Massimo Recalcati
Amen
Einaudi, Torino 2022
Amen è un testo teatrale appassionato ed appassionante, altamente emotivo. La scrittura si fa, attraverso i suoi personaggi, grido al così sia della vita, alla sua significanza negli accadimenti del mondo, apparentemente assurdo, dove l’io, nella citazione di Samuel Beckett posta in apertura per essere cifra di tutta l’opera, è «come un sassolino in mezzo alla steppa», un essere solo, circondato da «un vuoto infinito». La scrittura di Recalcati, l’atmosfera surreale e i suoi personaggi, una madre, un neonato, un soldato e un uomo chiamato Enne 2, sono l’incarnazione di una esistenza che è domanda sul senso della vita, degli accadimenti, della morte. Sono le domande a prevalere sulle risposte che non emergono, se non che l’unica risposta è il sì all’esistenza, pur nella sua incomprensibilità. Paradossalmente, l’opera è impregnata di citazioni bibliche, di riferimenti metafisici, di metafore sulla trascendenza. Come la luce, senza la quale l’esistenza viene inghiottita nell’oscurità e il bisogno della luce lo si percepisce dalla sua assenza. Senza la luce, l’uomo non si orienta più nello spazio e nel tempo, nel prima e nel dopo. Senza Dio, resta solo il nulla e vengono meno l’amore e la compassione. Il sì alla vita è il desiderio dell’uomo di esistere, di essere felice, l’assurdità non è nichilismo, ma il velamento di una presenza misteriosa, la cui ricerca l’uomo ha abbandonato. La lettura dell’opera coinvolge, l’intensità delle parole si fa immagine, il lettore non può restare indifferente alle voci narranti dei personaggi, alla profonda umanità che li abita, e si sente parte della loro sorte e interpellato dall’appello più forte, etico, di restare accanto a chi soffre, a chi è nel dolore, di condividere la condizione umana che non può sottrarsi all’esperienza del male e del dolore.
Roberta Foresta
Maria Zambrano
Le parole del ritorno
a cura di Elena Laurenzi
Cahiers, Castelvecchi, Roma 2022
Questo libro raccoglie numerosi scritti di Maria Zambrano pubblicati in diversi giornali spagnoli tra il 1985 e il 1990, accomunati da una costante passione per la vita, pur essendo stati prodotti in una molteplicità di tempi diversi. Le sue riflessioni convergono nell’esperienza della storia, che confonde la vicenda personale da lei vissuta nella Spagna del suo tempo con un pensiero che trascende i limiti della contingenza, fino a indagare il senso stesso del tempo. Il suo percorso filosofico è una vera e propria vocazione, la scelta di non poter vivere altrimenti se non come risposta ad una necessità superiore, che la muove dal di dentro, e che motiva e spiega tutto quanto ha vissuto. In primo luogo, l’esperienza dell’esilio dalla Spagna, da lei odiato e allo stesso tempo vissuto come «qualcosa di sacro, di ineffabile», come una sofferenza paragonata ad una crocifissione che le ha permesso di comprendere il senso stesso del suo esistere. L’esilio dalla Spagna, che Maria Zambrano aveva scelto, diventa cifra della condizione esistenziale della vita, spogliata di ogni sicurezza e di ogni ipocrisia. La scrittura è la strada scelta per lasciare un segno, è il modo di agire che rende comunicabile la sua riflessione spirituale. Dio e l’altro, il prossimo, l’altro inteso come il mondo, la patria, la città, sono l’origine e il fine di tutte le sue riflessioni, dell’impegno e del suo bisogno di scrivere, di comunicare ciò che sgorga nel silenzio del suo isolamento interiore. Le parole di questi scritti, nate dopo l’esperienza del ritorno dall’esilio, e qui pubblicate, rappresentano l’atto irrinunciabile di assunzione della storia, in vista di un cambiamento, di una trasformazione, di una ri-creazione nella quale deve trionfare l’amore per la vita. Questa passione per la vita la porta ad indagare ogni aspetto della condizione umana, dentro il proprio tempo, e a denunciare le distorsioni e le contraddizioni dell’umano vivere. La più terribile, la guerra, capace di provocare «la distruzione del mondo che chiamiamo civile, del nostro mondo». Di fronte agli orrori della guerra che lei stessa aveva vissuto, poco prima della sua morte scrive un estremo appello per fermare la guerra del Golfo Persico, e per ricordare i fondamenti religiosi e morali senza i quali non è possibile «stabilire la vita in vista della pace». Perché la pace è «una vocazione, una passione, una fede che ispira e illumina», è «la condizione preliminare per la realizzazione dell’uomo nella sua pienezza, perché la creatura umana è una promessa».
