MN
Massimo Naro
Massimo Naro conduce il lettore a compiere un viaggio volto a comprendere la bellezza in Divo Barsotti. Esperienza percepibile attraverso i sensi corporei, la bellezza non concerne solo la dimensione dell’apparire ma anche e soprattutto la dimensione dell’essere, che fa risplendere il mistero nella verità e nella bontà del reale. La gloria di Dio è la somma bellezza che risplende in una bellezza che non ha nulla in comune con la bellezza fisica, umana.
Rediscover the attitude of the Poet by Massimo Naro
Massimo Naro leads the reader on a journey to understand beauty in Divo Barsotti. Experience perceptible through the bodily senses, beauty does not concern only the dimension of appearance but also and above all the dimension of being that makes the mystery shine in the truth and in the goodness of reality. The glory of God is the supreme beauty which has nothing in common with physical, human beauty.

Divo Barsotti (1914-2006) è uno di quegli autori di cui è molto difficile parlare: più che parlare su di lui, chi s’è immerso nella lettura dei suoi scritti – anche di quelli inediti, conservati presso l’archivio della postulazione della sua causa di beatificazione, che, come in questo caso, mi sono tornati utili per queste mie riflessioni – non può fare altro che parlare con lui, in una sorta di dialogo interiore: rivolgendogli domande, chiedendogli chiarimenti, esprimendogli consenso, al limite illustrandogli delle obiezioni.
Ma, in definitiva, è difficile sintetizzare il suo pensiero: ogni sua affermazione, a volte ogni sua singola parola, dà adito a quel lavorio intellettuale e spirituale cui ho appena accennato, e pertanto impegna in un lungo e articolato ripensamento del suo pensiero. Vale pure per il tema della bellezza. Per parte mia reputo conveniente rivisitare il tema della bellezza in Barsotti sviluppando una riflessione in tre punti.

 

1. L’ontologia ripensata in chiave estetica

 

Nel primo di questi punti si tratta di evidenziare come in Barsotti la bellezza da tema estetico passi a essere un tema ontologico, o più precisamente come l’ontologia sia da Barsotti ripensata in chiave estetica.
Difatti, la bellezza è di per sé un tema estetico: ha, cioè, a che fare con quella che i greci chiamavano la aísthesis, con la “sensazione”, con ciò che si può percepire tramite i sensi corporei: con la vista nel caso di un’opera d’arte o di uno spettacolo artistico, oppure di un paesaggio naturale o di un fenomeno fisico; con l’udito nel caso di un discorso, di una lirica, di una melodia o di un componimento musicale; con l’olfatto nel caso di un profumo o di una fragranza; col gusto nel caso di un cibo o di una bevanda; col tatto nel caso di un qualcosa di corporeo, come il corpo umano, ma pure un tessuto pregiato, una pietra preziosa, una statua bronzea o marmorea, una pianta delicata. Insomma, la bellezza è, nelle sue varie forme ed espressioni, aísthema: un dato sensibile, un qualcosa di sensibilmente percepibile, ragion per cui occuparsene significa appunto fare un’esperienza estetica, oppure anche maturare una riflessione estetica. La bellezza, in questa prospettiva, è un tema estetico.

 

Tutto ciò ovviamente vale anche per Barsotti. Ma per Barsotti i sensi non sono solamente quelli fisici, corporei. Ci sono anche i sensi spirituali, giacché l’essere umano non è costituito soltanto da una dimensione fisico-corporea, come pure tutta quanta la realtà non consiste soltanto nelle sue espressioni fenomeniche, fisiche e materiali. L’essere umano e il mondo in cui egli è situato costituiscono una realtà complessa, fatta di fenomeni cangianti e mutevoli ma anche di un fondamento permanente: un fondamento ontologico, il fondamento dell’essere. Ecco perché anche la bellezza, per Barsotti, è un fatto complesso, che accade in svariati fenomeni ma che sta nondimeno in un suo fondamento saldo. Anche la bellezza, cioè, ha a che fare con la dimensione dell’essere, non solo con quella dell’apparire e del percepire quest’apparire.

