Per salire bisogna crederci. Itinerari di fede e di montagna

Alfredo Tradigo
Mimep-Docete, Pessano con Bornago (MI)
pp. 302, 24,00 €

tradigo salire“Un’occasione per l’uomo contemporaneo di confrontarsi con se stessi e il senso del mistero”: ecco, definito in maniera limpida ed essenziale, ciò che avviene a salire su una Montagna, entità il cui significato va ben oltre il suo carattere terrestre e materiale per convertirsi nell’immaginario di tutti, in ogni epoca e cultura, in immagine di un’idea che chiama in causa valori sia fisici che simbolici a livello morale (costanza, saldezza) e spirituale (liberazione dei desideri terreni e progressiva conquista della piena coscienza), rivestendo per noi Cristiani tra Calvario e monte Tabor il senso della Redenzione e della Speranza.

Spazio di una Sfida e di una Promessa, di una messa in gioco di sé e di una conquista, la Montagna non ha mai cessato di rappresentare nella vita e nell’arte una risorsa di arricchimento fisico e fantastico ed è questo che fa in maniera suggestiva ed esauriente Alfredo Tradigo in un libro straordinario, Per salire bisogna crederci. Itinerari di fede e di montagna, che fin dal titolo chiama in causa l’idea dell’investimento delle energie (morali, fisiche e spirituali), necessarie all’impresa, in un intreccio di cui dà conto e ragione il card. Gianfranco Ravasi nell’introduzione.

Chi è Alfredo Tradigo? “Non sono un alpinista”, confessa candidamente l’autore in conclusione. “Ma ho capito che sia l’escursione più semplice che le più impegnative, quelle in cui bisogna calcolare bene rischi e vantaggi, hanno bisogno di una sola cosa, di un solo motore”, la Fede: credere “che quando sarai solo e in difficoltà potrai sempre contare sulla Grande Presenza che tra le cime e sui sentieri, quando la tua vita è appesa a un filo, immancabilmente si rivela”.

Tradigo è un giornalista e scrittore, che da sempre si occupa di arte e cultura. Ha lavorato in molte case editrici, scrivendo in particolare per i settimanali Oggi e Famiglia Cristiana, e vanta tra le sue opere “Icone e santi d’Oriente” (2004), lo straordinario “L’uomo della Croce” (2013), di cui si era già a suo tempo parlato su queste stesse pagine, oltre a varie raccolte di poesia, tra cui L’orto del semplici (2012), un libro nel quale l’io si scopre e sente esposto al vento di una fatale necessità di decifrarsi e decifrare il senso di ciò che lo circonda e determina, in una trama intelligente di giorni, di stagioni, di storie reali e vissute.

Forse è proprio in questa chiave che va letta tutta l’esperienza di ricerca di Tradigo, tra poesia, saggistica e giornalismo, anche quella che si dipana in quest’ultimo libro che si fa apprezzare, oltre che per il contenuto anche per la forma, la gradevolezza estetica, in cui le maestranze della Casa Editrice Mimep-Docete hanno appassionatamente dato il meglio.
Partendo dal principio che la Montagna è il luogo privilegiato della “nostalgia di Dio” e insieme palestra di libertà e occasione educativa, l’autore ci conduce alla sua scoperta come spazio di un rapporto privilegiato con il Mistero, come messa in gioco di sé e momento di una sorta di fecondo ritorno all’origine, attraverso storie, pensieri, riflessioni, parole di grandi alpinisti e testimonianze di gente semplice, ma anche attraverso la Bibbia, il Vangelo, l’arte, la poesia, corredando il tutto con le magiche foto di Pino Veclani, davvero un poeta della fotografia, che del ritrarre il Mistero della Montagna e della capacità di “ascoltare il silenzio” dei paesaggi e delle nevi ha fatto il mestiere della sua vita.

A questo riguardo, un ruolo importante riveste nel libro l’attenzione dedicata all’arte da Giotto a Kandjnsky e alle parole di poeti di grande spiritualità, come Clemente Rebora e Antonia Pozzi, oltre che al ricco patrimonio dei canti che eleggono la montagna come loro fulcro (“Signore delle cime”, “La montanara”, “Il testamento del capitano”) e che costituiscono un momento di ricordo e di edificazione.
Ma non solo questo. Un importante capitolo è quello dedicato ai “Santuari Eremi Sacri Monti”, in particolare ai Santuari Mariani, in cui l’autore spazia in tutta l’Italia, segnalando non solo importanti luoghi di culto ma anche significative leggende che la pietà popolare ha voluto creare nel tempo intorno ad essi: Rocciamelone, Oropa, Tindari, Monte Baldo (manca solo il “mio” Gelbison, in provincia di Salerno).