Roberta Foresta
P. Andrea Dall’Asta
La luce colore del desiderio
Percorsi tra arte e architettura, cinema e teologia dall’Impressionismo a oggi
Ancora, 2021
UNA INDAGINE SULLA LUCE. Verrebbe da dire “illuminante” questo nuovo testo di P. Andrea Dall’Asta, gesuita, architetto e teologo. Entrato nella compagnia di Gesù nel 1988, si è sempre occupato del rapporto che intercorre tra arte, liturgia e architettura, avendo al suo attivo numerose pubblicazioni in merito ma anche saggi su particolari che emergono da opere famose, proponendo personali spiegazioni che riconducono sempre alla presenza dell’Altissimo nella vita dell’uomo. Dal 2002 dirige la Galleria San Fedele di Milano, ed ha fondato nel 2014, sempre a Milano, il Museo San Fedele, Itinerari di arte e fede. Andrea Dall’Asta, La luce colore del desiderio. Percorsi tra arte e architettura, cinema e teologia dall’Impressionismo a oggi, Ancora, Milano, 2021, euro 36,00 è il nuovo lavoro di Padre Andrea Dall’Asta, che conclude così il suo percorso iniziato nel 2018 con la pubblicazione della prima parte La Luce splendore del Vero. Luce dunque, una indagine più che un percorso, dove l’autore scandaglia, attraverso autorevoli interpretazioni artistiche del calibro, tra l’altro, di Cèzanne, Matisse, Turrell, una inedita e personale «storia della luce».
Con la sua inconfondibile e concreta capacità di narrare, egli ci conduce alla scoperta del ruolo dell’artista nella storia dell’uomo, e lo fa chiamando in causa ed orchestrando le discipline e con esse i rapporti che legano arte e architettura, fotografia e cinema, filosofia e teologia.
Nel corso del secolo breve, il Novecento, la luce divina non ha più illuminato l’uomo, come era accaduto in passato ma, ci dice l’autore, «si fa materia stessa dell’opera d’arte», ed ecco evocare gli Ambienti spaziali di Lucio Fontana dove l’uomo è chiamato a percepire se stesso in un cammino di «apercezione». Tuttavia appare affascinante la parte dedicata alle avanguardie russe ed in particolar modo a Kazimir Malevich che attraverso la sua maturazione artistica approderà al Quadrato bianco su fondo bianco, cioè la totale astrazione. Dalla tela emergerà solo il bianco della luce, intesa non come assenza ma come essenza, vale a dire come pienezza di quello che è spirituale e trascendente, in altre parole la luce divina, vera protagonista del nuovo libro di Andrea Dall’Asta.
Giovanni Porta
Segnaliamo l’interessante iniziativa delle case editrici Medusa e Mc, l’offerta di due letture gratuite, la prima di Jean Guitton, dal titolo Le stelle e le nebulose non ascoltano l’uomo? e la seconda, di Henri Focillon nella prefazione al libro di Paul Muratoff Trente-cinq primitifs russes. Collection Jacques Zolotnitzky, dal titolo L’icona russa e l’unità spirituale dell’Europa dall’Atlantico agli Urali.
Nel 1955 la rivista francese “Table ronde” ospita, tra i suoi interventi, una sezione dedicata alla possibile esistenza di una pluralità di mondi e di unidentified flying objects (UFO). Tra i tanti intellettuali che intervengono sull’argomento, Jean Guitton è interessato ad affrontare la questione per fondarla dal punto di vista filosofico e teologico. Innanzitutto, egli afferma la necessità di non smettere di interrogarsi anche di fronte a ciò che inquieta, che provoca il risveglio dell’intelletto da quello che Kant definiva essere il sonno dogmatico. Mettersi nella condizione di apertura, destando in sé stessi la domanda, afferma Guitton, è qualcosa di favorevole all’uomo, alla sua crescita. Subito dopo, l’autore comincia con il mettere a confronto atei e credenti proprio sulla possibilità di altre esistenze. Per motivi diversi, in entrambi, vi sono da una parte coloro che giungono a negarne l’esistenza e, dall’altra, coloro che la affermano.