 

E, innanzitutto, la bellezza ha a che fare con l’essere dell’uomo: perciò essa è anche un tema ontologico. Parlando ai membri della Comunità dei Figli di Dio, il 15 maggio 1958, data in cui quell’anno cadeva la solennità liturgica dell’Ascensione, Barsotti non a caso affermava che «è attraverso la bellezza che l’uomo è guidato, è per la bellezza che l’uomo si incammina, si muove». Questa frase riecheggia l’antica ontologia greca, tuttavia rivisitandola in chiave estetica. Per i filosofi greci l’essere era il principale dei misteri e, anzi, il mistero principiale: dall’essere deriva tutto ciò che esiste, nell’essere è incardinato tutto ciò che c’è. Già i pensatori della scuola eleatica, che faceva capo a Zenone e a Parmenide, avevano compreso che ho ôn synèchei emâs: vale a dire che l’essere in quanto tale ci avvolge da ogni lato e perciò ci porta in sé e ci conduce con sé, imprimendoci movimento, contagiandoci la vita e quindi facendoci esistere. Barsotti a sua volta si concentra su quello che chiama insistentemente in causa come «il mistero della bellezza», così cambiando i connotati all’ontologia greca: egli sostituisce all’essere la bellezza, che per lui è il vero fondamento di tutto e per tutti: «è attraverso la bellezza che l’uomo è guidato, è per la bellezza che l’uomo si incammina, si muove».

 

San Paolo aveva fatto, a suo tempo, un’operazione simile, anche lui traducendo l’ontologia metafisica greca in una nuova ontologia, più relazionale: cioè in una ontologia agapica, perciò non esclusivamente e astrattamente metafisica, bensì storico-salvifica. In 2 Cor 5,14 aveva infatti scritto: he agapê toû Christoû synèchei emâs, l’amore di Cristo ci avvolge e ci conduce. Barsotti si sintonizza con san Paolo, giacché concepisce la bellezza proprio come una sorta di legame, di nesso, di relazione fondamentale: essa rappresenta l’«unità» fra il vero e il bene e perciò garantisce coesione e tenuta all’intera realtà, la quale risulta dall’intreccio tra Verità e Bontà. Questa argomentazione rievoca il discorso sui cosiddetti trascendentali dell’essere, su cui la filosofia antica e poi anche la teologia medievale si erano lungamente soffermate a riflettere.

 

Il reale altro non è che l’essere nella sua costitutiva verità e bontà. Barsotti lo spiegava già nella sua meditazione del 1958: «Ora, “esse, esse verum et esse bonum ad invicem convertuntur” dice la Scolastica – “essere, esser vero, esser buono, è la medesima cosa”». In quest’ottica, verità e bontà esprimono parimenti e insieme l’essere nella sua unità. Ma per valorizzare questa loro attitudine a esprimere l’unità dell’essere interviene proprio la bellezza, che è – spiega Barsotti durante un ritiro spirituale predicato a Milano l’8 dicembre 1962 – «“splendor”, splendore della verità e splendore del bene. Cioè, non è semplicemente il bene, ma il bene in quanto è diffusivo; non è soltanto la verità, ma la verità in quanto è diffusiva. Splendore vuol dire diffusione». E in un’omelia tenuta a Casa San Sergio il 31 ottobre 1992 spiega ulteriormente:

«La filosofia e la teologia riconoscono come fondamento di ogni cosa creata, e di Dio stesso, tre trascendentali: l’Unità, la Verità e la Bontà. Dopo il peccato questi trascendentali si direbbe che siano entrati in lotta fra loro. L’essere di per sé è sempre uno, vero e buono; ma spesso la Verità sembra andare contro la Bontà e la Bontà contro la Verità, per cui l’unità stessa dell’essere sembra venir compromessa. Di qui l’importanza che ha la bellezza, anche se fino ad ora se ne è parlato poco sia nella teologia che nella filosofia. La bellezza è un grande mistero. Solo la bellezza attira il cuore dell’uomo, solo la bellezza ci lega alle cose, tanto che non possiamo accettare né la Verità, né la Bontà, se non si manifestano a noi come bellezza pura. La bellezza non esiste senza la Verità e la Bontà, perché non è altro che il fulgore di questi due trascendentali. Pertanto sebbene la bellezza non sia più importante della Verità e della Bontà, tuttavia questi due trascendentali non hanno il potere di legare [conquistare, affascinare] il nostro spirito, se non si manifestano a noi come bellezza. E la bellezza in che cosa consiste? Non è soltanto il fulgore della Verità. La Verità scissa dalla Bontà ci offende; l’uomo si difende. Lo stesso dicasi della Bontà, che se non ha il fulgore della bellezza, diventa un peso per l’uomo anche come esercizio di virtù. L’ascesi è mortificante per la nostra natura, perché la Bontà si impone al nostro spirito senza che il nostro essere ne sia conquistato. E allora è necessario uno sforzo, un impegno volontario, per farci rimanere fedeli. È duro seguire volontariamente il Bene, se il Bene non ci attira come bellezza. Altrettanto vale per la Verità». Insomma: «Né la Verità, né la Bontà possono essere amate, se non sotto il volto della bellezza».

Come si vede, la bellezza ha – secondo Barsotti – una qualità relazionale, lega insieme la verità e il bene, garantendo così l’unità del reale: mi pare, questa, un’interessante reinterpretazione estetica dell’ontologia classica.

 

2. L’estetica come passaggio dall’etica all’esperienza estatica

 

Dall’orizzonte ontologico, poi, Barsotti passa sul piano esistenziale: la bellezza, per lui, ha a che fare soprattutto con la vita dell’essere umano e perciò configura pure una radicale questione antropologica. O, più precisamente, una questione teologico-antropologica.

Barsotti – in questa prospettiva estetica – ripensa anche il problema dell’autonomia umana rispetto a Dio, tema questo di grandissima rilevanza nella tarda modernità, a partire da Kant. Per il quale l’essere umano – nel secolo dei lumi, della maggiore età – deve una buona volta affrancarsi da ogni eteronomia, vale a dire da ogni ingerenza esterna su di lui, anche da quella di Dio. Per questo da un regime antico di teonomia, in cui l’uomo si sottomette religiosamente alle leggi divine, si deve passare a un regime di autonomia, in cui l’uomo obbedisce finalmente solo alla propria coscienza, scoprendosi artefice di se stesso, del proprio destino nel mondo, del mondo stesso che egli può conoscere nelle sue più intime fibre e nei suoi dinamismi evolutivi, e che perciò può anche dominare e organizzare a proprio vantaggio, riplasmandolo secondo i propri bisogni.

 

Kant, smarcando l’uomo dalla sua dipendenza da Dio, metteva in crisi il concetto di creaturalità ed enfatizzava invece quello di creatività: l’uomo non è un’inerte creatura, dipendente come tale dalla volontà di Dio; è, piuttosto, creatore di sé e del proprio mondo. Barsotti invece, dal suo punto di vista specificamente teologico, rimette in circuito la creaturalità con la creatività, poiché considera la creaturalità come creatività. Lo spiega efficacemente l’8 dicembre 1962, affermando che la creaturalità dell’essere umano è sui generis rispetto alla creaturalità del resto della creazione: la creaturalità dell’uomo, lungi dall’essere inconsapevole dipendenza da Dio, è piuttosto responsabilità, cioè capacità di rispondere a una chiamata, di corrispondere a una proposta. Dio crea l’essere umano, lo fa esistere, chiamandolo a uscire dal nulla, interpellandolo, rivolgendogli un invito. L’essere umano, a sua volta, esiste in quanto asseconda questa chiamata: viene ad essere, si sveglia all’esistenza, proprio perché accetta di destarsi, di divenire interlocutore di Dio che lo evoca. L’uomo non si crea da sé: è Dio che lo crea. Ma l’uomo, comunque, si lascia creare. E in questo lasciarsi creare sta la valenza attiva dell’umana creaturalità, che quindi è anche creatività. Per questo motivo a lui, e solo a lui, il Creatore affida il compito di rappresentarlo in seno alla creazione, partecipandogli la prerogativa di chiamare a sua volta le creature con il loro nome, assegnando cioè loro un destino, svelando loro una vocazione, comunicando loro il senso della loro stessa esistenza. A tal proposito, così Barsotti diceva nel 1958:

«Bisogna che noi perdiamo l’atteggiamento scientifico di fronte alla creazione per ritrovare l’atteggiamento del poeta. È l’atteggiamento religioso che l’anima deve rivestire; è il poeta che è aperto a riconoscere un altro mistero, il mistero cioè, se non di Dio, del divino, del sacro. Bisogna riacquistare quest’occhio, questo udito che attraverso le cose ci mette in comunicazione con un’altra parola e con un’altra luce da quella che immediatamente le cose ci danno».

Anche noi intuiamo qualcosa del genere quando ascoltiamo il timbro assoluto della parola divina in Gen 1,26: «Facciamo l’uomo». A chi rimanda questa strana coniugazione plurale del verbo fare? Se davvero è Dio che sta parlando in quel supremo momento, allora certamente sta parlando l’Unico. Con chi sta perciò parlando? Le interpretazioni, nel corso dei secoli, sono state varie. Io, pur senza ignorare l’importanza di tutte queste interpretazioni, reputo che il plurale con cui Dio parla in Gen 1,26 sia interlocutorio, colloquiale, come tale già includente l’essere umano, già a lui rivolto: Dio crea l’essere umano rivolgendoglisi, anche se ancora l’essere umano non esiste; e gli si rivolge proprio per far sì che esista. Così l’essere umano, al culmine del sesto giorno, viene creato per essere interpellato ed è interpellato per essere creato. In questo senso la creazione dell’essere umano è un evento relazionale, è un kairós vocazionale: Dio crea l’essere umano non semplicemente parlando di lui tra Sé e Sé, o chissà con chi, ma parlando con lui. E Adamo, così creato, viene reso responsabile: reso abile, cioè, a dare una risposta a Chi gli rivolge la Parola, abilitato a rispondere a Chi gli si comunica. Anche Barsotti mi pare sposi questa ermeneutica, benché la argomenti diversamente, con queste sue altre parole:

«Una pietra, per essere quello che è, ha dovuto soltanto essere creata da Lui; la pietra per essere non ha messo nessun concorso, non ha minimamente risposto alla parola divina, perché non poteva nemmeno collaborare alla sua creazione, alla sua perfezione, all’essere suo. Questo ha di proprio invece la parola di Dio, quando si rivolge all’uomo: che l’uomo è sollecitato da questa stessa parola a una divina collaborazione. Dio è tuo creatore, ma non senza di te; Dio opera la tua perfezione, ma precisamente attraverso il concorso delle tue stesse potenze. Egli non ti fa che attraverso la tua medesima azione. È certo Dio che suscita in te questo potere; perché se la parola di Dio non si rivolgesse a noi, noi non potremmo collaborare con Lui. Ma proprio questa è l’efficacia infinita della divina parola, quando si rivolge all’uomo: che rende l’uomo capace di rispondere a Dio, che rende l’uomo capace (ed è immensa questa verità) di collaborare ai piani divini».

E ancora:

«La collaborazione dell’uomo all’atto creativo divino è […] un riconoscere la propria impotenza, è un lasciarsi compiere da Dio, un lasciarsi perfezionare da Lui; non solo un accettare, ma un volere che Dio veramente compia Lui quello che deve compiere, che Egli sia veramente il nostro creatore. Allora la nostra collaborazione all’atto divino in che consiste praticamente? Dio rimane il creatore; la nostra collaborazione è nell’accettare che Egli sia il creatore, nell’accettare che Egli faccia, che Egli porti a compimento quello che ha iniziato; è un lasciarsi possedere da Lui, un lasciarsi compiere da Lui; che si sostituisca all’esercizio umano dell’intelligenza la visione divina; che si sostituisca all’esercizio della volontà nella vita morale la grazia e nella grazia la vita di Dio; che si sostituisca in qualche modo alla condizione terrestre, che ora tu possiedi in quanto vivi in un corpo, la condizione di coloro che ricevono nuovamente un corpo da Dio nella resurrezione finale».

