre disubriacarsi. Occorre liberare la libertà soprattutto quando essa, intesa come prodotto di una lotta tra interessi diversi, porta in sé il seme della violenza e dell’usurpazione. La liberazione della6 libertà, e non la sua negazione, è la responsabilità. Ogni uomo, infatti, nasce responsabile dell’altro. E ogni altro, allora, è dono per il singolo uomo.

Originaria esperienza umana è non quella di pensare, come sostiene la filosofia moderna, quanto quella di essere pensati; siamo ospiti e per questo capaci di ospitare. Se le cose stanno così, è possibile vedere nella Bibbia e negli altri codici delle religioni un ulteriore percorso che porta dal paradigma dell’interesse al paradigma del dono.

Per la bibbia il mondo è un dono. Innanzitutto, per il fatto della signoria di Dio su di essa. «La terra è mia” dice Dio» (Lv 25,23) e dicendolo ricorda all’uomo che della terra può fruire ma non la può mai definitivamente possedere; di essa può godere, ma mai affermare la proprietà. La proprietà divina della terra va oltre l’appropriazione come oltre l’espropriazione: la terra non si può comprare o vendere. Essa è dono per tutti e per ognuno.

Ma la terra è dono anche perché ricorda l’espropriazione all’uomo. Il dono della terra fatto da Dio sottrae il mondo all’uomo vietandogliene il possesso e la manipolazione. Tra mondo e umano non c’è immediatezza perché di mezzo c’è il dono di Dio.

L’affermazione della signoria di Dio e il ricordo dell’espropriazione all’uomo trovano, però, il loro senso nell’uomo come destinatario dei beni. Nella visione biblica, infatti, i beni della terra acquistano senso in rapporto alla carenza umana. Non si dice con questo di più sull’uomo, ma su Dio. Se le cose acquistano significato ultimo perché destinate ai bisogni delle creature, il Creatore appare allora per quello che è: il donatore, il mondo diventa dono, come la vita e le cose per sostenerla e viverla pienamente. Il di più delle cose, cioè il loro destino finale, dice che Dio non è il motore immobile della filosofia greca, ma piuttosto il Dio bene-volenza, non la divinità perfetta inseguita dalla ragione anche nel pensiero teologico classico, ma il Dio Amore delle pagine evangeliche, non già il Dio-Oggetto della speculazione dottrinale, ma il Dio-Soggetto di tante storie spirituali. Il paradigma del mondo come dono, ancora, presenta almeno tre caratteristiche: quella di un soggetto che dona gratuitamente e che facendo ciò riscrive il reale, propone una nuova ontologia dove il principio ermeneutico è il disinteresse piuttosto che l’interesse (e questo lo può solo l’amore-agape piuttosto che l’amore-eros), un soggetto ricevente, destinatario del dono che scopre, dopo la logica del dovuto come per le ricerche religiose classiche, la logica dell’inedito e della sorpresa quale quella di essere benvoluti senza motivo e infine, terza caratteristica, la presenza del bene che non è mero oggetto dentro questa relazione ma concreta possibilità che questa si dia.

Ospitalità come primato della giustizia sull’amore

Mentre l’amore rischia spesso di risolversi in assorbimento dell’altro, piuttosto che nel suo rispetto, l’etica della giustizia è quella che meglio traduce la filosofia dell’alterità. Se l’amore è comandato non significa che esso non sia più tale, quanto, secondo la sensibilità biblica mirabilmente interpretata da Levinas, che è sottratto alla sfera dell’io. Più dell’amore, centrato sull’io, può la giustizia, come risposta ai problemi posti dall’altro. Per la bibbia è l’esperienza dell’ospitalità, insomma, che fonda la giustizia. Anche qui, allora, è almeno annunciato un percorso: quello che va dal paradigma della giustizia come do ut des al paradigma della giustizia come gratuità.

Diversamente da come potrebbe essere detto dalle parole e logiche secolari che fanno leva sul dovere di dare quanto si è ricevuto e fin qui intendono la giustizia, nella logica biblica e delle religioni giusto è chi rinuncia a farsi padrone e signore dei beni e li trasforma in mezzi e occasioni di bontà e condivisione. Non per generico senso morale, ma per, come andiamo dicendo, vero appello ontologico. Qui la pagina biblica propone degli orizzonti molto oltre la visione giuridica di giustizia commutativa o distributiva. Ministro della giustizia a modo biblico è colui che lascia circolare i beni nella logica della gratuità. Ma se giustizia è amare senza ritorno, questo modo di intendere la giustizia libera l’umano dalla morte. Non tanto quella fisica, capitolo obbligatorio per la vita di ciascuno, ma quella rappresentata dalla prigione della finitudine che è l’attaccamento all’io.

