Alessandro BeltramiAlessandro Beltrami

The present contribution focuses to investigate the issue of the christian sacred and identifies on this crucial point four popular misunderstandings: the difference between christian images and images derivated from the Cristian ones; the trend, in the contemporary art, to use the Christian iconographic heritage depriving it of sense; the issue of the language in the debate about sacral art and, finally, the specific of the christian sacred.

Esiste una critica d’arte sacra? Se mi guardo attorno potrebbe sembrare che il tema del sacro sollecita interessi trasversali tra mondo cattolico e mondo laico. Le mostre, gli articoli (tra riviste, quotidiani e i diversi spazi online), i volumi ma anche i convegni non mancano. Le imposizioni della pandemia hanno rivelato il potenziale dell’online, con riscontri superiori alle attese. Si potrebbe avere la sensazione che il pictorial turn abbia rilanciato la centralità dell’immagine nel dibattito anche sotto l’aspetto del sacro. Persino la versione più discutibile, quella che affiora nei media di massa attraverso il registro dello scandalo, potrebbe essere un segnale, per quanto tenue e di bassa qualità.
Eppure per provare a dare davvero una risposta credo sia necessario articolare la domanda (che non solo è interessante ma anche giusta) in modo più esteso: esiste, si intende, una riflessione critica sulle questioni estetiche dell’opera d’arte che affronta il problema del sacro e in particolare del sacro cristiano? A me pare che l’elemento dirimente sia proprio nella distinzione finale, perché su questo punto sono diffusi diversi equivoci che minano alla radice gran parte delle riflessioni in cui si ha modo di imbattersi, tanto in ambito cattolico quanto laico: da questo punto di vista non ci sono sostanziali differenze. Nella sussistenza di questi equivoci a me pare che a una critica sull’arte sacra rischi di sfuggire proprio l’oggetto del discorso. Vorrei provare a esaminarne alcuni.

 

Un primo equivoco è tra “immagini cristiane” e “immagini di derivazione cristiana”. Le seconde sono abbondanti, ma vengono scambiate per le prime. Vorrei spiegarmi con una provocazione. Monsignor Adriano Bernareggi quando nel 1942 vietò al clero di visitare il Premio Bergamo con la Crocifissione di Guttuso, aveva ragione. Nella sua drasticità la minaccia della sospensione a divinis, oggi inconcepibile, fu un atto critico: il vescovo bergamasco aveva capito che la tela non è una Crocifissione. Non è un problema di giudizio estetico, ma di contenuto: quello di Guttuso, per quanto straordinario, non è un dipinto sacro ma piega il soggetto religioso a metafora. Quello messo in croce al centro non è Gesù Cristo figlio di Dio ma è “solo” un simbolo dell’uomo (con ogni evidenza, ciò non significa che un crocifisso “tradizionale” rappresenti automaticamente il primo, anzi…). La Crocefissione per Guttuso diventa denuncia della violenza e del sopruso nella storia, non la traduzione e nemmeno l’interpretazione visiva del passo evangelico: il registro narrativo è passato dalla storia al mito.

 

Nel campo della metafora laica rientrano molte se non gran parte delle Crocifissioni dipinte nel Novecento, eppure non sembra che in molti se ne siano accorti. L’equivoco sull’immagine del crocifisso – assumiamo questa come argomento perché esemplare – è di origine culturale. A determinare il fraintendimento è la forma dello sguardo. L’imprinting cattolico fa sì che, in modo automatico, ogni immagine di una figura “appesa a una croce” sia Gesù. L’imprinting laico, ma attivo in un ambito culturale storicamente cristiano, tende a subordinare (o ignorare) l’elemento teologico e più latamente religioso, pur anche avendone coscienza, rispetto all’elemento antropologico. Così lo sguardo di matrice culturale cattolica non solo impedisce di vedere in una rana crocifissa non Gesù ma esclusivamente una rana crocifissa “come Gesù”, ma anche di vedere in un crocifisso di Manzù solo un uomo sofferente. Allo stesso modo lo sguardo di matrice culturale laica, anche in termini retrospettivi (metaforizzando, cioè, immagini nativamente sacre), in una figura appesa a una croce non vede la figura di Gesù Cristo morto e risorto per la salvezza degli uomini, oggetto di fede per milioni di persone, ma un simbolo universale della sofferenza umana e della morte del giusto. L’oggetto è lo stesso, ma per gli uni è sempre identità, per gli altri è sempre metafora. Certo, si danno casi intermedi in cui l’immagine rimane simbolicamente spirituale ma priva di valore confessionale nonostante la precisione del rimando visivo. La sostanza del problema non muta.
In sintesi, come nella storia dell’arte troviamo personaggi mitologici e animali impiegati come figurae Christi, nel Novecento Gesù, divenuto materiale iconografico di pubblico dominio, diventa figura hominis. Nel primo caso questo non rende pagana l’arte cristiana come nel secondo non rende sacra l’arte laica. Il problema critico è allora capire in che modo il sacro dell’immagine cristica mantenga la propria linea germinale (cioè la prospettiva salvifica) o sia svuotato, trasformandosi da eikon a paradossale eidolon della secolarizzazione.

