Giovanni Tesio
Nosgnor. Lamenti, preghiere e poesie in cerca di un Dio vicino e lontano
Interlinea, Novara, 2020
pp.211, 15,00 euro
Premetto che non sono piemontese e che certe aspre sonorità dialettale mi risultano tutt’altro che immediatamente comprensibili. Eppure a pronunciare Nosgnor, il titolo del libro di Giovanni Tesio, istintivamente avverto un che di familiare, di fortemente intrigante, prima ancora di lasciarmi catturare dal flusso orante dei versi: come se si aprisse, dopo la nota forte del lemma, nel suo squarcio di luce prelogica, un senso di infantile accoglimento e lenimento di ogni paura. Una scontrosa ed essenziale forma di confidenza e abbandono, ecco questo vi sento, nei confronti di un Essere autorevole e al tempo stesso amabile, di Uno disposto ad accoglierti e a capirti con un sorriso di comprensione. Nosgnor (nusgnùr), un Signore, un Padre, senza alterigia capace di farsi sentire tuo e di tutti: Nos-Nostro! E per questo, per la sua sostanza di Padre, pronto ad ascoltare e lasciarsi, se mai, intenerire da “lamenti, preghiere e poesie”, come dice il sottotitolo del libro sgorgato ex abundantia cordis, da una “necessità” e da un’intima ricerca che affonda le sue radici in un passato fatto di contraddizioni e negazioni. Ricerca e bisogno di che? Di un Dio “vicino e lontano”, aggiunge subito, quasi a liberarsi di un peso in un empito di imbarazzata timidezza, a voler giustificare un incontro per troppo tempo rinviato, che l’autore, per non farlo suonare opportunistico, mette subito le mani avanti parlando di contrizione, di “lamenti”, e solo dopo di “poesie”, ancorché queste siano della più classica fattura letteraria, nella forma del sonetto addirittura, salvo giustificarsi con una mossa che grottescamente sembra stravolgerne la qualità alta della fattura, in rustica, balbettante “filastorta”, al punto da dare l’impressione di voler cambiare addirittura le carte in tavola della realtà e correttezza dei rapporti spostando l’attenzione dal Destinatario a una Intermediatrice.
Come dire, l’interpellanza di un Padre partendo dalla Madre, dalla lingua della Madre, il dialetto. Questo Dio di Tesio, questo “Nostro Signore”, è infatti un Dio paternamente burbero ma sfuggente, come un montanaro buono e scontroso, cui le parole di troppo, le parole letterarie, le “poesie”, fanno specie, come un di più da evitare e per questo si accontenta di una franca ammissione dei propri limiti e difetti da parte della creatura, uno “straccio” alla mercé del “vento”. Meglio preghiere e lamenti, insomma: questi, sì, pronunciabili nella lingua ruvida dei giorni, di una quotidianità che sfida il silenzio e in cui le sue vocali appuntite hanno risonanze antiche, a costo da risultare inascoltabili nel loro stridio. “Son balarin, Nosgnor, balo ’n sla còrda /E it penso e it penso nen, ston lì ’n tël mes,/ përchè sai nen, Nosgnor, se ti ti-j ses,/e se ’l tò sguard am varda fin ch’am mòrda” (“Sono funambolo, Signore, ballo sulla corda /e ti penso e non ti penso, sto lì nel mezzo,/perché non so, Signore, se tu ci sei,/se il tuo sguardo mi guarda fino a mordermi”). È questo che Tesio vuole lasciare intendere, il bisogno di farsi ascoltare e capire dal suo Divino Interlocutore? Io credo di sì e basta, al Poeta non meno che a me, che il Suo “sguard” gli perfori e sciolga ogni esitazione e aridità.
Vincenzo Guarracino
Pavel A. Florenskij
Bellezza e Liturgia. Scritti su Cristianesimo e cultura
N. Valentini (ed.), Traduzione di Claudia Zonghetti
Ed. SE [Testi e documenti 297], Milano 2020, pp. 208, € 22, ISBN 978-88-6723-454-7
Aprendo l’indice delle tematiche raccolte nel volume, una medesima parola dischiude e conclude l’antologia dei testi ivi presentati di Pavel Alexandrovič Florenskij (1882-1937): bellezza.
