Maurizio Cecchetti
Riprendendo una boutade di Baudelaire penso che si possa dire che anche l’arte sacra si riconosce dal suo pubblico. Si cita spesso il discorso di Paolo VI agli artisti, che in sintesi diceva “facciamo pace”. Ma bisogna chiedersi se questa pacificazione non debba avvenire prima nel mondo ecclesiale, che verso l’arte contemporanea è spesso prevenuto quanto anche poco aggiornato. L’obiezione più frequente davanti a molte opere d’arte contemporanea è: “ma io non ci capisco niente”. Come se, entrando alla Sistina e vedendo gli affreschi di Michelangelo si potesse tranquillamente affermare: “Ho capito” (non dico tutto, ma quel che basta sì). Oppure, per citare un artista evocato da Giuliano Zanchi, di Rouault potremmo davvero dire di aver capito che cosa voleva fare e dire oltre il motivo sacro che raffigura? Il Miserere, una delle opere sempre citate come tra le più memorabili di Rouault, è un “ciclo” a suo modo religioso ma di una pietà nata inginocchiandosi nel fango della Grande Guerra. E se un riquadro s’intitola Debout les Morts!, In piedi i morti!, possiamo dire di aver capito che cosa si celi in quel titolo e in quell’immagine di scheletri col berretto da soldati che si rialzano in piedi? Il contesto nel quale Rouault lavorava era tale che per capire bisogna conoscere e andare oltre la superficie.
Quanti oggi nel mondo ecclesiale si sforzano di fare questo con l’arte contemporanea? Il turismo d’arte ha moltiplicato il numero di quelli che vanno per mostre e musei ma quanti, citando una celebre espressione, possono dire di “saper vedere”? Sia nelle comunità ecclesiali sia nei loro pastori, che purtroppo talvolta non sono meno all’oscuro di arte contemporeanea delle loro pecorelle, si giudica in modo spontaneo ma senza approfondire. Indirizzarsi su questa strada richiede non solo formazione per i seminaristi che diventeranno preti domani, ma anche da parte delle comunità parrocchiali, nelle quali non mi sembrerebbe sbagliato o una perdita di tempo fare dei corsi di avvicinamento all’arte per poter poi arrivare alla questione dell’arte sacra. Non c’è bisogno di dire che ogni pacificazione ha due o più soggetti che devono dimostrare di volere questo abbattimento del muro che li separa. E il muro l’hanno costruito anche gli artisti quando hanno deciso che il loro linguaggio e i loro stili erano “non negoziabili” con la committenza ecclesiastica. Ne andava della loro libertà, niente di meno. Perché? Perché, evidentemente, ritenevano e ritengono di essere loro i maestri che devono educare il popolo di Dio a quello che l’arte di oggi può rappresentare nella società contemporanea. Per non peccare di idealismo crociano l’artista deve ammettere che la committenza pone dei limiti che sono legittimi, e richiede uno studio da parte degli artisti che spesso viene bellamente ignorato. Nel passato esisteva il consulente teologico, oggi è molto raro. Caravaggio ha sicuramente dialogato con un teologo che gli ha dato suggerimenti, il resto l’ha fatto lui, qualche volta intuendo di più di quanto il suo consulente poteva sperare.
Un caso del genere è quello di padre Giovanni Pozzi, il cappuccino di Lugano che delineò il programma iconografico interno per la chiesa del Tamaro costruita da Mario Botta, ed Enzo Cucchi lo seguì alla sua maniera con ottimi risultati. La presunta autonomia dell’arte era un pregiudizio anche degli artisti che lavorarono coi regimi totalitari: la loro opera sarebbe stata più forte e più longeva, davanti alla storia, degli stessi regimi loro committenti. Picasso e Le Corbusier sono quelli che più hanno creduto nella potenza e nella durata del loro segno, per portare l’umanità verso un avvenire “radioso”. Non fu proprio così, oggi possiamo dirlo, anche se è vero che la loro opera continua a essere ammirata e discussa come vertici del Novecento rispetto alle ideologie totalitarie condannate dalla storia (a cui prestarono in qualche modo i loro servigi: Le Corbusier per Vichy, ma anche per il mondo sovietico, tanto per dire quanto gl’importasse dei regimi; Picasso seguendo un comunismo più proclamato che vissuto). Tornando al sacro: possiamo dire onestamente di capire ciò che Matisse ha fatto nella Cappella di Vence? Quelle vetrate che irradiano luce-colore in uno spazio povero e minimale, dove vediamo una parete con segni neri su bianco che sembrano abbozzi o scarabocchi primitivi, siamo in grado di capirli veramente? Girando la questione agli artisti: quanti oggi sono certi di poter scommettere che la loro opera sfiderà il tempo come quella di Giotto, Masaccio, Michelangelo, Tiziano, Caravaggio, Bernini, Tiepolo? Ma il tempo è stato degnamente messo alla prova anche da tanti “minori” le cui opere sono a miriadi sparse per l’Europa, spesso non meno belle e importanti di quelle firmate dai fuoriclasse. Questo dice molto di più che una gloria personale degli artisti, perché mostra che è esistita una koinè di sentimento religioso che univa artisti, popolo, potenti e Chiesa.
