Contrappunti teologici tra guerre e pandemie, a dieci anni dai nostri terremoti

SalvaraniBrunetto Salvarani

L’autore riflette sull’esperienza della fragilità, visibile nella terra maltrattata dall’azione dell’uomo, nella guerra che tutto distrugge, nella fragilità sperimentata durante la pandemia globale da Covid. Se da una parte la fragilità fa prendere coscienza dell’ineluttabilità della morte, dall’altra la conoscenza della mortalità, ineludibile, dopo gli ultimi tragici eventi di questo nostro tempo, conferisce un senso più grande alla vita. Quando ci si scopre fragili, quando vengono meno certezze, punti di riferimento, persone, luoghi, può avvenire qualcosa di nuovo. Nella sofferenza, è possibile che pensiero, cuore e azione, oltre a fare esperienza del limite, possano essere al centro di una rinascita interiore, di un più alto senso di umanità, di una cura e un amore per il mondo e per il prossimo che sorprendentemente ci introducono nel mistero dell’amore di Dio.
The author reflects on the experience of fragility, visible in the earth mistreated by the action of man, in the war that destroys everything, in fragilityexperienced during the global Covid pandemic. If on the one hand fragility makes us aware of the inevitability of death, on the other hand thethe knowledge of mortality, inescapable, after the last tragic events of our time, gives a greater meaning to life.

Abbiamo imparato che non possiamo concepire progetti nemmeno per l’indomani, che quanto abbiamo costruito viene distrutto la notte successiva e che la nostra vita, a differenza di quella dei nostri genitori, è diventata informe e frammentaria. Posso comunque soltanto dire che non vorrei vivere in nessun altro tempo che il nostro, anche se esso è così indifferente al nostro benessere esteriore.
(Dietrich Bonhoeffer, Lettera del 23 febbraio 1944)

Chi risiede in Italia ormai lo sa, che dobbiamo convivere con un territorio fragile, e sempre più maltrattato, purtroppo, dall’azione umana, assente, rinviata o sbagliata. Un evento quale un terremoto fa emergere, spesso drammaticamente, le contraddizioni che ci abitano da troppo tempo. Di fronte a esso, non vale appellarsi, leopardianamente, alla dimensione matrigna della natura, più che materna: c’è qualcosa di più. C’è una nostra responsabilità mancata. Ma non solo. C’è molto su cui sostare.

Vivere in prima persona l’esperienza di un sisma, di un’alluvione o di qualche altra catastrofe provocata dall’uomo – come quelle cui assistiamo in queste settimane, causate dall’invasione russa dell’Ucraina – ci può aiutare a prendere sul serio il dato, continuamente rimosso, della nostra costitutiva fragilità e del bisogno di rapporti interpersonali, in una stagione densa di passioni tristi in cui tendiamo a rifuggire dalle relazioni e a ritenerci pressoché immortali (eppure, il messaggio composto della pandemia globale da Covid e della guerra ucraina vissuta in diretta televisiva è trasparente, a volerlo capire). In realtà è a partire dalla coscienza dell’ineluttabilità della morte che l’uomo si comprende e si relaziona al mondo e agli altri, perché è propriamente nel mettere un limite alla vita che la morte le dà forma e possibilità di senso. Per quanto tendiamo, comprensibilmente, a non pensarvi, è un dato di fatto che solo ciò che muore è vivo, mentre ciò che non muore neppure vive. La certezza della morte (incerta omnia, sola mors certa, sosteneva sant’Agostino), sin dalla notte dei tempi alla base della cultura umana, è oggi posta radicalmente in discussione in Occidente, in quella che i sociologi descrivono paradossalmente come la società postmortale: una società insofferente dei limiti, che grazie alla tecnica e al progresso medico opera incessantemente per far indietreggiare la morte, di intervenire sulle sue cause, di modificarne le frontiere, di spingere oltre le barriere della longevità umana1.