 

Al tema dell’iconografia è legato un secondo equivoco, che riguarda il patrimonio della tradizione e ha luogo quando la natura sacra dell’opera viene ridotta a cosa è rappresentato, ignorando l’indagine più profonda del come è rappresentato.
Il repertorio dell’iconografia cristiana è oggi parte di un oceanico immaginario condiviso e per questo diluito e svincolato dal senso originario. È un fatto particolarmente evidente in contesti culturali del tutto postcristiani o che con il cristianesimo hanno soltanto un rapporto di conoscenza secondaria, dove l’iconografia cristiana è repertorio di forme della storia dell’arte (occidentale), magari più o meno dotato di significati simbolici. Più in generale, nei casi peggiori il patrimonio iconografico è una soluzione a basso costo e di impatto sicuro: rientrano in questo campo le infinite parodie della Pietà di Michelangelo, che non di rado però si continua a guardare come se avessero attinenza con il “sacro”. Per esemplificare si può fare riferimento a un artista capace, dotato di una estetica molto precisa e che, per inciso, si professa cattolico praticante come David LaChapelle, sul cui lavoro i giudizi oscillano spesso con poche sfumature (ma in maniera molto indicativa del problema di una “critica d’arte sacra”) tra sacro e blasfemo. Io credo che non sia né l’uno né l’altro.
Dal punto di vista linguistico, quello di LaChapelle è un gioco citazionista con la storia dell’arte che in gran percentuale è fatta di immagini “sacre”.

 

David LaChapelleA LaChapelle queste interessano non per il loro contenuto (o almeno fino a un certo punto) ma soprattutto come dispositivo, bocconi golosi che tutti sono in grado di riconoscere, rimescolati in un mondo urbano che si vorrebbe degradato e invece è molto fashion. LaChapelle è artista abile nel rimescolare i codici. Michelangelo o Botticelli e i languori dell’erotismo pubblicitario s’incontrano in una dimensione favolosa e kitsch che ha come ambiente di coltura un linguaggio fumettistico e straoleografico tipico dell’immagine sacra nelle chiese – non solo cattoliche – nordamericane, a sua volta stretta parente dell’arte devozionale dell’Ottocento europeo. I Cristi vuoti e imbambolati di LaChapelle sono gli stessi di tanti Sacri Cuori oggi esposti alla preghiera. Il cristianesimo non è innocente in questo processo.
Pensiamo all’Ultima cena di Leonardo, ovviamente ripresa anche da LaChapelle, tanto citata in ambito laico (non solo arte ma cinema, pubblicità fino al merchandising) quanto in opere di “arte sacra”. L’innovativa iconografia elaborata da Leonardo, così attenta a scrutare la verità umanamente sconvolgente del fatto sacro, è stata depauperata, ridotta ad ammiccamento. Un effetto cominciato, l’aveva capito Andy Warhol, con l’incalcolabile moltiplicazione delle stampe popolari. La replicazione attuale del modello del Cenacolo anche nella pittura di ambizione sacra o destinata ai luoghi di culto (spesso salutata come legame con la grande tradizione) si fonda sullo sfruttamento della notorietà dell’immagine senza ripensarne le motivazioni profonde; rivela l’assenza di una riflessione sull’impiego di una fonte sì autorevole ma intensivamente sfruttata dalla cultura visiva secolarizzata; dimostra infine la carenza di fantasia e capacità di elaborare un discorso iconografico contemporaneo, nell’illusione che sia sufficiente riverniciare o dare una patina di cronaca all’immaginario prodotto nel passato. A ben vedere, quello che fa LaChapelle.

