L’Eterna Ricerca dell’Uomo

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Tiziana Lorenzetti

In un lontano plenilunio del mese di Vesākha1, un giovane asceta seminudo sedeva ai piedi di un albero, nella lussureggiante foresta che ricopriva gran parte dell’antico Magadha, l’odierno Bihar. Aveva vagato a lungo in quell’ambiente ostile, sopportando privazioni di ogni sorta… e ora se ne stava immobile da giorni, profondamente assorto in meditazione. Nulla lo turbava; né i pericoli della selva, né il caldo cocente, né le piogge monsoniche che scorrevano sul suo corpo emaciato. Si racconta che durante una di queste piogge, particolarmente violenta, un cobra fosse uscito dalla sua tana e, strisciando verso l’asceta, lo avesse riparato con il suo cappuccio. In quella notte rischiarata dalla luna, però, c’era qualcosa di diverso. Il vento era cessato e tutta la foresta sembrava avvolta da un silenzio innaturale, come in attesa…

Buddha in meditazione
1) Buddha in meditazione. VI- VII secolo, Museo di Calcutta © Tiziana Lorenzetti

Improvvisamente, proprio mentre “l’orizzonte a oriente si profilava in una bianca linea luminosa”2, l’uomo eruppe in un grido di giubilo: “È sicura la mia salvezza! Questa è la mia ultima nascita, non c’è più ritorno” (Majjhima Nikaya, 26, I)3.
In quel plenilunio del sesto secolo a.c., l’asceta, che era stato un principe, divenne il Buddha, “l’Illuminato” 4 (Fig. 1).
Egli aveva spezzato quel ciclo perenne di nascite, morti e rinascite – da noi definito reincarnazione, ma in India comunemente noto come saṃsāra5–, che affliggerebbe ogni essere vivente.

Il ciclo delle reincarnazioni e la liberazione

L’idea del saṃsāra è una costruzione grandiosa, alla base di tutti (o quasi) i sentieri religiosi indiani. In una delle sue formulazioni più tarde, il suo nucleo centrale si può semplificare come segue: ogni essere vivente è soggetto ad un ciclo infinito di nascite, morti e rinascite. In ogni vita, dunque, un io sempre diverso emerge e scompare. Ogni nuovo individuo, tuttavia, è legato al precedente dalle azioni compiute che, come per una legge di causa-effetto, producono delle conseguenze (buone o cattive a seconda della natura delle azioni), che si manifesteranno anche nell’arco di molte esistenze.

Il concetto base è che gli esseri umani sono certamente liberi nelle loro scelte ma, appena l’atto consapevole si è compiuto, il frutto dell’azione sfugge alla volontà umana; esso comincia a maturare e si attua inesorabilmente, vita dopo vita. Ciò che incombe su di noi, scrive lo studioso indiano Radhakrishnan, non è un oscuro destino, ma il nostro passato6. Tutto questo è noto come karma.

Vivere, si sa, non è sinonimo di beatitudine e, ogni volta, tornare ad essere un io significa soffrire, lottare, morire; anche i momenti di felicità, che pure allietano l’esistenza, sono in realtà destinati a svanire perché tutto è avvolto dall’impermanenza, da ascese e declini. È quindi di fondamentale importanza non accumulare frutti negativi che non solo danno origine a vite infelici ma, a loro volta, favoriscono il perpetuarsi del ciclo del saṃsāra, con le sue ineluttabili, innumerevoli possibilità di dolore.
Nell’antica India, si fece dunque strada la consapevolezza che solo sfuggendo al ripetersi delle esistenze si sarebbe raggiunta la salvezza e con essa l’immortalità, materiata di beatitudine eterna. Per un occidentale, abituato all’idea di un io che resta tale per sempre, non è facile comprendere questo paradossale coincidere dell’immortalità con la morte dell’io.