Il dato non è casuale. Come evidenzia l’ampio e qualificato saggio del Prof. Natalino Valentini, eminente studioso e conoscitore dell’opera del grande genio russo, qui curatore degli scritti presentati, la Bellezza è la cifra dell’identità cristiana russa. Da questa categoria scattò la scintilla della conversione della Rus’ di Kiev e via via dell’evangelizzazione delle nazioni limitrofe, su decisione del principe San Vladimiro in risposta al resoconto dei legati da lui inviati a indagare la religione degli altri popoli.
La Cronaca di Nestore, Storia degli anni passati, riferisce con freschezza lo stupore vivo di quegli ambasciatori al loro rientro: a Costantinopoli, davanti alla “religione dei Greci”, avevano contemplato “il Cielo sulla terra”. A questa categoria, ancora, con proiezione in un certo prossimo futuro che si può definire un presente “parusiaco” – escatologico, il genio di Fëdor Dostojevsky attribuì la potenzialità salvifica del mondo. D’altronde, il “più bello dei figli dell’uomo” (Sal 44,3) ne è il Redentore e bene osserva Florenskij che il santo non è l’uomo buono, bensì l’uomo bello (cf. nota 63, p. 194), ove allo stesso modo che la santità è categoria ontologica e non morale dell’essere, così la bellezza appartiene a quella categoria e non alla estetica. Essa infatti è l’amore realizzato e, dunque, partecipazione piena alla natura divina (cf. 2Pt 1,4).
Colui che a Mosè ha rivelato il proprio Esserci svelando il Nome (cf. Es 3,14), nell’ispirazione a San Giovanni dice la profondità di quel Suo Nome: “Dio è Amore” (1Gv 4,8). Il Nome di Dio è Amore. L’esistenza dell’Unico Dio e la sussistenza del Dio Trino è Amore. La Trascendenza e l’Immanenza di Dio è Amore. L’Atto di Dio è Amore. San Giovanni ha avuto il dono di “identificare” senza definire “Colui che È”. Alle virtù teologali di Fede, Speranza e Carità ben corrispondono gli attributi divini di Verità, Bene e Bellezza e come delle prime la “più grande è la Carità” (1Cor 13, 13), così delle seconde lo si può dire della Bellezza.
La Carità include in divenire Fede e Speranza compiute. La Bellezza include Verità e Bene glorificati. Infine, la Carità si svela essere la perfetta Bellezza e la Bellezza si rivela essere la perfetta Carità. Di questo sublime mistero Sant’Andrej Rublëv ha lasciato testimonianza nell’Icona delle Icone: quei Tre in danza di reciprocità e oblatività, visione integrale del mondo divino del quale l’uomo è non ospite e invitato occasionale, ma figlio partecipe ed erede (cf. Ef 2,19; Rm 8,17). L’opera del Santo Iconografo veramente è epifania dell’ambivalenza “Carità-Bellezza”, tanto da poter affermare: “Esiste la Trinità di Rublëv, perciò Dio è” (cf. p. 181). Il titolo del libro ricapitola lo scorrere dei pensieri contenuti nelle sue pagine. La loro incidenza cala come un macigno sulla contemporaneità segnata dall’eclisse dello spirito, della cultura e della verità: l’uomo viene svuotato della sua “humanitas” e ridotto a idolo-fantoccio di sè medesimo. “Bellezza e Liturgia” dicono i contenuti degli scritti su “Cristianesimo e Cultura” ed entrambi i binomi si corrispondono.
Il Cristianesimo autentico è la Bellezza, e la Cultura è espressa, ricapitolata, tramandata ed elevata dalla sua radice – il culto – all’apice di essere l’arte delle arti ove sprigiona l’essenza dello spirito che la costituisce.
Il primo scritto offerto è l’Ortodossia (pp. 13-52), risalente al 1909. In russo “Pravoslavie” significa “Gloria della Verità” e questa etimologia sta a cuore all’Autore: per lui rintracciare le radici dell’Ortodossia significa individuare la genetica del suo popolo nella storia. Tre le forze riconosciute: la fede greca, il paganesimo slavo, il carattere nazionale russo. Specificato, dunque, il “genio russo” nelle “forme dell’Ortodossia russa”, Florenskij prende in considerazione “l’essenza dell’Ortodossia: la Chiesa e la vita quotidiana”. Emblema di entrambe è il contadino russo.