 

Un terzo equivoco riguarda il linguaggio. Non intendo solo l’obsoleto dilemma tra figurativo o aniconico, per quanto incredibilmente emerga ancora di quando in quando. E non intendo nemmeno solo la questione di un’arte rappresentativa e narrativa per quanto, altrettanto incredibilmente, si possa leggere che la Biblia pauperum sia un modello per l’arte sacra di oggi (ammesso che lo sia mai stata: il tasso del agiografia e favola, se non di eresie latenti, che infarcisce le historiae affrescate nelle chiese e dipinte sulle pale d’altare, con il conseguente stillicidio nella fede popolare, dovrebbe far riflettere. In ogni caso agiografia e banalizzazione, a discapito di storia e dottrina, oltre all’impatto popolare hanno fatto della fiction religiosa la vera erede della Biblia pauperum) – narrazione che per altro l’arte contemporanea io credo non sappia né voglia più davvero fare. Una critica dell’arte sacra che si soffermi su questi aspetti ritengo che sia fuori non solo dal problema del sacro ma anche dal proprio tempo.
C’è però a tutti gli effetti uno scacco dell’immagine, del quale la riflessione sull’arte sacra fatica a prendere atto. Un modo per evitarlo ci sarebbe ed è dare campo alle potenzialità che un secolo di ricerca artistica ha elaborato oltre l’oggettualità dell’opera, a partire dall’elemento performativo. Non si contano gli artisti il cui lavoro è costituito da azioni che coinvolgono la comunità. Perché alla Chiesa manca l’immaginazione di fare “arte sacra” di questo tipo? E perché come critica ne ignoriamo le possibilità? La liturgia non è già una straordinaria forma di arte performativa che coinvolge tutti i sensi?

 

Vale la pena sottolineare come le dimensioni del sacro abbiano svolto un ruolo importante nella storia delle performance. È centrale, ad esempio, in Gina Pane, in cui ritornano in modo costante il motivo della croce, il dono di sé, il corpo sofferente del martirio. Il suo è il concettuale più incarnato che si possa immaginare. E il più doloroso, per lei e per il pubblico, che non può non soffrire con lei. Sono processi empatici non dissimili da quelli attivati dai crocifissi. Le neuroscienze sostengono che per il soggetto percepire un’azione equivale a simularla interiormente e definiscono questo processo “embodied simulation”, ossia “simulazione incarnata”. Anche in questo ambito, però, ci possono essere molti fraintendimenti. Sono quelli, ad esempio, che coinvolgono il lavoro di Hermann Nitsch, spesso assimilato al cattolicesimo. Certo, qui il “sacro” è esplicito, ma quale? Non basta che le sue azioni siano costruite come liturgie con elementi iconografici cristiani. Nitsch inserisce la croce in un contesto rituale-sacrificale evidentemente pagano. Sono azioni misteriche: quanto di più lontano dal cristianesimo si possa immaginare.
BerniniLinguaggi estremi per le nostre comunità? In molti casi, sì. Ma non riesco a non pensare che anche l’Estasi di santa Teresa di Bernini sia tutt’oggi un’opera estrema. Il barocco aveva capito tutto: Dio arriva a noi attraverso il corpo. La comunità cristiana nasce attorno a un corpo. E riunendosi fisicamente (“Dove due o tre…”) convoca quel corpo in mezzo a sé. La comunità ecclesiale allora può capire, e non solo sapere, cosa voglia dire essere corpo mistico di Cristo solo attraverso il corpo.
La tradizione cristiana ha validi precedenti in ambito “paraliturgico”: i riti popolari della Settimana Santa, ad esempio, e soprattutto le viae crucis viventi. Se guardiamo a queste manifestazioni senza fermarci al folklore e all’ingenuità della tradizione e arriviamo al cuore, osserviamo che avviene un processo profondo di identificazione con il mistero della Salvezza attraverso il corpo. Un uomo è chiamato a identificarsi con il Cristo, tutta la comunità con la folla che l’ha condannato. La Chiesa si raccoglie materialmente ai piedi della croce. Questi Golgota di cartapesta hanno un grado di autenticità e di affettività che molti crocifissi esteticamente perfetti non hanno. Sono vere e proprie icone performative in cui la comunità da spettatrice ha l’occasione di sperimentare una forma, per così dire, di actuosa partecipatio all’immagine sacra. Queste viae crucis fanno della performance una struttura relazionale.