La strada che ogni essere umano deve percorrere per distruggere l’ego – non a caso definito ‘l’ostacolo’ dal filosofo e mistico indiano Aurobindo7–, è ardua e comporta una lotta incessante contro agguerriti nemici interiori. Tuttavia, non mancano gli aiuti. Ogni sentiero religioso indica il comportamento da seguire in modo che la devozione, i pensieri e le azioni producano effetti talmente positivi da favorire le condizioni affinchè l’individualità sia superata ed emerga il Sé, quella scintilla divina sempre esistente che arde in ogni essere umano. E poiché per molte scuole induiste il Sé (chiamato ātman), è identico all’Unica Realtà, il brahman, ecco che la salvezza – vale a dire il regno della Libertà–, non è altro che il ‘ritorno’ nella totalità del brahman.

Comincia così a delinearsi la figura dell’uomo che, invece di rassegnarsi a passare molte esistenze accumulando un karma positivo, tale da liberarlo dal ciclo delle rinascite, sceglie un tipo di vita che lo porti più velocemente alla salvezza: la rinuncia al mondo materiale e l’ascesi. In pratica, una vita scevra di qualsiasi lusso e possesso, spesso accompagnata da meditazione e pratiche di mortificazione, che è ancora più straordinaria se pensiamo che, talvolta (come fu il caso del Buddha), questi rinuncianti furono anche principi, vissuti fra agi e opulenza.

Anche in Italia, nel tredicesimo secolo, un uomo di nobile famiglia, l’Autore del Cantico delle Creature, rifiutò i beni paterni e, abbracciata ‘sorella povertà’, uscì nudo dalla sua ricca casa.
In India, questo modello di vita comincia a diffondersi nel sesto/quinto secolo a.c., sull’onda di un periodo di grande fermento culturale, sociale e spirituale. Si trattò di un fenomeno che, nato dapprima in sordina, divenne un vero e proprio movimento, pur diversificato, destinato ad incarnare uno dei più potenti ideali dell’immaginario religioso dell’India.

Rinuncia e Ascesi, la via maestra verso la Liberazione

Chi si reca in India per la prima volta, non può fare a meno di notare una moltitudine di uomini che seguono il cammino della rinuncia.
Alcuni sono facilmente riconoscibili perché seminudi (o completamente nudi), coperti di cenere e segnati dalle pratiche ascetiche (Fig. 2, 3). Sono i sādhu, nome generico per indicare coloro che, avendo reciso ogni legame sociale, vivono di elemosina in luoghi di eremitaggio (soli o in piccoli gruppi), e si riuniscono in gran numero solamente in occasione delle grandi festività religiose. Altri, vestiti di color ocra/zafferano (simbolo del fuoco che ha bruciato l’attaccamento alla vita), sebbene vivano anch’essi di elemosina, restano nella compagine sociale, inquadrati in vari ordini monastici. Qualcosa che precede nel tempo lo sviluppo di quel fenomeno della cristianità, il monachesimo, che tanta importanza assunse nel mondo occidentale dell’alto Medio Evo. Nell’Induismo, questi monaci sono generalmente noti come svāmin (Fig. 4, 5): si tratta di uomini (e donne) che hanno rinunciato a molte cose nella vita privata, ma non alla conoscenza e alla compassione, e per questo si sono assunti l’onere di elargire insegnamenti e guidare i discepoli verso la realizzazione spirituale.

Entrambi, i sādhu e gli svāmin, sono spesso anche yogin (vale a dire seguono il sentiero dello yoga)8; tuttavia, se i primi conservano e presentano affinità con gli sciamani, gli svāmin si collegano agli antichissimi rishi, i mitici saggi veggenti di un remoto passato dell’India, e ai coltissimi monaci buddhisti.
Nei nostri tempi, monaci buddhisti sono presenti anche in occidente, come è facile incontrare anche svāmin induisti che, fin dalla fine dell’800, percorsero la via inversa dei nostri missionari cristiani: dall’India all’Europa e oltre, attraverso l’oceano fino all’America. Pensiamo a Vivekananada e al suo celeberrimo discorso tenuto nel 1893 a Chicago in occasione del Congresso delle Religioni; oppure a Yogananada, che trascorse gran parte della sua vita negli Stati Uniti, fondando in California la famosa organizzazione spirituale ‘Self-Realization Fellowship’.