Dall’osservazione della umiltà del popolo russo, si traggono le conclusioni o, meglio, le peculiarità della devozione russa, dove è palese quella fede la cui nota caratteristica è il “rifiuto della ragione nelle questioni religiose” (p. 48). Il secondo scritto tratta del Rito come sintesi delle arti (pp. 53-75) e risale al 1918. L’argomento s’incentra sull’antinomia Monastero-Museo. Entrambi, infatti, conservano la memoria del passato, della tradizione e di orme importanti nel solco della storia, ma il primo lo fa in dimensione vitale, dinamica e prolettica; il secondo in una sorta di conservazione archeologica e fossile.
Soltanto il primo, quindi, mantiene accesa la fiamma della cultura nell’anima russa e fulcro vivo ne è la liturgia. In essa tutti i sensi dell’uomo sono coinvolti con la visione delle icone – volti illuminati, l’ascolto del canto – Parola vibrante nell’intimo, l’effluvio degli incensi – balsamo dell’anima, il bacio eucaristico – gusto sponsale delle nozze dell’Agnello e quello della Croce – tatto trasfigurato. L’unità dell’uomo in sé viene ristabilita in questa “incarnazione” del Cielo sulla terra che nel tempio si compie. Ogni elemento partecipa alla pienezza del tutto e il tutto si manifesta in pienezza in ogni elemento. L’immateriale si materializza nell’incorporea natura della luce, dei suoni, del profumo, del transustanziato e del simbolico, facendosi percepire dalle “finestre” del corpo che aprono l’accesso al cuore, all’anima, all’unione.
La lettera a Nikolaj P. Kiselev (1919), Salvaguardare Optina! (pp. 77-84) costituisce il terzo scritto di Florenskij in questa raccolta tanto opportuna, affinché non vadano perse pagine di così alto valore. Un filo d’oro le collega e questo breve testo è come il perno su cui ruota l’intero asse dell’impianto logico florenskijano riguardo alla cultura come spirito. Salvare il Monastero di Optina Pustyn’ è “salvare il vivaio della nuova cultura. L’Autore qui mostra il non essere vincolato a muri ed archivi, bensì alle persone che li rendono significanti. Egli infatti propone di salvare “un resto”, un “ceppo” vivo di quella pianta plurisecolare, un virgulto di quella radice che ha trasmesso sapienza a generazioni di persone semplici e dotte della Santa Russia. Scrive accorato con un appello che è un grido: “Si potrebbe considerare quale misura temporanea il trasferimento di chi vi abita nell’eremo ivi compreso” (p. 84). Quell’eremo era il cuore di Optina Pustyn’ e pochi monaci ne sarebbero stati il battito ancora pulsante. Non gli basta: aggiunge tre righe di post scriptum che terminano in latino: “Il destino di Optina è nelle Vostre mani e Vostra è la responsabilità al riguardo. Tempora pessima sunt, vigilemus” (p. 84).
La Nota sull’Ortodossia (pp. 85-101) non è datata, viene da appunti manoscritti e dettati, è incompiuta. Il Curatore ne ha precisato la tematica paragrafo per paragrafo. L’Autore soltanto li numerò. Sono pagine di matura riflessione sul rapporto tra le religioni e la rivelazione, il rifiuto sia del fanatismo che del relativismo, la relazione – incrinata – tra conoscenza religiosa e cultura moderna, ove per moderna s’intende dal Rinascimento in poi. Florenskij mette in guardia dagli apostoli della tolleranza, dei quali Tolstoj per lui è il negativo emblema. A detta posizione di vuotezza e superficialità nell’assunto della Bellezza gravida, invece, di senso e di significato della realtà sacra, contrappone l’esperienza religiosa viva, quella della nascosta quotidianità popolare, nella quale l’umanità da sempre ha camminato e cammina. Si approda all’esortazione di una “reciproca comprensione” tra le religioni che “non si conoscono fra di loro” (p. 97). Stupenda è la considerazione cui Florenskij giunge: “La spiritualità è possibile anche con modi di vivere altrui; anzi, forse è persino probabile, più che possibile” (p. 98). Quindi, egli s’inoltra sul rapporto fra “il Cristo e il popolo russo”. Si tratta di pensieri profondi, che paiono sezionare come un’autopsia “il corpo del popolo russo”, tutt’uno con la sua anima. Dall’idolatria del sé salva l’identificazione di sé con il Cristo, con l’essere cristiani per nascita e con il possedere una matrice naturalmente ecumenica. Tuttavia è purtroppo questa ultima nota, l’ecumenicità ortodossa a cui l’Autore giunge con interessanti prospettive, che si interrompe bruscamente.