Molti dei termini qui usati da Barsotti hanno un valore peculiarmente estetico: lasciarsi compiere, grazia, visione, corpo, corpo risorto. Sono termini che ci suggeriscono che l’essere umano in tanto può essere artefice in quanto è artefatto, fatto ad arte da Dio. Ed è così che l’uomo assomiglia davvero al suo Creatore, tanto da esser non solo sua creatura ma anche creatore a sua volta.
Barsotti lo intuisce lucidamente, elaborando una sua iconologia a partire da Gen 1,26. Sempre l’8 dicembre 1962, commentando la figura mariana della tota pulchra, spiega:

«Che cos’è l’icona? Icona, nel valore che ha nella lingua greca ed ebraica, equivale a immagine. Sapete che cosa vuol dire: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”? Vuol dire che Dio stesso, in questo atto, si manifesta; perché immagine di Dio è Dio stesso, è Dio in quanto si manifesta. Il mondo fisico diviene l’ostensorio della divinità. Dio in qualche modo si rivela, si scopre attraverso il mondo fisico divenuto immagine di Dio: il corpo umano. È una cosa che veramente dà un po’ le vertigini: che rapporto ci può essere tra il mondo fisico e la divinità?».

E a tale domanda, Barsotti stesso risponde:

«La bellezza dell’uomo è questo: far sì che il corpo divenga […] ostensorio della divinità: ed ecco la teologia dell’icona».

L’ideale estetico – che, come vedremo, è anche l’ideale spirituale – dell’essere umano è divenire pura trasparenza della divina presenza, come Barsotti annota il 5 gennaio 1985 nel suo diario intitolato Nel cuore di Dio.
È significativo questo approdo estetico della riflessione teologica di Barsotti. Per lui «quando la teologia ci parla della vita beata, della beatitudine umana, non ce ne parla in termini di attività morale, non ce ne parla che in termini di attività estetica: una contemplazione della gloria di Dio: la bellezza» (1962). È come dire che l’estetica fa lievitare e levitare l’etica in esperienza estatica. Questo vale in prospettiva escatologica, come Barsotti spiega nel 1992 predicando a Casa San Sergio:

«Infatti che cosa sarà la vita del cielo? Non sarà esercizio di bontà, non sarà ricerca del vero; sarà pura bellezza. La vita del cielo è concepita anche dai teologi in una dimensione estetica, in una dimensione cioè di bellezza: è la visione. E la visione non ti attrae, non ti lega a sé, se non è pura e infinita bellezza. Infatti sarà la pura e infinita bellezza di Dio che ci attrarrà in tal modo che noi non riusciremo mai più a togliere il nostro sguardo da Lui».

Ma la perfezione escatologica va germogliando e maturando già durante l’esistenza storica di ciascun credente, ne costituisce la più importante vocazione, come Barsotti avverte predicando a Casa San Sergio (1992):

«Miei cari fratelli, noi dobbiamo essere belli. L’ideale del cristiano è la bellezza».

Joseph Ratzinger, quando era ancora cardinale, ha affermato che «[…] la vera apologia del cristianesimo sono da un lato i santi, dall’altro la bellezza che la fede è stata capace di generare». I monumenti cristiani e i santi, cioè, concorrono nel palesare il vero significato del cristianesimo. Barsotti, dal canto suo, ha intrecciato ancora più intimamente santità e bellezza, facendole coincidere come le due facce di una medaglia:

«E la santità è questo: essere l’immagine, lo specchio della Divinità. Ed essere lo specchio della Divinità è questo: aver raggiunto quella perfezione che ci dona una divina bellezza, che ci fa splendere non più di una verità nostra, di un bene nostro, ma della Verità e del Bene che è Dio. Dio per noi si irraggia e risplende. La teologia dell’icona [questo dice]: attraverso l’uomo è Dio che si fa presente e si rivela. Vi sembra poco? Volete qualche cosa di più?».