Sì, il timore che di regola ci invade al tremare della terra, nostra madre secondo il francescano Cantico di frate Sole, dipende in primo luogo dal nostro saperci mortali, finiti, esposti: peraltro, viviamo in un senso comune che – imitando maldestramente Prometeo – ci educa a ignorare la lezione qoheletica e a trascorrere i nostri giorni rifiutando la nostra autentica natura. Peraltro, il sisma tende poi a favorire l’urgenza di raccontare e di raccontarsi, l’istinto di condividere e di sentirsi meno soli: non di rado, passata la fase acuta, ci si industria in diari, video e memoriali, sorgono blog appositi, e la funzione di rete collettiva dei social network emerge a tutto tondo. Ai tempi del terremoto emiliano del maggio 2012, era diventato un fatto consueto il ripristino del cosiddetto filos, come si chiama da quelle parti l’antico rito del ritrovarsi assieme la sera da parte dei familiari, per commentare le vicende del giorno sotto la guida compiaciuta del paterfamilias. Ormai desueto da gran tempo, in quei lunghi mesi estivi – complici la bella stagione, la penuria dell’offerta televisiva e la necessità di esorcizzare il più possibile la paura incombente della catastrofe definitiva – il filos, con annessa o meno tavola imbandita per far lievitare il tasso di convivialità, era tornato imperiosamente di moda. Bastava far due passi nel quartiere o nei parchi pubblici traboccanti di tende multicolori per incontrarne a decine: il volto umano del dramma in corso. In briciole, era probabilmente un modo, forse inconsapevole, per recuperare la sapienza che nasce dal riconoscimento del limite, non solo come fine, ma anche come confine, soglia, e dunque eventualità di una nuova genesi. Come ha scritto il poeta Franco Arminio, sopravvissuto alla tragedia dell’Irpinia, ripensando a quell’evento pur lontano: “A me, nei giorni che seguirono il terremoto, piaceva tutta quella gente per strada, tutti che si guardavano come se ognuno fosse una cosa preziosa. Ricordo che una sera quando ancora si dormiva nelle macchine mi sono fatto un giro, li ho benedetti uno per uno”. E se ha ragione l’illustre sociologa Danièle Hervieu-Léger a sostenere che stiamo attraversando un’era di passaggio dalla figura del religioso praticante a quella del nomade, mai come nei mesi del sisma ho personalmente raccolto voci di tanti che, semmai, non mettevano piede nelle chiesine dei loro borghi, ma soffrivano intensamente per la loro distruzione. Perché ci sono cose che abbiamo sempre sotto gli occhi, ma il loro valore si rivela solo quando le perdiamo. Quando tocchiamo con mano l’evaporare progressivo del senso di comunità.

Si badi, in situazioni simili la fede non si rivela (mai) un rifugio sicuro rispetto a chi non vi fa riferimento, né una sorta di talismano capace di offrire ai credenti un salvacondotto speciale di inviolabilità, da nessun punto di vista. Piuttosto, lì i cristiani possono sperimentare la verità di una fede nuda, spogliata di ogni retorica e di qualsiasi risposta a basso prezzo. In tal senso, l’esperienza vissuta delle scosse a ripetizione, o di una catastrofe di altro tipo, potrebbe persino rivelarsi un vero e proprio kairòs, il tempo opportuno di cui parla il Nuovo Testamento: tempo di un cambio di mentalità radicale, in cui siamo chiamati a rimboccarci non solo le maniche ma anche e soprattutto il pensiero e il cuore, riflettendo su quanto il pianeta sta provando a dirci con accadimenti di tale portata e accompagnando l’ovvia esigenza della ricostruzione materiale con i primi, timidi passi di una ricostruzione interiore, antropologica, intima. Così, trovare la forza di (tentare di) dare risposta alla presenza, alla potenza, alla pervicace credibilità del male è plausibile solamente quando si sperimenta l’incarnazione del bene in relazioni vitali, grazie alle quali torna a essere ragionevole riconoscere che di questo bene si dà sempre una fonte originaria. È qui che affiora l’ipotesi di un’apertura a Dio, e anche quella della sua paradossale fragilità, poiché l’idea tradizionale della sua onnipotenza deve essere messa da parte per i devastanti effetti della nostra debolezza senza riparo. Il filo conduttore da seguire è dunque quello dell’incarnazione. Ecco ciò che mi piace chiamare la fragilità di Dio: dove fragile non significa né inesistente né vano2. In realtà, chi scopre tale fragilità, e non se ne scandalizza, impara a cercare Dio laddove è Dio stesso che ci cerca: non nella potenza, non nel sovrannaturale, non in tutto ciò che ci evoca la staticità del sacro (pensiamo a quanto vissuto da Elia profeta in 1 Re 19, 11-12, un passaggio famoso), ma semmai nell’amore creativo, generoso, fedele, paziente, misericordioso.