 

Tutto questo è un processo, il cui valore è nel divenire prima che nel prodotto finito. Come pure è una forma in perenne divenire il volto della comunità. E la comunità è tale solo se luogo di relazioni. È attraverso di esse, attraverso la loro costruzione e presa di coscienza, che la comunità scopre di essere volto di Cristo. Non tanto, quindi, quando proietta se stessa in un’immagine esterna, ma quando riconosce Cristo nel proprio fratello. Giuliano Zanchi ha recentemente scritto che “i paradigmi performativi dell’arte contemporanea sono tornati a dare all’arte uno statuto più vicino alla dimensione del rito-sacramento che a quella della figurazione-rappresentazione”. È azzardato pensare che una via di uscita per le varie impasse dell’arte sacra (anche quando si tratti di dipinto o scultura) possa essere lo spostamento del paradigma sacramentale dall’eucaristia (la presenza) alla Pentecoste, il soffio dello Spirito che dà vita e forma alla Chiesa, corpo mistico di Cristo?

 

Arriviamo così all’ultimo equivoco. In un certo senso contiene tutti gli altri e ha a che fare con il cuore della domanda: lo specifico del sacro cristiano. Un equivoco che, si badi, riguarda tutta l’arte cristiana, non solo quella più vicina a noi.
Il punto precedente mette profondamente in questione i paradigmi standard dell’arte sacra, legati alla sua funzione e alla sua storia, attraverso i quali si esercita di norma un discorso critico sull’immagine. Bisogna ammettere che molti dei discorsi sull’arte sacra da una parte sono infarciti di rimandi a una funzione salvifica della bellezza, ignorando le riflessioni sul problema della bellezza sollevato dal Novecento e la crisi dell’endiadi etico-estetica “bello e buono”. Dall’altra si sconta un approccio ancora di tipo neoplatonico: l’arte sarebbe un canale attraverso cui è possibile accedere a verità soprasensibili, un fatto sintetizzato con la formula “vedere l’invisibile”. Questo trascendere relega implicitamente in secondo piano, se non a un livello infimo, la realtà e con essa il corpo. È un equivoco pernicioso perché ripropone quei dualismi (anima/corpo, materia/spirito…) che invece l’incarnazione ha risolto. Infine il tipo di sacro lontano e impalpabile a cui fanno riferimento questi discorsi è spesso il ganz Anderes, il numinoso, o meglio la sua versione in dodicesimo: uno spirituale placido e luminoso. In ogni caso senza volto.

 

Non si nega che sia un’idea di sacro ma, se mi si permette, ha poco a che fare con la novità del sacro cristiano. Come ricordava padre Debuyst, Gesù è “al tempo stesso infinitamente ‘altro’ e particolarmente vicino”. Il sacro cristiano, dunque, è relazione. Relazione è il mistero della Trinità, relazione il mistero dell’incarnazione. Come esplicita Tommaso d’Aquino, “la creazione non è una mutazione, ma è la dipendenza stessa dell’essere creato in rapporto al principio che lo fa esistere. Essa appartiene quindi alla categoria di relazione”. Relazione è il cuore della liturgia uscita dal crogiolo del Concilio Vaticano II. Nessun velo da rimuovere, nessuna scala da salire, nessuna dottrina nascosta, persino nessun trascendere questo mondo per un altro. Il Deus absconditus dell’Antico Testamento nel Nuovo habitavit in nobis. “Chi ha visto me, ha visto il Padre”. Ma anche: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. “Non vi chiamo più servi (…) ma vi ho chiamati amici”. E infine: “Voi chi dite che io sia?”.