Non meno importante, è il ruolo assegnato nel libro alla passione per l’alpinismo che ha caratterizzato la figura di Pio XI, il brianzolo Achille Ratti, che da giovane aveva conquistato la cima Dufour, e quella di Karol Wojtyla, Giovanni Paolo II (“il teologo della montagna”), che non aveva mai rinunciato allo sci e alle escursioni in alta quota nemmeno da Papa.

Un libro, come si vede, quanto mai ricco e interessante intorno a un tema come quello delle “Montagne”, per il quale si potrebbero scomodare tanti altri illustri “testimoni”. Ma ne basta qui citare uno soltanto, che pertiene a un ambito, quello della pittura e dell’arte che mi è molto familiare. Il grande critico inglese John Ruskin, uno che di questo se ne intendeva, sosteneva che “le montagne sono il principio e la fine”, non solo “di ogni scenario naturale” ma anche addirittura della pratica pittorica stessa, eleggendone la rappresentazione ad autentico banco di prova della bravura del pittore, memore in ciò forse delle riflessioni di Leonardo da Vinci che all’argomento aveva dedicato non poche annotazioni che si possono leggere nel celebre Codice Urbinate 1270 della Biblioteca Vaticana.

Ma perché questo? Soltanto perché costituirebbero, per il pittore, per l’artista (io aggiungo, il poeta) un esercizio, ancorché abilissimo, di stile e di bravura, o c’ è qualcosa di più profondo, che attiene all’ambito del mistero dell’individuo? A stare alla loro insistenza nell’immaginario degli individui, pare proprio di non potersi sottrarre, se non a riconoscere, almeno a ipotizzare, la loro appartenenza a un ordine simbolico, alla struttura stessa archetipica dello spirito, che le vuole da sempre, in ragione delle loro componenti essenziali (altezza, verticalità, massa, forma), portatrici di una significazione di sacralità, nella loro intermediarietà tra terra e cielo, tra tenebra e luce, tra molteplicità della materia e ascesi morale: crogioli simbolici, momenti di incontro e di espressione, in sostanza, delle polarità stesse della vita (bene e male, amore e odio, fedeltà e tradimento).
È questo che viene fatto di pensare nel chiudere questo libro di Tradigo, che davvero merita di essere letto e religiosamente e ripetutamente riaperto e rimeditato.

Vincenzo Guarracino


La Croce e l’Islam

Ambrogio Bongiovanni

La Croce e l'IslamParte dal simbolo della Croce l’appassionante itinerario proposto dal prof. Ambrogio Bongiovanni nel suo approfondito saggio, La Croce e l’Islam , frutto di molti anni di esperienza e conoscenze nel settore, con lo scopo di indicare una strada per il dialogo tra cristiani e mussulmani.
Dialogo che di cui si avverte, maggiormente in questo periodo storico, l’urgente necessità per tentare di frenare scenari che si delineano sempre più foschi.
Merito di Bongiovanni è di aver affrontato il tema così delicato e divisivo nell’ambito del significato teologico della Croce per entrambe le religioni monoteiste, significato teologico non solo dottrinale, ma che si confronta anche con il dato esperienziale, a cui non sono estranee le discussioni pubbliche, negli scorsi tre decenni, sui simboli religiosi, compreso il crocifisso, sovente strumentalizzato per scopi ideologici; discussioni che mettono in luce come nella società civile serpeggi una diffusa ignoranza sui temi delle religioni, anche sotto il profilo del significato antropologico, oltre che religioso.
Ciò avvalora, ulteriormente, la necessità di dover riprendere i significati più profondi che i simboli assumono nelle varie tradizioni religiose e di smascherare quelle possibili distorsioni che alimentano i fondamentalismi, religiosi e laici.
Partendo dal simbolo della Croce, Bongiovanni presenta e chiarisce alcuni aspetti della religione cristiana e di quella islamica sul tema, con punti di contatto e di diversità, incominciando dalle origini di quelle che sono diventate, poi, differenze che sembrano apparire insuperabili.
Come giustamente sottolineato, nella prefazione al libro, dall’illustre studioso prof. Ismail Taspinar, la presente opera editoriale «può essere vista come uno sforzo per superare i pregiudizi, imparando a conoscere queste due religioni in base ai rispettivi obiettivi».
L’autore, infatti, offre al lettore la possibilità di ripercorrere la storia della Crocifissione nei secoli, sia dal punto di vista dei cristiani, ma anche dei fedeli all’Islam, facendo ricorso ad un metodo ermeneutico basato sul confronto e sulla comprensione delle religioni, senza dimenticare comunque le loro differenze.
Esaminando i testi fondamentali di entrambe le religioni e le relative spiegazioni di teologi e mistici di ieri e di oggi, con riferimenti filosofici e storici ed una vasta bibliografia, viene presentata l’origine dell’immagine del crocifisso nella cultura cristiana, il suo occultamento nei primi secoli, il suo rifiuto da parte degli iconoclasti e la sua ricomparsa nel periodo carolingio.
Dall’altro lato, viene esposta la nascita della religione islamica, evidenziando le tante incomprensioni ed i pregiudizi che hanno inquinato ed ostacolato la comprensione corretta dei testi, le cause che hanno portato i musulmani a considerare, per lungo tempo, la Croce un’ossessione anche di carattere politico, perché simboleggiava l’Impero bizantino, nemico dell’Islam, ma anche mettendo in luce come le ragioni teologiche del rifiuto della crocifissione da parte mussulmana non siano banali o solo di natura polemica, ma poggiano, invece, su un modo particolare di intendere il peccato ed il ruolo della profezia.
Non solo però una ricerca scientifica, ma anche una lettura consigliata a tutti coloro che hanno a cuore il dialogo interreligioso, nel tentativo di stimolare le rispettive spiritualità a mantenere aperta la riflessione e la ricerca di una percorso per ulteriori approfondimenti.
La vera sfida per il futuro del dialogo, sostiene Bongiovanni, « forse la più innovativa e propositiva per un “vero” dialogo, è quella relazionale, cioè essere veramente aperti alle questioni anche più complesse, alla verità e nella verità, senza avere risposte preordinate e preconfezionate».