Lo affermava nel 1962, ma ancor prima – nel 1958 – aveva dichiarato:

«La santità, più ancora che virtù, è bellezza. Non ogni virtù fa sì che l’uomo sia santo, ma quel che è il segno della presenza di Dio, quel che trasparisce Dio lo fa santo ed è già bellezza». «Non esiste altra bellezza che la santità», «ché la santità è la vera bellezza». E precisava: «La santità dunque dobbiamo vederla intanto come bellezza spirituale. Solo se noi la contempleremo così la santità stessa avrà un fascino per noi, il fascino più grande, il potere maggiore».

Questo culmine agiologico della riflessione estetica rimarca una convinzione tetragona di Barsotti: i santi sono – in definitiva – capolavori d’arte e gli artisti dovranno esser santi. Riemerge la coincidenza di creaturalità e di creatività: i santi sono artefatti, fatti ad arte; e gli artefici, coloro che fanno arte, dovrebbero esser santi. Barsotti lo spiegava in una meditazione del 22 febbraio 1962 rivolta ai partecipanti a un laboratorio artistico. Esortandoli a essere «santi e artisti», chiedeva loro che la loro arte fosse «la testimonianza sincera della vita di Dio attraverso l’ago, il pennello, la pietra». La creatività artistica sta, dunque, nel mettersi a disposizione dell’estro divino, al limite scomparendo pur di lasciar trasparire Dio. L’opera dell’artista è proprio lasciar emergere la bellezza più autentica, che è Dio stesso. Per questo i santi sono viventi opere d’arte e al contempo veri artisti:

«San Francesco d’Assisi è l’ultima grande opera di arte sacra. L’artista vero è umile, sarà grande quando vorrà non esprimere se stesso, ma Dio, anche in un corporale. Quando l’anima vorrà dare il senso del sacro dovrà scomparire. I grandi artisti del Medioevo che hanno fatto le cattedrali, come la Basilica di San Francesco, non si conoscono. Dinanzi a Dio l’uomo scompare e si sente beato di ciò che esprime Dio: proprio per far presente Dio, deve scomparire. L’arte sacra rinascerà quando gli artisti saranno santi e la loro attività sarà la ricerca di Dio».

E già nel 1958 aveva spiegato:

«I più grandi rivelatori di Dio non sono gli uomini più grandi, sono invece gli uomini che a un certo momento spariscono, in modo che in essi non si vede più che il Signore – non hanno peso umano e sono pura trasparenza del cielo: Francesco d’Assisi, il poverello, Serafino di Sarov, il Curato d’Ars, Antonio… sono i grandi testimoni di Dio. Come uomini essi sono, si direbbe, nulli: è proprio la nullità dell’uomo che permette a Dio di essere tutto. […] I santi! Proprio per questo mi sembra che la bellezza spirituale la rivelino più i vecchi dei giovani, anche fra i santi, i monaci più degli apostoli, i malati, i cadenti più dei sani, i mendicanti più che le persone che nella Chiesa hanno rivestito una maggiore autorità e una missione più grande. […] Effettivamente, penso che siano proprio questi coloro che lo rivelano: i pazzi per Cristo, i mendicanti, gli umili, i cadenti, i vecchi, i malati. Trasparisce da questa povertà umana, da questa umana umiltà, una bellezza che la dignità di altri santi non manifesta. Gli altri ci interessano anche per se stessi, questi ci interessano soltanto per Dio. La bellezza è questa. No no, non è il visino di santa Teresa del Bambino Gesù accomodato nelle fotografie e nei dipinti di suor Celina, che persuade: è invece un Francesco d’Assisi, così come l’ha potuto dipingere Cimabue nella chiesa inferiore di Assisi; piace non certo per la sua bellezza, ma perché è la rivelazione di una bellezza nuova che non ha nulla in comune con la bellezza puramente fisica, umana. La grazia rovescia davvero la natura: Dio si manifesta proprio, dicevo, nella bruttezza – non è bruttezza, però: è una bruttezza che è divenuta segno di una presenza, è insignificanza che è divenuta però lo strumento di una divina rivelazione».