Nonostante la fama di questi e altri svāmin, tuttavia, sono i sādhu ad essere più celebrati, perfino nell’arte (Fig. 6, 7), e a nutrire l’immaginario collettivo occidentale.

Con i loro rituali di mortificazione corporea autoimposti volti a sopprimere le passioni/volizioni, consumati dal fuoco dell’ascesi, i sādhu attirarono la curiosità anche di Alessandro Magno che li incontrò durante la sua spedizione in India. In realtà, si trattò forse di asceti jaina o ājīvika9, accomunati dalle dure pratiche ascetiche e perciò paragonabili ai sādhu. Le fonti greche, comunque, li chiamarono gimnosofisti, vale a dire ‘filosofi nudi’.

Per tutto il Medioevo, poi, complici i racconti fantastici degli autori classici, nei quali l’India appariva come una “terra incognita” abitata da popoli dalle più strane usanze, i sādhu non cessarono di attirare l’attenzione degli europei. E questo interesse continuò anche nei secoli successivi, quando l’apertura delle nuove rotte oceaniche aveva incentivato un numero sempre crescente di mercanti, missionari e intellettuali europei a salpare verso ‘le Indie Orientali’. Nei resoconti di questi intrepidi viaggiatori, infatti, fra le particolarità di quelle terre, si menzionano anche i sādhu, chiamati da alcuni erroneamente fakiri.

Ad esempio, lo storico e geografo inglese Thomas Salmon scrive:
“I Fakiri sono tenuti in grande considerazione. Vivono in austerità grandissima. Si spargono cenere fra i capelli, vanno in giro ignudi. Alcuni fanno voto di rimanere immobili per molto tempo. O stare con le braccia alzate. Alcuni non si siedono mai e per dormire, sempre dritti, si appoggiano a una fune legata fra due alberi”10.

Il sādhu, colui che a tutto rinuncia

Nelle grandi festività religiose induiste (una delle più famose è quella del Kumbha Mela, la ‘Festa del Vaso’), fra un brulicare di pellegrini, mercanti astrologi e turisti, si possono incontrare anche schiere di svāmin e sādhu.
Questi ultimi, anch’essi organizzati in sette o confraternite, sono oggetto di grande devozione fra i fedeli induisti, che non nascondono un certo timore reverenziale. Nudi, o coperti di pochi cenci, cosparsi di cenere e con le chiome lunghissime e incolte, i sādhu danno all’occidentale la sensazione di un salto indietro nel tempo, quasi si fosse proiettati nel terzo–quinto secolo della nostra era, davanti a certi penitenti cristiani, avvezzi a mortificazioni, astinenze, digiuni e flagellazioni, così ben descritti dal premio Nobel Anatole France nella sua Taide.

Nonostante la loro somiglianza con un passato remoto del Cristianesimo, tuttavia, non è facile avere e dare un’idea chiara dei sādhu perché le loro radici affondano in un substrato di antichissimi ordini di idee magico-religiose e riti sciamanici.
Una delle prime nozioni di ascetismo sembra ricorrere nel Ṛgveda, un antichissimo testo appartenente alla cultura di popolazioni indoeuropee, gli Arii, attestati in India fin dal secondo millennio a.c. Essi erano portatori del nucleo originario della tradizione vedico-brahmanica (così chiamata dai loro testi, i Veda) da cui deriverà quella eterogenea religiosità che noi chiamiamo Induismo.