Praticare la giustizia in questo modo significa liberare la persona dalla ricerca di soddisfare e realizzare il proprio io. Il dono dona vita. Vivere nella logica del dono significa vivere la vita anche oltre le sue morti.

Quella della gratuità come relazione asimmetrica è una fondamentale novità delle religioni. Infatti, la psiche umana non conosce la gratuità, ma neppure la natura che invece è mossa da una violenza deterministica. Finalmente il concetto di gratuità è estraneo anche alla cultura occidentale se è vero che non-possedere è inteso come privazione all’interno del pensiero occidentale, mentre è esperienza di essere ospitato dentro la narrazione biblica e religiosa.

La gratuità è invece liberante perché sospende la logica delle aspettative e perché permette di vedere il mondo diversamente. L’ospite, ad esempio, porta novità e altri orizzonti. Allora la domanda: è possibile o impossibile il dono o più generalmente vivere la gratuità? Se intendiamo il dono come una possibile forma di scambio, diverso certo e in antitesi rispetto al do ut des della cultura dominante, allora è possibile praticare la gratuità perché essa ricorda che, in realtà, l’essere umano è costitutivamente essere di reciprocità. Oggi le filosofie più mature riconoscono che l’uomo è figlio di relazioni, che la persona non istituisce relazioni, ma essa stessa è relazione. Questa è una consapevolezza fondamentale da parte delle religioni. Per questo la gratuità è una risposta ai problemi posti dalla crisi della modernità Non indica piste concrete di politica sociale, ma richiama la vocazione umana alla gratuità, all’ospitalità e al senso del dono. Vivere secondo questa logica è provare e trovare risposte ai problemi dell’oggi. E a ripensare le nostre categorie.

L’ospitalità e il ruolo pubblico delle religioni

Ci accompagna una domanda: come il pensiero e la pratica ospitale possono promuovere il dialogo tra le religioni?7
Intendiamo qui riprendere soprattutto quanto suggerito dall’enciclica di papa Francesco, Fratelli tutti. Il capitolo VIII della stessa apre al tema titolando «Le religioni al servizio della fraternità universale»8. Ospitalità e fratellanza, cioè, appaiono come il contributo specifico e peculiare delle religioni alla società. Questo le impegna al dialogo che non può limitarsi a gesto diplomatico o essere motivato da solo spirito di tolleranza verso chi appartiene a un’altra tradizione. Quello delle religioni è un compito: contribuire alla costruzione di una società fraterna e ospitale. Un compito non attribuito dall’esterno, ma derivante dalla verità interna delle singole religioni.

Se verità è credere che siamo figli dello stesso Padre/Madre e che questo fonda il valore di ogni persona indipendentemente dal suo stato sociale, culturale e di qualsiasi appartenenza religiosa, ne deriva che l’impegno per la pratica fraterna ed ospitale è compito religioso oltre che etico. La figliolanza divina, insomma, fonda la teologia dell’ospitalità e della fratellanza. C’è un’ospitalità assoluta ben oltre le leggi dell’ospitalità concreta (Derrida) e una fraternità universale ben oltre quella biologica e di prossimità (Charles de Foucauld) iscritta in tale figliolanza. Diritti e dignità della persona, pertanto, non riposano solo su un’etica condivisa, ma sono espressione del carattere trascendente dell’umano riletto in chiave religiosa. Per questo un vescovo-poeta come don Pedro Casaldaliga – scomparso pochi mesi fa dopo una lunga vita di fedeltà radicale al vangelo – amava dire che di assoluto, «oltre a Dio, c’è anche la fame!»9 L’impegno per la giustizia, per la pace, per la convivenza dice qualcosa di decisivo in relazione alla verità delle religioni e del necessario dialogo tra esse. Come ricorda il grande islamologo Luis Massignon: «Non si trova la verità se non praticando l’ospitalità»10.