Il saggio Cristianesimo e Cultura (pp. 103-133), da un dattiloscritto con ripetute correzioni del pensatore russo, risale al 1923. Anche qui i titoli dei paragrafi, altrimenti indicati da sola numerazione, sono stati opportunamente apposti dal Prof. Valentini. “Il dissolvimento della cultura” è la tragica causa del “malessere dell’umanità” (p. 105): d’altronde, è il dissolvimento del suo spirito, reso sempre più asfittico. La logica conseguenza è “la riduzione moralistica”, dramma la cui colpa l’Autore attribuisce ripetutamente a Kant. Altra conseguenza ne è “l’inutilità dell’ipotesi Dio: la riduzione scientista”, per la quale “una cultura al suo massimo grado di perfezione non avrà alcun Dio” (p. 107). Colpisce la lucidità di analisi in poche frasi che colgono il dinamismo anticulturale o “ateo positivista” del nostro percorso storico verso un precipizio sull’orlo del quale né l’esperienza dei totalitarismi del sec. XX, né quella di due guerre mondiali, ha consapevolizzato l’umanità.
Permane, infatti, quella che Florenskij definisce “l’idolatria dell’umano”, oggi declinata nell’economia a cui tutto si sacrifica, anche e soprattutto l’uomo come avvenne un secolo fa nel culto della scienza. Il percorso si orienta necessariamente ai rimedi, prima che sia troppo tardi, e l’Autore propone “trasfigurazione della cultura e consacrazione della natura”, perché “lo spirito non può essere passivo” (p. 111) e l’umanità contemporanea ha bisogno “di una cultura cristiana seria e non finta” (ibid.). Ciò è possibile se vi è “l’orientamento della coscienza verso Cristo”, dato non scontato e tutto da acquisire, tanto che la riflessione affronta lo scandalo della “divisione che affligge il mondo cristiano”. Essa è determinata non dalle “differenze di dottrina, di rito o di struttura ecclesiale, bensì dalla profonda e reciproca diffidenza nella fede in Cristo Figlio di Dio che si è fatto carne” (cf. pp. 113-114)!
Quanto nel precedente saggio era rimasto sospeso, ora è pensiero che si dispiega in articolate considerazioni su “unità e distinzione: la vita ecumenica della Chiesa”, organismo in cui amore e fiducia autentici tra cristiani devono orientarsi a “Colui Che vive nella Chiesa universale e la guida” (p. 117). Si indica come antidoto una “igiene spirituale” dettata da una profonda “metanoia”, ovvero un mutamento strutturale del modo di pensare per conseguire l’unione con Cristo, per Cristo e in Cristo. Emerge allora il “cammino verso la perfetta comunione” e “verso l’autentica concordia”, dove tre punti sono i pilastri irriducibili: la professione della risurrezione di Cristo nella carne, la fede che anche i morti risorgeranno e la riformulazione del primato d’onore del Vescovo di Roma.
Una Appendice (pp. 124-133) correda il pensiero di Florenskij con la “tesi dell’unione universale per la rinascita del Cristianesimo”. Si tratta di una sorta di “magna charta” del Movimento dell’Unione, elaborata dal Prof. Lev M. Lopatin nel 1918, sulle idee di Florenskij.
Ultime, il libro offre quattro su venti – ma centrali in tema – delle Lezioni sulla concezione cristiana del mondo, tenute dall’Autore all’Accademia Teologica di Mosca nell’autunno-inverno 1921 (pp. 135-165). Sono le lezioni: decima: “Dalle ideologie della storia al culto sorgente della cultura” (6. X. 1921); undicesima: “Le forze che generano la cultura” (7-20. X. 1921 [indicata la doppia data: calendario giuliano e gregoriano]); dodicesima: “Unità della cultura” (20. X. 1921); tredicesima: “Le due culture: pensiero astratto o pensiero simbolico” (28. X. 1921). Al lettore si lascia l’esperienza di altre pagine intense, che scavano la coscienza, solcano la mente, nutrono l’intelligenza, dissetano lo spirito e suscitano sempre stupore e meraviglia per la profezia contenutavi.