 

William CongdonPenso ai tanti Crocifissi di William Congdon, prossimi all’informale, nei quali la Storia si rapprende nei grumi di colore e nei colpi di spatola ma allo steso tempo la sofferenza non si riduce a metafora. Congdon risponde alla domanda rivolta da Gesù ai discepoli con un atto di fede.

Un “credo” apertamente riconoscibile nel dipinto ma che risuona in noi come un’altra domanda. Questi crocifissi, ma penso anche a quelli di un artista contemporaneo come Raul Gabriel, negano ogni appiglio narrativo, eppure trattengono chiusa nell’immane pressione dell’istante tutta la densità del racconto. Se in essi identifichiamo immediatamente il corpo crocifisso non è per scelte iconografiche ma perché la forza di queste opere risucchia, insieme allo sguardo, tutto di noi stessi nella loro profondità. L’identificazione della sacralità dell’immagine è dunque un riconoscere che non è dato da un’apertura di credito ma da un moto irresistibile, uno sbilanciamento che porta il sé verso e dentro l’altro. Non è un caso che in inglese atto di fede sia leap of faith, “salto di fede”. L’opera d’“arte sacra” non è un traino verso l’alto, quasi un “ascensore” di bellezza, oppure il luogo di una epifania univoca. È invece lo spazio di un incontro, e quindi di relazione, quasi in parità (perché empatico è il moto divino verso la creatura), di una risonanza tra il corpo, la storia e il “presente” di Cristo e il corpo, la storia e il presente dell’uomo.

 

Dunque l’arte sacra non è un problema di “rendere visibile l’invisibile”, semmai di “riconoscere ciò che è già visibile”: un atto sconvolgente e trasformante che si radica in tutti quei passi evangelici (dalla nascita a dopo la resurrezione) il cui cuore è l’agnizione di Gesù come il Cristo.
È questo il segreto – e non tanto il realismo o il gioco luministico, elementi facilmente replicabili in schemi e infatti ridotti a cliché da imitatori antichi e moderni – che fa di Caravaggio l’autentico maestro di un’arte sacra che non cessa mai di essere “contemporanea”. Nei suoi dipinti Michelangelo Merisi infatti mette in moto processi di tipo relazionale. Il fondo neutro o scuro serve a Caravaggio per portare tutto in primissimo piano, escludendo così il contesto (ossia il dettaglio narrativo e dispersivo), e concentrarsi integralmente sull’evento, illuminato da una luce mistica e fisica insieme. Il primo piano richiede poi l’elaborazione di strategie narrative. Caravaggio polarizza l’immagine, ma tiene Gesù sempre nel fuoco, anche se decentrato, generando gerarchie precise nella composizione. Nella Cattura di Cristo di Dublino la figura di Gesù attira tutti a sé come un magnete e argina il montare dell’onda di corpi.

 

Nella Cena in Emmaus di Londra Gesù è in fondo alla tavola, ma con il suo gesto michelangiolesco sembra avanzare conquistando il centro del prisma costruito dai corpi dei discepoli, con una “forza” tale che la fruttiera viene spinta oltre il bordo del desco tavola. Ovunque si trovi, Gesù è sempre il centro “reale” del quadro: ogni cosa converge (ossia è in conversione) verso il Cristo. È lui il nucleo della questione, ma non è lo stesso per tutti. Nella Cattura lo sguardo di Giuda ci dice che, nel baciarlo, riconosce in Gesù il Signore e perciò è già in preda al rimorso; un riconoscere che è poi nella mano che scatta sulla sedia per la sorpresa e l’emozione del discepolo a Emmaus. Ma per l’oste quello strano ragazzo sta soltanto compiendo un gesto assurdo, mentre per la soldataglia colui che le sta davanti è solo un facinoroso, un delinquente. In coda a questo gruppo c’è lo stesso Merisi, nei panni del portatore di una lampada: colui che cerca di fare luce eppure non riesce a illuminare nulla, mentre il flash accecante che ferma la scena per l’eternità cade dall’alto.
Nei dipinti di Caravaggio Gesù non è una didascalia e nemmeno una risposta. Prima di tutto è una domanda, alla quale anche noi siamo chiamati, come i personaggi sulla tela, a rispondere: “Voi chi dite che io sia?”.