Tra i cristiani, Claudel, per il quale l’ipotesi di una pluralità di mondi era inconciliabile con la fede in Gesù Cristo e Bergson che invece riteneva improbabile l’esistenza di un unico sistema planetario. Ora, di fronte a questo problema che Guitton affermava essere ancora troppo poco esplorato, egli tenta di avviare una riflessione richiamandosi a Bergson, suo amico, che aveva parlato dell’esistenza di pianeti refrattari all’élan vital, come la terra e di pianeti in cui la materia sarebbe stata meno pesante, più docile allo spirito. Dio si sarebbe rivelato più volte? Vi sarebbero state più incarnazioni del Verbo come aveva già ammesso Tommaso d’Aquino? Cosa comporterebbe per l’uomo apprendere dell’esistenza di altri esseri pensanti? Forse, afferma Guitton, Dio nel creare è stato come un seminatore di «galassie di isole pallide a profusione», con una grande quantità di pianeti refrattari dove, tra tanti esseri potrebbe esserci qualcuno a concepire pensieri dolci capaci di intendere il grido di amore dell’uomo. Proprio questo potrebbe cambiare la posizione dell’uomo nell’universo e la percezione di sé, sapere di non essere l’unica canna pensante, come diceva Pascal, tra tutte le galassie.
Le belle icone della collezione Zolotnitzky mostrano il volto di una grande arte del passato, un universo importante per conoscere tutto lo sviluppo dell’arte cristiana, caratterizzata da una molteplicità di aspetti connessi con gli eventi della storia. L’attività creatrice dell’Oriente era unita da continui scambi con l’Occidente, da relazioni e contatti visibili in alcuni caratteri comuni delle loro arti. Guardando alle icone Zolotnitzky, Henri Focillon ritiene si debba approfondire la misura del rapporto tra la pittura russa e l’arte bizantina. Lo studio di Muratoff aiuta in tal senso.
Se all’inizio si impone una definizione dello stile bizantino caratterizzata da una massiccia unità, uno sguardo più attento mostra come a Costantinopoli l’arte non sia uniforme ma appaia connotata da sfumature diverse, talvolta da correnti opposte e con elementi che risultano importati. L’arte della Russia kieviana dove ha origine? A Bisanzio? O vi sono influenze provenienti dalla zona del Caucaso? E successivamente, vi è forse stata una fusione tra l’arte italiana e l’arte bizantina? Piuttosto, secondo Louis Réau, nella sua Histoire de l’art russe, nel XIV sec. tutti i territori sotto l’influenza dei Paleologhi conoscono uno stesso movimento di rinascenza in forme diverse ma unite tra loro, che interessa Bisanzio, la Serbia, l’Italia, la Spagna orientale la regione della Valachia e le terre della Russia. La pittura di Novgorod, in particolare, nel suo splendore, mostra da una parte la forte influenza della pittura bizantina e dall’altra una capacità creativa originale che porta all’invenzione dell’iconostasi. Un ordine architettonico che ha nelle immagini il suo fulcro ma dove queste si adattano alle leggi della convenienza, un unicum rispetto alla pittura monumentale da cui forse ha attinto i primi modelli, alla miniatura, alla pittura decorativa e alla pittura dei manoscritti. Ha una attitudine monumentale, una qualità grafica elegante, un’arte del movimento in un rapporto armonico con l’architettura, con un lirismo che si esprime al massimo proprio nella pittura russa. Le icone della collezione Zolotnitzky sono veri e propri «ritratti nell’eternità», in cui l’intensa purezza dei colori che mostrano combinazioni personali, preziose, perfette e le forme sono un mettere in opera «con una certa arte del dipingere una certa arte del pensare». Dove è lo spirito a guidare la creazione di questa grande arte russa.
Roberta Foresta