Così Barsotti reinterpreta in profondità il senso della bellezza: la bellezza autentica, quella spirituale, può paradossalmente risplendere nella bruttezza fisica, come del resto si legge nelle Scritture riguardo al Cristo, il più bello tra i nati da donna che nondimeno – facendosi carico del peccato – ha perduto le sembianze d’uomo, cioè ogni fascino umano. Barsotti sa che Cristo Gesù impersona la gloria di Dio, cioè il suo dirsi e darsi nella storia umana, il suo rivelarsi come amore. E conformarsi al Cristo significa, di conseguenza, partecipare di questa gloria divina, di questo manifestarsi divino tramite una bellezza unica e singolare, che la pluriforme santità cristiana riproduce e prolunga a mo’ di caleidoscopio. Santità e bellezza si riverberano a vicenda. I santi e gli artisti sono spiritualmente imparentati. Da qui le litanie di santi che don Barsotti stila continuamente nei suoi scritti e in cui include anche letterati e artisti. Scrive a tal proposito il 28 novembre 1966, nel diario intitolato Battesimo di fuoco:

«Vi sono due tipi fondamentali di santità. In alcuni prevale il senso della profondità del mistero dell’uomo, in altri la visione della bellezza della creazione. San Paolo, sant’Ignazio, sant’Agostino, sant’Ignazio di Lojola sono i santi che hanno conosciuto l’uomo, che si sono affacciati nell’abisso dell’anima. Della loro famiglia sono Michelangelo, Shakespeare, Dostoevskij. Di altra famiglia spirituale sono san Francesco, san Serafino, san Giovanni della Croce, san Basilio, forse Origene. Appartengono a questa famiglia il Beato Angelico, Piero della Francesca, l’Ariosto, Virgilio, Dante medesimo».

I nomi che Barsotti elenca in questa sua litania sono altisonanti e noi potremmo rischiare di presumere che sia la santità sia l’esperienza artistica siano faccende troppo raffinate, al di là delle nostre personali energie e risorse, misure alte rispetto alle quali restiamo inadeguati. E invece Barsotti vuole dire proprio il contrario: in ogni tempo, pure nel nostro, tutti, anche ognuno di noi, possiamo e dobbiamo vivere una forte esperienza spirituale non meno di una radicale esperienza artistica, magari secondo uno stile diverso rispetto ai grandi santi e ai grandi artisti, ma non meno significativo. Dobbiamo avere un nostro stile di vita credente e fare una nostra esperienza artistica che la illustri coerentemente. In un laboratorio d’arte sacra, il 29 marzo 1963, Barsotti spiega ai partecipanti:

«Se le nostre chiese risalgono a stili precedenti vuol dire che non sono vive. Allora le nostre casule non devono essere uguali, nella decorazione, a quelle dei Cistercensi, perché la nostra vita religiosa non è quella. Oggi le cattedrali non ci sono più. Le cose più belle sono quelle più umili. L’arte sacra moderna si esprime nella cappella […]. La vita religiosa, se è autentica, ha un suo stile e voi dovete avere un vostro stile. Dovete vivere una vita così autentica da esprimervi con uno stile vostro, del vostro tempo, che deve portare in sé le attitudini dei valori vivi del mondo contemporaneo di cui fate parte».

3. La gloria rifulge più del male

 

Concludo, trattando più brevemente un terzo e ultimo punto, che riguarda il tema della gloria di Dio, espressione della somma bellezza, quella divina appunto. È la parte più teologica della riflessione estetica di Barsotti. E, come al solito, non ha nulla di ovvio o di scontato. A cominciare dalla problematizzazione della bellezza, allorché la si intende come bellezza del male. Barsotti, difatti, esaspera il paradosso che abbiamo prima segnalato: c’è una bruttezza fisica nella quale però si rivela la bellezza di Dio, come nel Crocifisso del Golgota si manifesta la gloria del Risorto (Gesù, nel vangelo secondo Giovanni, lo insegna a più riprese: quando sarò innalzato da terra, vedrete e saprete che Io Sono). C’è invece una bellezza fisica che opacizza la rivelazione della gloria divina, inducendo gli esseri umani a distrarsi da essa, a misconoscerla e persino a rifiutarla. È la «bellezza del male», come la chiama Barsotti: una «bellezza demoniaca», per dirla con i “poeti maledetti” che il Nostro cita, da Milton a Byron e Wilde, da Baudelaire e Rimbaud a Gide, una «bellezza sinistra», una «bellezza conturbante», «che lega alla terra» (1958).