Giustamente Natalino Valentini ha titolato l’ampio suo magistrale saggio conclusivo del volume Cultura e Bellezza. Florenskij interprete dell’Ortodossia e precursore dell’ecumenismo (pp. 167-199), ma che pure, a ragione, potrebbe dirsi: Florenskij interprete del cuore dell’uomo e della civiltà contemporanea. “Pioniere di un nuovo pensiero”, esploratore acuto della “conversione russa alla Bellezza”, sostenitore del nesso “Bellezza e Liturgia”, annunciatore dell’“Arte del culto liturgico”, testimone della relazione “Culto, Cultura e Cristianesimo”, profeta della “crisi della cultura e di un nuovo ecumenismo”, Pavel Alexandrovič Florenskij costituisce per il nostro tempo la voce della Bellezza che richiama il ritorno dell’uomo ai seni della Verità e del Bene. Corredato di preziose e documentate note in accompagnamento al testo e di un’accurata quanto dettagliata bibliografia, il libro si presenta con la riproduzione in copertina di un’iconostasi del sec. XIX: veramente esso schiude, al lettore che ne apre le pagine, le “Porte Regali” della conoscenza e della sapienza, intrise di luce e di verità.
Luciana Maria Mirri
Giovanni Cardone (a cura di)
Peregrini.
Cammino alla scoperta dei culti, dei riti e dei rituali del Mezzogiorno
Santelli, Cosenza 2021
Il saggio curato con grande maestria e passione da Giovanni Cardone, Peregrini. Cammino alla scoperta dei culti, dei riti e dei rituali del Mezzogiorno, edito da Santelli, Cosenza nel marzo del 2021 rappresenta un patrimonio di documenti, testimonianze, scritti, sui culti, miti e rituali che, in un susseguirsi di eventi, hanno interessato gruppi di donne, uomini, intere comunità del Mezzogiorno.
Essi risultano preziosi non solo per la conoscenza dei processi di svolgimento delle modalità rituali, ma anche e soprattutto perché consentono di entrare in contatto con le grandi personalità che si sono avventurate, con umanità e competenza scientifica, alla scoperta del mito e del rito. Sono i primi pellegrini di questo saggio, coloro che hanno compiuto un viaggio con una partecipazione intensa alle speranze, attese, desideri e sofferenze di tante donne e uomini protagonisti dei rituali, nei quali l’interesse e l’impegno scientifico si sono intrecciati con una partecipazione emotiva ed etica volta al miglioramento della condizione umana. Anche il lettore si fa pellegrino, nell’incontro con il prezioso deposito di esperienze umane che, nella molteplicità dei linguaggi dell’antropologia, della psicologia, dell’arte e della religiosità, della ricerca scientifica e storiografica, rinvia ai temi centrali dell’esistenza umana: la vita, l’amore, l’odio, la sofferenza, il male, la morte, il fine ultimo della vita.
Attraverso l’itinerario tracciato dalla ricerca di Giovanni Cardone si compiono i passi che collegano i riti ai miti, come nell’affascinante esperienza del tarantismo e della tarantella, in Calabria, Sicilia, Lucania e Campania. Alla quale si viene condotti seguendo gli studi di Giovanni Pitré, Ernesto De Martino, Vittoria De Palma, Clara Gallini, nei diversi rituali che diventano fenomeni di ritualizzazione del mito di Aracne.
Osservando i fatti culturali contenuti nel saggio, il lettore-pellegrino si trova a partecipare con empatia e a condividere quella dimensione antropologica che si incontra attraverso lo studio del folklore, dell’arte e delle tradizioni, che deriva da un immaginario collettivo vissuto dalla popolazione di una determinata area geografica. Le straordinarie pagine dedicate al culto dei santi svelano innanzitutto ciò che i santi hanno rappresentato nella loro vita e i valori incarnati dai cittadini, dai membri e dai gruppi che li hanno considerati come loro protettori. Nelle leggende collegate alle feste, si viene portati verso ciò che vive l’umanità, oltre le appartenenze geografiche, con le sue celebrazioni religiose, lo scorrere del tempo e delle stagioni, i desideri più profondi.