Anche di fronte ai ripetuti terremoti del Centro Italia del 2016 sono affiorate, purtroppo, letture dell’evento che l’hanno collegato allo stato di peccato dell’umanità (quale, poi? quella coinvolta, o coloro che non ne sono stati minimamente intaccati?). Ritengo si tratti di un segnale, l’ennesimo, di quanto siamo distanti – parlo, per il poco che mi compete, alla mia chiesa, cattolica – dal prendere sul serio il vangelo e la sua radicalità scandalosa, da una parte; e dall’altra, di come siamo ancora abitati da una concezione della realtà sostanzialmente di stampo pagano, e dall’idea, superata anche nel quadro del Primo Testamento, di una giustizia divina totalmente retributiva. Rimando, per fare appena un esempio, all’episodio del cieco nato nel Vangelo di Giovanni (Gv 9, 1-41), che segnala la nostra necessità di razionalizzare, di trovare comunque una spiegazione agli avvenimenti dell’esistenza in chiave religioso-naturale. Assumere consapevolmente il messaggio di Gesù implica al contrario il superamento di qualsiasi meccanismo angustamente religioso per entrare in una dinamica di filialità di un Dio padre e madre: un Dio che non ci vuole schiavi ma figli, appunto. In tal senso, una catastrofe naturale non dovrebbe rinviarci tanto alla domanda, insistentemente replicata, su dove fosse Dio in quel frangente (su cui resta insuperata e insuperabile la risposta fornita dallo scrittore e testimone diretto Elie Wiesel ne La notte riferita alla morte per impiccagione dell’angelo dagli occhi tristi: Dio è lì, in quel ragazzo ucciso per mano umana, ad accompagnare il nonsenso che ci siamo costruiti da soli), ma dove sia l’uomo, dove la sua umanità, dove ciò che rimane della sua fede nell’umano.

Mi viene in mente, a tale proposito, l’enciclica di papa Francesco del 2015, la Laudato si’: “Noi non siamo Dio. La terra ci precede e ci è stata data” (n. 67). L’invito a “soggiogare la terra” contenuto nel libro della Genesi non equivale a favorire lo sfruttamento selvaggio della natura, come abbiamo costantemente fatto, mentre siamo chiamati “a riconoscere che ogni creatura è oggetto della tenerezza del Padre, che le assegna un posto nel mondo”. La terra, nostra casa comune, “protesta per il male che provochiamo a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla”. Servirebbe una conversione ecologica. In questa direzione, la salvaguardia dell’ambiente non può essere disgiunta dalla giustizia verso i poveri e gli scartati, né dalla soluzione dei problemi strutturali di un’economia che persegue soltanto il profitto. Bergoglio arriva a porci una domanda scomoda, in un passaggio dal sapore lirico, di una poesia delicata piena di speranza e di tristezza a un tempo, tutte racchiuse nel punto interrogativo finale: “L’autentica umanità sembra abitare in mezzo alla civiltà tecnologica, quasi impercettibilmente, come la nebbia che filtra sotto una porta chiusa. Sarà una promessa permanente, nonostante tutto, che sboccia come un’ostinata resistenza di ciò che è autentico?” (n.112). Ci si dovrebbe domandare: sapremo far nostro un simile interrogativo? Qui risiede la possibilità di operare per il futuro, senza rinchiudersi in una mala gestione di un presente troppo denso di disparità e ingiustizie…

In fin dei conti, mi pare che il segreto profondo e inesauribile della fragilità di Dio risieda nel suo caparbio intendimento di entrare in relazione con l’altro, nel suo volergli diventare amico. Dio è fragile, debole e indifeso perché ama, e l’amore – lo sappiamo bene – rende vulnerabili. Non è, dunque, onnipotente il povero Dio: non solo perché, come noi, non riesce a barcamenarsi nella tempesta del male, ma anche perché si scopre bisognoso dell’essere umano e, dunque, esposto al rischio di essere rifiutato. Il Dio debole è il Dio crocifisso che costituisce, insieme alla risurrezione, il cuore della rivelazione cristiana. Ma la debolezza di Dio si era già manifestata il giorno in cui Gesù nacque da una ragazza ebrea di nome Maria: nulla al mondo è più fragile di un neonato; è totalmente dipendente da altri e lasciato a se stesso sopravvivrebbe appena per poche ore. Così, la debolezza di Dio non caratterizza solo la fase conclusiva del ministero terreno di Gesù, ma anche quella iniziale. È come se Dio avesse voluto che l’itinerario terreno di suo figlio fosse racchiuso in due esperienze di debolezza radicale: la nascita e la morte. Tuttavia, l’esperienza della fragilità, se riusciamo a leggerla con gli occhi di Gesù, ci può davvero avvicinare a Dio; anzi, ci fa entrare nel mistero del suo amore, che è amicizia e libertà. È questo, a ben vedere, ciò che la tradizionale fede cristiana esprime confessando che Dio è Trinità: amore donato, accolto e a piene mani e senza distinzioni ovunque e in ogni caso testimoniato. Anche nelle situazioni limite, come testimonia la vicenda biblica di Giobbe. Persino durante un terremoto, una pandemia globale o una terribile guerra – una delle tante, peraltro, che insanguinano la nostra casa comune – che non accenna a spegnersi.


1. Ho riflettuto su questo tema nel mio Dopo, Laterza, Roma 2020.
2. Non posso che rimandare, al riguardo, al volume collettaneo da me curato La fragilità di Dio, EDB, Bologna 2013.