 

La bellezza del male esprime l’«autosufficienza» dell’essere, che «si è chiuso alla grazia e ha affermato unicamente se stesso», «opponendosi a Dio, non abbandonandosi a Lui, non aprendosi ad accoglierlo: l’essere si è rifiutato all’amore». Succede che «le cose non rivelano più Dio, rivelano solo se stesse; chiuse alla grazia, impenetrabili all’amore divino, non manifestano che sé e legano il cuore dell’uomo a loro stesse». In realtà, questa bellezza negativa non è assoluta: è pur sempre conseguenza del fatto che Dio ha creato tutto ciò che esiste. Ma l’essere creato si chiude a Dio perché il «cuore umano» ne fraintende il significato: non percepisce più il creato come un segno che rimanda a Dio, bensì come un orizzonte chiuso alla trascendenza, dentro cui è l’uomo stesso – col suo peccato – a legare le creature a sé, al contempo legandosi a sua volta alle creature. La bellezza negativa, difatti, ha una motivazione amartiologica. Essa deriva dal peccato, dalla hamartía umana, vale a dire – biblicamente – da una svista, da un errore, da uno sbaglio madornale: equivale a travisare il creato, vedendolo – avrebbe detto Romano Guardini, un pensatore molto apprezzato da Barsotti – non con gli occhi di Dio, ma solo con uno sguardo umano «incurvato» sull’uomo stesso, aggiungeva don Divo. Nel 1958 egli chiariva questo concetto:

«Non l’hanno in sé le creature sensibili – i cipressi, i fiori, i monti, le valli, i fiumi – non hanno in sé una bellezza di male; la bellezza del male, queste creature, l’hanno in quanto esse son vedute da un peccatore. Le opere dell’uomo, invece, possono avere la bellezza del male non solo da parte di chi le vede, le osserva, le usa… ma anche da parte di chi le ha create».

Come, dunque, «immunizzarsi» dal fascino mortale di questa bellezza negativa? Tornando a guardare le cose con lo sguardo di Dio, cioè alla luce della rivelazione biblica, per riconoscerle quali sue creature e come segnali che a Lui rimandano, anzi come sacramenti del suo approssimarsi.

Il connotato più attendibile di ciò, o di colui, che rimanda veramente a Dio, è l’umiltà. L’infinitamente grande si rivela biblicamente nel suo contrario: non nel tuono che rimbomba, non nel fulmine che incenerisce, non nella tempesta che sovrasta e sommerge l’essere umano dentro lo scenario cosmico; bensì nell’eco del silenzio, vale a dire nel silenzio più silenzioso, come si può intendere l’espressione ebraica che leggiamo in 1 Re 19,12b: qôl demamah daqqah. La gloria di Dio spiegava a sua volta Barsotti in un capitolo del suo libro La presenza del Cristo (Vita e Pensiero 1969, pp. 224-246), consiste proprio in «quell’attributo divino onde Dio trascende tutte le cose ed è tuttavia comunicabile», in virtù della sua umiltà che lo spinge a rivelarsi sub contrario, nella kénosis, nell’abbassamento, nello svuotamento, nell’esinanizione: «Il cammino della gloria è precisamente un cammino di umiltà». Per questo l’Altissimo si rivela nell’umiliato. La benedizione si lascia udire come riprovazione. La santità stessa si sobbarca al peccato. La vita si dona fino a morire. E la bellezza divina si rivela in colui che perde ogni bellezza umana.