Oggi non è facile trovarla quella “comunione” di linguaggi e intenti. Anzi, credo, ma vorrei sbagliarmi, che il problema della committenza e quello degli artisti sia il medesimo, e non solo nell’arte: lo Spirito soffia dove vuole, ma quanti oggi hanno scelto di lasciarsi ispirare da lui? Ancora quarant’anni fa per alcuni critici dei grandi giornali parlare di “arte sacra” era fonte d’imbarazzo. Nel 1986 quando il Centro San Fedele realizzò l’importante mostra su Lucio Fontana e il sacro, a cura di Giorgio Mascherpa, uscì sul “Corriere della sera” una recensione di Guido Ballo intitolata Religione laica di Fontana. L’incipit faceva capire subito il pregiudizio fondamentale: «Occorre chiarire un equivoco diffuso: la religiosità in arte non nasce dal motivo… È una spinta più profonda, totale, che si può manifestare in opere apparentemente non religiose…», e aggiungeva il critico: «Lucio Fontana, laico, era spinto da profonda religiosità: per questo continuo rapporto con l’infinito e il divenire della vita… ». L’infinito e il divenire della vita possono parlare del sacro ma una Via Crucis, esplicitamente pensata per una destinazione chiesastica, è molto più specifica, perché colloca l’opera in una storia e una tradizione che hanno come orizzonte un contesto liturgico.
Probabilmente un articolo come quello oggi non potrebbe più uscire su un giornale non perché finalmente il pregiudizio sia superato, ma per la ragione ben più grave che viviamo nella totale indifferenza a queste discussioni e sui giornali la critica si è ridotta ormai a incensare ciò che conviene. Il punto decisivo di cui però non si parla mai quando si affronta la questione “arte sacra” è questo: esiste oggi (è mai esistita?) una critica dell’arte sacra? O, rovesciando l’ordine dei fattori, una concezione del sacro liturgico, non soltanto antropologico, metafisico e sociologico, nella critica d’arte? Sì, forse è esistita, e si dovrebbe risalire il tempo di un secolo per scoprire che ci fu questa attenzione specifica in alcuni che scrivevano d’arte. Padre Couturier e altri come lui hanno provato con opere e pensieri a creare quello sfondo, e altri ancora prima di loro ci hanno provato. Ma oggi e ormai da lungo tempo quell’intelligenza critica si è smarrita e mancano figure che siano capaci col loro pensiero e la loro ispirazione profonda di dare un orizzonte che si possa seguire per una nuova stagione storica dove l’arte sacra sia un’arte che segna la via anche a quella che non lavora su motivi religiosi. Le cause sono varie e tutte legate fra di esse: l’arte sacra è da parecchi decenni un oggetto non soltanto nebuloso, ma incerto, dequalificato sia per mancanza di ispirazione sia per una incomunicabilità fra artisti e Chiesa; non nasce quasi mai dal senso religioso delle comunità interpretato dagli artisti, ma quando va bene è un frutto soggettivo dell’artista che viene approvato da preti e fedeli anche con una reazione che ha qualcosa di schizofrenico per così dire: l’ossequio banale alla modernità coesiste con una rinuncia a discutere i risultati del lavoro artistico per inadeguata conoscenza della materia di cui si parla, una carenza che mette i committenti in soggezione e li spinge ad accettare le proposte degli artisti per non fare la figura di chi manca di cultura.
Questo fa capire quanto la critica dell’arte sacra possa giocare un ruolo che fino a oggi è stato inesistente o molto marginale. In un libro che ho pubblicato qualche mese fa ho cercato di dire che il critico militante, cioè colui che osserva l’arte nella sua contemporaneità, non è un “professore” ma una sorta di fiduciario dell’uomo comune. È uno che studia e cerca di conoscere per esprimere un giudizio che aiuti le persone interessate all’arte a pensare. Paradossalmente, il critico viene dalla strada e va per la strada, è un pedinatore che segue le tracce che l’arte lascia nel suo cammino. Il critico, insomma, dovrebbe essere quasi un maieuta che opera per aprire la mente agli altri, facendo loro capire che non c’è bisogno della laurea per guardare l’arte e per apprezzarla, perché l’arte dovrebbe essere per l’uomo, e non fine a se stessa. Il salto di qualità si avrà, ma mi rendo conto che è quasi una chimera, quando la Chiesa inviterà le sue diocesi a organizzare percorsi formativi stabili sull’arte sacra rivolti a tutta la comunità, a cui siano chiamati a collaborare critici e competenti. I risultati di questa inculturazione si vedranno soprattutto quando si potrà scrivere una storia della critica dell’arte sacra, mentre oggi può essere tutt’al più un esercizio di prelievo istologico dal corpo della critica in senso generale.
Testo apparso su Vp plus, newsletter quindicinale della rivista Vita e Pensiero, del 27 febbraio 2021.