In questo testo, la più antica opera della cultura indoeuropea, sono citati gli yati e i muni (Ṛgveda viii 3, 9; x 136, 2-4), figure che, sebbene alquanto sfumate, possono essere avvicinate al modello dell’asceta. Yati, derivante dalla radice sanscrita yat, che significa associarsi, unire, potrebbe collegarsi a persona che si controlla (cioè che sa controllare la mente); questo spiega forse perché gli yati siano generalmente definiti un antico ordine di asceti. Quanto ai muni, termine che rimanda etimologicamente a impulso, volontà e, per traslato, un uomo mosso da un vivo impulso interiore, essi vengono citati come “coloro che hanno il vento per cintura e le vesti screziate di giallo […], [che] guardano dall’alto tutte le diverse forme e trasvolano ovunque” (Ṛgveda x 136, 2-4). Ad essi, dunque, sembra attribuita quella capacità di volare che è il maggior contrassegno dello sciamano.

Nell’immaginario simbolico di molte tradizioni antiche, l’esperienza mistica del volo ha il significato primario del superamento della condizione umana e l’accesso ad una sfera, propria dello spirito, caratterizzata dalla libertà di muoversi in tutte le direzioni, al di là dei vincoli terreni e, soprattutto, di raggiungere i cieli. Non a caso, i testi buddhisti parlano dell’Arhat (il saggio, colui che è ‘degno di venerazione’) che spicca il volo verso l’alto, attraversando il tetto della casa. Nell’identificazione della casa con il cosmo e il corpo umano e nel collegamento della verticalità con la luce, si esprime magistralmente la fuoriuscita dal mondo materiale e l’entrata nel regno celeste; un viaggio che è presente in diversi contesti religiosi, non escluso quello cristiano, dove il ‘Cristo è salito al cielo e siede alla destra del Padre’.

Ma torniamo in ambito indiano. Oltre che nel Ṛgveda, anche in un altro testo più o meno coevo, l’Atharvaveda, si possono rintracciare delle anticipazioni della figura dell’asceta-rinunciante. Qui, infatti, si parla del vrātya, una figura che, per certi versi, può essere paragonata a quella del rinunciante dedito a dure pratiche ascetiche. In particolare, si dice che il vrātya “restò in piedi per un anno” (Atharvaveda xv, 3,1).

Storicamente parlando e anche dal punto di vista delle opinioni controverse di cui i vrātya sono oggetto, l’ipotesi forse più convincente attribuisce loro origini al di fuori della tradizione brahmanica/induista, cosa che evidenzia come, in India, il fenomeno dell’ascesi, non certo unitario, affondi le sue radici in diversi contesti culturali.

A parte queste origini remote, tuttavia, fu solamente dal sesto/quinto secolo a.c. che, come abbiamo accennato, è documentata con maggior chiarezza la figura dell’uomo che, disdegnando le antiche pratiche rituali, abbandona il mondo materiale per liberarsi dal doloroso saṃsāra e per unirsi all’Unica Realtà, sostrato di ogni forma esistente.
In ambito induista, è nelle Upaniṣad, una delle letterature più suggestive dell’India11, che si
riverberano queste linee di pensiero.

Nella Muṇḍaka Upaniṣad (I, I 3-9), si dice infatti che esistono due forme di conoscenza: una inferiore, costituita dallo studio dei testi sacri e dalla pratica dei riti; l’altra, superiore, che permette di raggiungere l’Indistruttibile, l’Imperituro. Questa via è quella dell’ascesi. Ed ancora, è detto che coloro che dimorano nella foresta dediti all’ascesi, che vivono di elemosine e sono sereni e liberi da ogni passione, costoro, giungono là dove si trova lo Spirito Universale (Muṇḍaka Upaniṣad I, II 10-11).

Con il passare dei secoli, il ritirarsi in luoghi remoti, lontani dai centri abitati, cominciò ad essere una consuetudine sempre più diffusa sia fra illustri sovrani12, sia fra gli uomini comuni, tanto che in alcuni testi l’allontanamento dalla famiglia e dalla società in favore del romitaggio (più o meno ascetico) è addirittura prescritto, almeno in una certa fase della vita. Quest’uomo rinunciante è chiamato generalmente saṃnyāsin.

Si sta sviluppando un fenomeno che, negando gli antichi dei e i riti sacrificali di un’era ormai sbiadita, si è trasformato in un rito interiore; un sacrificio anch’esso, un’offerta di sé stessi, celebrato da schiere di asceti e rinuncianti alla ricerca della Liberazione che, nella sua profonda significazione, è un dramma psicologico dalla profonda valenza trasformativa.