E, tuttavia, come ha sapientemente evidenziato Giovanni Cardone nel mito e nel culto di Parthenope, tutto nasce nella tradizione di un popolo. La cui storia, per quanto riguarda il Mezzogiorno, è segnata dal Mare nostrum, che è al contempo limes, limite, verso ciò che è altro e limen, punto di accesso di un mondo tutto da scoprire. Il pellegrino-lettore trova in questo saggio le coordinate del vivere dell’umanità e dell’incontro-confronto con ciò che è altro da sé. Tra le pagine dedicate ai santi patroni e alle feste in onore della Madonna, il lettore è sempre più attratto dentro un mondo rivestito di culture e universi simbolici diversi sì, ma che nel fondo condivide la medesima condizione umana, con la sua precarietà, e quella presenza di religiosità impregnata di una sapienza che tanto ha da dire ancora oggi agli uomini e alle donne del nostro tempo. Un saggio dunque interessante e arricchente anche nella parte conclusiva, nelle interviste ad alcuni studiosi, storici, antropologi, musicisti che, studiando le tradizioni rituali del Mezzogiorno hanno mostrato il volto dell’arte che si manifesta nelle opere numerose nate nel tempo attorno ai riti, rituali, culti, leggende e feste tradizionali del Mezzogiorno.
Roberta Foresta
Joris Geldhof
Oltre il sacro e il profano. La liturgia nel tempo
Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2020
Nel saggio, Oltre il sacro e il profano. La liturgia nel tempo, edito da Qiqaion nel 2020, Joris Geldhof si interroga sul rapporto tra fede e cultura, chiesa e mondo, liturgia e modernità. Professore di liturgia e teologia sacramentale a Leuven, in Belgio, nella Facoltà di teologia e studi religiosi, nell’introduzione al libro, Geldhof presenta il suo contesto personale facendo riferimento alla meravigliosa pala d’altare L’adorazione dell’Agnello del 1432, dei fratelli Van Eyck, situata nella cattedrale di Bavone a Gent. Osservandola attentamente, ci si potrebbe soffermare a lungo per parlare di alcuni temi importanti cari alla liturgia, che Geldhof sviluppa all’interno del suo libro: il mistero pasquale e il tema della redenzione in rapporto alla celebrazione liturgica; i tanti simbolismi presenti nel dipinto che mettono l’uomo in connessione al mondo e a Dio; l’alleanza tra arte e liturgia.
Interessante risulta anche il ricorso al linguaggio dell’arte figurativa per riflettere sulla liturgia: il termine dittico, un’icona o un quadro composto di due immagini distinte e complementari, viene utilizzato per mettere a confronto la liturgia – nella sua duplice natura divina e umana – con il mondo. Il libro si divide in due grandi parti: nella prima l’autore si interessa al modo in cui la liturgia attualizza l’economia salvifica nel mondo; nella seconda si interroga sulle dinamiche di trasformazione dell’essere e della realtà che scaturiscono dalla liturgia. Nella prima parte, dopo aver chiarito il rapporto tra liturgia, modernità e secolarizzazione, affronta alcuni snodi riguardanti la modernità, come la nascita delle ideologie e il rapporto tra liturgia e ideologie, in particolare soffermandosi sulle implicazioni connesse al concetto di politica.
L’autore intravvede nella liturgia un superamento della distinzione tra sacro e profano, attraverso il concetto di santificazione, che rende manifesto l’ordine razionale che soggiace nella relazione all’essere. Sacrosanctum Concilium 2 e 8 costituiscono l’orizzonte entro il quale situare il confronto tra Chiesa e mondo, liturgia e secolarizzazione, che non deve essere basato sulla contrapposizione. Innanzitutto, perché la modernità è portatrice di istanze positive, come ad esempio la partecipazione democratica e una più uguale dignità. Poi, perché il secolare rappresenta una componente importante della realtà, sebbene successivamente sia diventato l’unica vera realtà, negando il sacro come frutto di immaginazione, dunque qualcosa di inutile, falso.
Come può, a questo punto, la liturgia, dialogare con il secolarismo? Identificando nella liturgia le tracce del mistero pasquale e le dinamiche trasformative dell’essere percepibili mediante i sensi, approfondendo alcune diadi importanti, come cielo e terra; culto e cultura; religione e politica, che rendano evidenti come lo spirituale accade attraverso il temporale. Bisogna attuare una conversione dei simboli, dalle teorie del significato verso una metafisica della simbolicità. L’intreccio tra l’eterno e il temporale, il senso del dono nella relazione dialogica e dialettica con Dio rappresentano i tratti distintivi della liturgia rispetto alle ideologie della modernità, prive di aperture alla complessità della realtà, convinte che l’uomo possa bastare a se stesso senza il riferimento al trascendente. Lo scopo della liturgia, la sua vocazione messianica, deve restare qualcosa di distinto dagli obiettivi delle economie e dalle politiche moderne, che operano secondo processi e scopi diversi. Anzi, la liturgia può svolgere un ruolo importante nel liberare gli esseri umani dalle pressioni o dalle alienazioni prodotte dall’azione politica ed economica secolari. Nella sua vocazione messianica, la liturgia celebra nel mondo e nella storia l’economia salvifica, senza però coincidere mai con il secolare.