Le religioni e i loro testi sacri, come sostiene ancora l’enciclica, offrono un orientamento di senso anche per l’abitante disorientato delle nostre città post-secolari. Quando ricordano e praticano la virtù dell’ospitalità e della fratellanza aiutano, tra l’altro, a smascherare l’idolatria. E’ idolatrica, cioè, quella società che in nome del progresso e del mercato produce “scarti”, esuberi e disuguaglianza. La vocazione profetica, ieri come oggi, delle chiese e delle religioni non deriva da una qualche ideologia alternativa, ma si fonda sullo statuto di verità a cui esse si rifanno: siamo tutti figli ospitati su questa terra.

La riserva escatologica della teologia cristiana, ma anche la via alla illuminazione buddhista, la compassione confuciana, la speranza messianica oppure il tawhid musulmano sono “dispositivi” anti-idolatrici che le religioni condividono e che le impegnano a collaborare. Così, ancora, l’appello alla fratellanza e all’ospitalità può diventare il vero contributo e rappresentare il ruolo pubblico delle religioni nel dibattito culturale e politico. Ospitare il fratello e la sorella, ospitare gli altri essere senzienti, ospitare a nostra volta la terra che ci ha accolti, ospitare il passato, riconciliandone le memorie, accogliere il futuro anche e soprattutto delle generazioni dopo la nostra, liberandole dai debiti a cui le stiamo obbligando… sono impegni a cui le religioni non possono rinunciare se non tradendo la dimensione politica dell’esistenza iscritta nella verità della vita. Insomma, il dialogo interreligioso appare per ciò che è chiamato ad essere: un antidoto alla violenza, come ricorda l’enciclica Fratelli tutti ai nn. 281-284. Una pedagogia del dialogo interreligioso, allora, è iscritta, ricordando il documento sulla fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi nel 2019, quando afferma: «la cultura del dialogo come via, la collaborazione comune come condotta, la conoscenza reciproca come metodo e criterio»11.

Insomma, il pensiero e la pratica ospitale mediterranea, da cui abbiamo preso le mosse, ci ricorda l’impegno pubblico della teologia: di tutti e per tutti. Una teologia dinamica, dialogica, relazionale e capace, infine, di riconoscere nel dialogo uno dei luoghi dove Dio si manifesta.


NOTE
 
1. Questa prima parte (premessa e contributo delle religioni) è debitrice del bel lavoro scritto a quattro mani da C. MONGE – G. DE SIMONE, La misura mediterranea dell’umano, Castelvecchi, Roma 2024.
2. E. LEVINAS – A. PEPERZAK, Etica come filosofia prima, Guerini e Associati, Milano 1993.
3. La tipologia qui utilizzata è quella brillantemente suggerita da B. BORSATO, L’alterità come etica, EDB, Bologna 1995.
4. Per una lettura teologica in chiave abramitica resta riferimento importante l’opera di C. MONGE, Stranieri con Dio. L’ospitalità nelle tradizioni dei tre monoteismi abramitici, Edizioni Terra Santa, Milano 2013.
5. C. DI SANTE, Lo straniero nella Bibbia: ospitalità e dono, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2012, 137. Le categorie qui presentate le dobbiamo alla ricerca biblica di Carmine Di Sante. Per una sintesi della stessa è possibile consultare il saggio di C. DI SANTE, Per una teologia biblica dell’ospitalità in M. DAL CORSO (a cura di), Teologia dell’ospitalità, Queriniana, Brescia 2019, 37-56.
6. Riprendiamo le considerazioni apparse in M. DAL CORSO (a cura) Religioni e ospitalità, edizioni Antonianum, Roma 2021.
7. Papa Francesco, Fratelli tutti, cap. VIII, nn. 271-286.
8. L’espressione «Tutto è relativo, tranne Dio e la fame», da un carattere essenziale al pane quotidiano, senza il quale non è possibile vivere. Di fronte ai sistemi che producono morte per fame o malnutrizione, papa Francesco propone la solidarietà radicale che rappresenta una vita animata dall’amore e che può portare a una pratica storica sociale di vero umanesimo. Dice il Papa: « È troppo pensare di introdurre nel linguaggio della cooperazione internazionale la categoria dell’amore, declinata come gratuità, parità nel trattare, solidarietà, cultura del dono, fraternità, misericordia?». [Papa Francesco, Discorso alla FAO nella Giornata Mondiale per l’Alimentazione, 16 ottobre 2017].
9. L’espressione di Louis Massignon (1883-1962) è citata da P. F. DE BETHUNE, L’ospitalità. La strada sacra delle religioni. Prefazione di R. PANIKKAR, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2013, 120.
10. Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019), in L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, 6.