Bibliografia

Della Casa C. (ed.) Upaniṣad, Torino 1976.
Griffith R.The Hymns of the Ṛgveda, New Delhi 1995
Milanetti G., «Why Would a King Become an Ascetic? A Few Political Answer From Hindi Medieval Literature» in P. Rossi – C. Pieruccini (edd.), Kings and Ascetics In Indian Classical Literature, Milano 2009, pp.267-295.
Piano S.Sanatana-Dharma Un incontro con l’induismo, Milano, 1996.
Radhakrishnan-Sarpevalli, La Filosofia indiana, II, Roma 1991-1993
Salmon T.Lo stato presente di tutti i paesi e popoli del mondo naturale, politico, e morale con nuove osservazioni, e correzioni degli antichi e moderni viaggiatori, IV,Venezia, 1731–1766 (traduzione dall’originale inglese The Present State of All Nations e stampa di G.B.G. Albrizzi).
Schuman H. W.Il Buddha Storico, Roma 1986.
Shri A.Considerazioni e Pensieri, Milano 1943,p.16.
Whitney Dwight W. (tr. It.), Atharvaveda Saṁhita, II, New Delhi 1962.


NOTE
1 Secondo il calendario solare induista, il mese di Vesākha corrisponde ai mesi di Aprile–Maggio del calendario gregoriano.
2 Schuman H. W., Il Buddha Storico, Roma 1986, p.71.
3 Il Majjhima Nikaya o “Discorsi di media lunghezza” del Buddha, sono parte del Sutta Piṭaka, una delle tre collezioni di testi che costituiscono la letteratura canonica del buddhismo.
4 L’esatto periodo in cui visse il Buddha è controverso; secondo la tradizione, si tratta del VI secolo a.C. Secondo studi recenti, egli sarebbe vissuto uno o due secoli dopo.
5 La parola saṃsāra, deriva dalla radice sanscrita s½ ‘muoversi’ e dal preverbo sam ‘con’. Cf s. piano, Sanatana-Dharma. Un incontro con l’induismo, Milano 1996, 62.
6 Sadhakrishnan Sarvepalli , La Filosofia indiana, Roma 1991, I, p. 225.
7 Shri Aurobindo (Aravinda Ghose 1872-1950), in una raccolta di pensieri, scrive che l’ego è importante e fu di aiuto, ma poi diventa l’ostacolo. Cf Shri Aurobindo, Considerazioni e Pensieri, Milano 1943, p. 16.
8 Lo yoga è tutt’altro che una serie di posizioni come, purtroppo, si intende in occidente. In realtà lo yoga è una filosofia, dove le molteplici posizioni (āsana), appartengono ad uno sviluppo tardivo, nato da apporti eterogenei.
9 Il Jainismo e l’Ājīvika furono movimenti filosofico-religiosi contemporanei del Buddhismo.
10 T. Salmon , Lo stato presente di tutti i paesi e popoli del mondo naturale, politico, e morale con nuove osservazioni, e correzioni degli antichi e moderni viaggiatori, IV, Venezia 1731–1766, (traduzione dall’originale inglese The Present State of All Nations e stampa di G. B. G. Albrizzi).
11 Il temine Upaniṣad significa etimologicamente ‘sedersi ai piedi di un Maestro (per ascoltare ciò che dice)’. Si tratta di un corpus di oltre cento opere che si snodano via via nei secoli, seguendo lo sviluppo del pensiero indiano. Realizzate in versi o in prosa (la forma del pensiero speculativo), le Upaniṣad più antiche risalirebbero, non senza qualche incertezza, al VII secolo a.C..
12 G. Milanetti, «Why Would a King Become an Ascetic? A Few Political
Answer From Hindi Medieval Literature
» in P. Rossi – C. Pieruccini (edd.), Kings and Ascetics In Indian Classical Literature, Milano 2009,pp. 267-295.