Mentre l’uomo moderno è un essere disconnesso dal legame con la natura e con Dio, chiuso in se stesso, ritenendo la mente come l’unica fonte di senso, la liturgia può mostrare la sua dimensione ontologica e teologica, nel volto personale e trascendente di un Dio che salva, andando incontro al bisogno di grazia dell’uomo. Parole e gesti devono attualizzare le azioni salvifiche e redentrici del Figlio di Dio. Inoltre, la santificazione è un concetto più appropriato della sacralità per parlare della liturgia, dove, oggetti e uomini separati da altri uomini sono tali per avvicinare questi a Dio.
In che senso il mondo è nella liturgia? Nell’ordine sacramentale liturgico avviene un processo di desacralizzazione e di santificazione della realtà. In Cristo, pienezza di santità, viene superata la separazione tra il sacro e il profano, tutto viene santificato. La Chiesa che celebra è sacramento del Regno di Dio e, attualizzando in questo mondo il “mondo in divenire”, il Regno, diventa un potente motore di trasformazione della realtà. La dimensione escatologica della liturgia fa luce sull’abitare il mondo. L’eucaristia è l’apparire della Chiesa nella parusia di Cristo, la partecipazione alla sua gloria celeste. Occorre ripensare all’importanza della tensione escatologica che sembra essere esaurita nella Chiesa. L’economia della salvezza, a mano a mano che si indebolisce e cancella, finisce per estendere il suo dominio sugli aspetti della vita sociale. Per un rinnovamento della liturgia è importante andare alle origini del movimento liturgico che ha riflettuto a lungo sul rapporto tra liturgia e mondo. Nella liturgia, l’immagine del corpo di Cristo si manifesta nell’aspetto visibile, che è la Chiesa nel suo ordine gerarchico, e nell’aspetto invisibile, mistico, che eccede rispetto al corpo visibile. L’unità con Cristo si realizza attraverso la realtà visibile ma non coincide con questa realtà. Inoltre, nei misteri salvifici di Cristo celebrati nella liturgia vi è la compenetrazione di due atti: di Cristo e della Chiesa; movimento catabatico e anabatico.
Nella liturgia si rende presente l’azione redentrice da parte del Signore, ma la liturgia è anche l’azione della Chiesa in unione all’opera salvifica di Cristo. La partecipazione alla vita di Cristo è chiamata mistica. Nella liturgia, inoltre, deve apparire di più il mistero di solidarietà di Cristo e della Chiesa, orientato alla riconciliazione e all’unità. La liturgia, dunque, contiene un enorme potenziale critico. Se ben vissuta, può essere una forza dinamica nella lotta contro le tendenze e le misure antisociali, infatti la liturgia si oppone all’individualismo, promuove la fraternità soprannaturale e l’uguaglianza. È un antidoto contro le tendenze spiritualizzanti, in quanto parla sempre con segni concreti, visibili, con un simbolismo incarnato. Infine, è auspicabile in materia liturgica un superamento dell’atteggiamento rubricistico, legalistico. Affinché tutto ciò sia visibile, occorre integrare l’epistemologia alla soteriologia.
C’è bisogno di una liturgia più profetica, orientata all’ eschaton, di un nuovo patto con l’arte che modelli l’immaginazione e l’esperienza della celebrazione eucaristica. La Chiesa deve concentrarsi di più sulla perseveranza, sull’autenticità, sulla creatività nel continuare la sua missione di essere ecclesia orans; i cristiani devono essere più audaci nel testimoniare il loro essere immersi nelle celebrazioni liturgiche. I teologi liturgisti sono invitati a sviluppare una metafisica credibile che manifesti un realismo cristiano esplorativo, profondamente soteriologico, escatologico e dossologico.
Roberta Foresta