Il professor Ambrogio Bongiovanni, è direttore del Centro Studi Interreligiosi della Pontificia Università Gregoriana e docente presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale. È consultore del Dicastero per il Dialogo Interreligioso e presidente della Fondazione Magis, della Provincia Euromediterranea dei Gesuiti. Ha insegnato all’Università Urbaniana, al Beda College ed alla Sapienza di Roma. Dal 1990 cura i rapporti con l’India, dove ha vissuto alcuni anni svolgendo attività di ricerca alla Jawaharlal Nehru University di Delhi, al Christian Institute for the Study of Religions and Society e alle Nazioni Unite. È membro di Islamic Studies Association.

Gli anni di Fancello

Maurizio Cecchetti
Edizioni Medusa

fancelloLa fortuna di un artista, si sa, dipende solo in parte dalle qualità intrinseche del suo lavoro. Certo, il suo valore va letto nel tempo lungo della storia; è cosa nota che artisti oggi ritenuti grandi siano stati ampiamente sottovalutati nel loro contesto storico. In ogni caso la scoperta o riscoperta di un artista è sempre una meravigliosa conquista. È necessario, tuttavia, che siano uomini sensibili e competenti, critici o storici, a compiere questo miracolo. Salvatore Fancello – sardo, nato nel 1916 e morto nel 1941 durante la guerra in Albania- è uno di quegli artisti dimenticati, non tanto per poca cura della critica o per mancanza di chiari riferimenti, giacché nomi anche grandissimi si occuparono di lui, e lo incoraggiarono e lo sostennero, ma perché la precoce morte ha di fatto stroncato, complici gli eventi storici, un cammino artistico di estremo interesse. In effetti l’arte di Fancello, una sorta di metamorfico linguaggio che assume il mondo animale come universo di un creativo e immaginario viaggio d’anima, traendo spunto da esso per una favola visionaria, tra immaginazione e realtà, fa trapelare al di là del linguaggio una rara genialità. Maurizio Cecchetti, uno dei più lucidi critici italiani nell’arte di Fancello si è inoltrato sgombro da pregiudizi e soprattutto con strumenti affinati. La sua (testimoniata nel volume: Gli anni di Fancello, Medusa Edizioni, Euro 22,00) non è solo una indagine critica ma anche un’occasione di ricerca, fondata in un un metodo di indagine sperimentale. È questo il merito maggiore del suo lavoro che riporta testi, immagini, riferimenti, citazioni e altresì annotazioni personali, spunti e intuizioni tesi a ricostruire per gradi, si direbbe, nella pienezza della intuizione, la personalità di uno dei più versatili e misconosciuti artisti del Novecento italiano.